L’EMENDAMENTO DI BORGES: NON SOLO MEDIA E NON SOLO CONTENUTI

Nel 1999, concludendo il progetto editoriale di Rainews 24, il primo network All News di un servizio pubblico televisivo che veniva distribuito in simulcast, ossia parallelamente via Internet, in streaming, e sui ripetitori televisivi tradizionali, raccolsi i materiali di quell’esaltante esperienza in un libro che insieme a Edoardo Fleischner e Pierluigi Boda intitolammo Internet, la madre di tutte le tv [2].

Eravamo proprio all’inizio della fase di quella tumultuosa convergenza che oggi ha reso i due mondi, la rete e la televisione, sovrapponibili e, per larga parte, ormai indistinguibili. Ma già allora ci parve evidente sottolineare le differenze e le distinzioni che affioravano, persino in quello stadio iniziale, fra un media, quale la televisione lineare (il classico broadcasting, ovvero la radiodiffusione circolare di segnali audio e video) che trasmetteva da uno a tanti, rispetto un prolungamento della vita, quale ormai è Internet per tutti noi, che procede invece mediante connessione uno a uno, da tanti a tanti.

L’elemento che riuscimmo a cogliere nel progetto del nuovo canale, e a trasformare in uno standard di ingegnerizzazione editoriale, con un format quale un flusso all news che si appoggiava per la prima volta sulle fonti di rete che poi vari anni dopo avremmo imparato a definire come social, era proprio il fatto che dalla rete affioravano, allora in maniera ancora approssimativa ma già visibili, esperienze e testimonianze della vita quotidiana di un pulviscolo di utenti, che coincidevano, spesso, con le preziose notizie a cui si dava la caccia.

Ma questa coincidenza non si risolveva in un’assoluta identificazione. Le esperienze non erano notizie ma testimonianze di vite che potevano poi diventare base di un raccontoLa rete cominciava ad essere un amplificatore di quelle innumerevoli cerchie locali di relazioni con cui si cominciava a vivere.

In quel circuito si formavano, nel brusio, anche informazioni sotto varie forme, prima solo testuali, poi anche audiovisive.

I meriti del Manifesto

Mi pare utile questo richiamo nella discussione attivata meritoriamente dal manifesto per i media di servizio pubblico e per Internet di servizio pubblico[3] promosso da centinaia di intellettuali di tutto il mondo fra cui Noam Chomsky e Juergen Habermas, e rilanciata giustamente da Democrazia FuturaIl manifesto mette in evidenza un aspetto che continuiamo a trascurare, ossia le forme di dominio culturale che attraversano la rete e arrivano ad interferire direttamente con i nostri comportamenti, dando una potenza e pervasività del tutto inedita al sistema della comunicazione.

Il secondo punto che il documento propone con grande lucidità e passione è la responsabilità pubblica nell’equilibrare le forme di potere privato che stanno monopolizzando il mondo digitale.

L’intervento di un interesse pubblico che apra spazi e istituisca procedure che rendano i meccanismi tecnologici trasparenti e condivisi è oggi la principale emergenza che abbiamo dinanzi, come la pandemia, con la sua fame di dati e soluzioni tecnologiche quali il contact tracing, ci ha dimostrato.  Senza una rete aperta e trasparente si muore, è il messaggio che abbiamo ricavato da questa terribile esperienza.

Le mie critiche al Manifesto

A questo punto però credo sia utile entrare nel merito e manifestare i miei dubbi sulla struttura e contenuto del manifesto che proprio per l’autorevolezza dei promotori e la strategicità dell’oggetto non può rimanere sospeso in un limbo di un generico compiacimento. Proprio il titolo del manifesto mi sollecita una serie di rilievi e di quesiti che mi piacerebbe discutere nella nostra comunità di Democrazia Futura.

Manifesto per i media di servizio pubblico e per l’Internet di servizio pubblico: così recita il titolo del manifesto.

Tutto si gioca sulla congiunzione, su quell’ ”e” che collega i media ad internet nella più generale strategia di servizio pubblico in entrambi i casi. Questa relazione mi pare che tenda, seguendo i punti che raccolgono le raccomandazioni del documento, ad identificare i due concetti, estendendo, per analogia, alla rete le cautele e le tutele che si vogliono salvaguardare nel sistema mediatico.

Questa analogia che produce un atteggiamento pedagogico, tipico della cultura di servizio pubblico radio televisivo degli anni Sessanta, mi pare del tutto anacronistica e dannosa, proprio per i fini che il manifesto si propone, come appare dal principio 2 che leggiamo nel testo che stiamo analizzando

“Un Internet che rafforzi la democrazia richiede che i media di servizio pubblico diventino piattaforme Internet di servizio pubblico che aiutino a promuovere le opportunità e l’uguaglianza nella società. Chiediamo la creazione delle basi legali, economiche e organizzative di tali piattaforme”.

A me pare che sia l’inverso di quanto capisco da questa frase: sono i media che possono migliorare se si trovano contestualizzati in una infosfera, come la definisce Luciano Floridi, in cui l’azione di ognuno dei miliardi di utenti possa svolgersi con la massima autonomia e sovranità sui linguaggi prescrittivi che la rete pone attraverso i suoi sistemi di calcolo.
Su questo punto, ossia che sia la modalità di sviluppo della calcolabilità delle nostre azioni a decidere tutto torno fra in momento. Questo processo di canalizzazione di tutte le nostre emozioni e relazioni in un unico imbuto formato dalla commistione di software e dati è stato bene sintetizzato dal giornalista del New Yorker Malcolm Gladwell che in un suo famoso articolo del 2010 intitolato “Small change. Why the revolution will not be tweeted”  si chiedeva perché gli attivisti “in passato erano individuasti per le cause che sostenevano ed oggi , invece sono definiti dagli strumenti informatici che utilizzano?“[4].

La rete, dicevamo non è un medium, ma una protesi della nostra vita, un luogo di intreccio e di ibridazione, che va oltre persino alla suggestione del metaverso, che riproduce in codici virtuali attività e funzioni tradizionali. La rete estende, sostiene, amplia, e alimenta la vita concreta con flussi di relazioni e di connessioni che danno all’individuo una visione del mondo e una personalità relazionale assolutamente inedita.

La diversa geometria trasmissiva dei contenuti

In questa azione di supporto  ai nostri comportamenti la rete rovescia completamente la geometria trasmissiva dei contenuti che non procede più in modalità top down, dall’alto in basso, da un centro ad una massa di telespettatori, ma invece, come abbiamo già detto, anima un’infinità di contatti diretti che definiscono quello che Albert-Laszlò Barabasi nel suo libro Link definisce un grafo, ossia, “un insieme di vertici e nodi connessi da spigoli o link”[5].

In questa figura, spiega Barabasi, citando Borges, “tutto fa parte di tutto “. Ogni singolo contenuto riflette in qualche modo la contaminazione che riceve da tutti gli altri contenuti, e l’insieme dei contenuti, a sua volta, sono il risultato della pressione che agisce su di loro da parte degli algoritmi che organizzano e disciplinano il fluire di quanto viene pubblicato. Tutto fa parte di tutto.

In questo processo contaminante, una vera infodemia potremmo dire, agiscono, come viene di fatto denunciato dal manifesto, poteri dominanti che usurpano linguaggi e tecnologie nate come trasparenti e condivise, privatizzandole in una proprietà concentrata in pochissime mani. La matrice di questa proprietà la potenza di calcolo.

La rete è una forma di quella relazione che la fisica quantistica definisce entanglement, per cui due particelle che sono venute in contatto rimangono permanentemente collegate nella loro evoluzione. Il collante che congiunge e lega tutte le particelle è la capacita di calcolo che permette di personalizzare ogni singola attività per ognuno dei miliardi di utenti sulla base della raccolta e rielaborazione permanente dei dati. In questa commistione di dati e calcolo risiede il potere di profilazione e indirizzo della rete nei confronti di ogni singolo nodo del grafo.

In questo quadro l’affermazione che leggo al principio 5 del manifesto che recita

“L’Internet di servizio pubblico richiede nuovi formati, nuovi contenuti e una fertile cooperazione con i settori creativi delle nostre società”

appare o ingenuamente tautologica o fuorviante.

I contenuti non determinano il senso comune nella rete

Non sono i contenuti, tanto meno quelli che dai media tradizionali che si sono trasferiti on line e che rappresentano secondo diverse stime non più del 2 per cento del traffico complessivo di Internet, che determinano il senso comune, o una modalità di pensiero e di orientamento, come pure è capitato in quella volatile parentesi dominata dai mass media, a cavallo degli ultimi due secoli che abbiamo alle spalle, quanto l’attrito fra gli algoritmi e le nostre sinapsi.

È Sigmund Freud, con il suo dualismo fra es e io, più che Marshall McLuhan che ci può essere utile. E più di tutti e due questi giganti, direi  solo Albert Einstein, come testimonial della capacità di interferire nei processi cognitivi del calcolo.

Il calcolo è l’arbitro della nostra vita, e la rete ne è lo schermo che lo rende visibile. Se come, ormai venti anni fa, Manuel Castells, nella sua monumentale trilogia sulla società in rete, ci annunciava la nuova era “dell’autocomunicazione di massa” in cui il potere è solo una relazione, anzi come precisava l’autore “un processo”, il divenire di questo processo lo possiamo distinguere ed esercitare solo attraverso la padronanza, o, per meglio dire, l’adeguamento, a quella condotta neurologica che ci viene indicata dai sistemi di calcolo che oggi chiamiamo intelligenza artificiale.

In questo ambiente la dinamica fra editore e utente, e ancora di più, fra media e opinione pubblica, viene del tutto scompaginata, come abbiamo visto nei fenomeni storici più recenti, dalle elezioni americani del 2016, con l’avvento di Cambridge Analyytica, oppure la pandemia, gestita attraverso forme di calcolo e di predizione della dinamica del contagio, oppure, in questi terribili giorni, la resistenza ucraina che attraverso l’uso decentrato di tecnologie di geo referenziazione o di collegamento orizzontale su territorio, tiene testa alle armate russe.

Per tutto questo non mi sogno certo di contestare il grido di allarme che viene da tanti spiriti eletti e meritori che hanno promosso e firmato il manifesto. Come ultimo della fila di una ben più significativa scuola di pensiero a cui aderisco umilmente, mi permetto solo di sollecitare un’integrazione di quella voce della coscienza libera e critica che si esprime attraverso questo documento: non solo media e non solo contenuti, si potrebbe intitolare la mia raccomandazione.

Quale strategia adottare negli anni Venti per civilizzare il sistema digitale

Al centro di una strategia che riproduca la mobilitazione che negli anni Ottanta si sviluppò in Europa e in particolare proprio in Italia, in difesa del servizio pubblico radiotelevisivo, oggi va posta una capacità di esercitare diritti di cittadinanza digitale mediante forme di conflitto sociale e negoziazione civile proprio dei sistemi di calcolo.

L’Europa già si è mossa con l’approvazione di norme, quali di DGPR, per regolare l’uso dei dati, e i due provvedimenti in approvazione proprio in queste settimane come il Digital Service Act, e il Digital Market Act, che danno base concreta e credibile all’ambizione di socializzare la rete e i suoi meccanismi. Ma non può e non deve essere solo un intervento legislativo a civilizzare il sistema digitale.

Se come abbiamo detto la rete rispetto ai mass media muta proprio la qualità del ruolo di ogni singolo utente che si vede autorizzato a collocarsi su un piano paritario con i produttori e le istituzioni, allora bisogna trasferire questa ambizione di equipollenza dei poteri dal piano pubblico istituzionale a quello delle proprietà private.

Il sistema della comunicazione, come ci insegna proprio Juergen Habermas, è uno spazio pubblico di persone, in cui il titolo proprietario è un vincolo del tutto futile e marginale.

Proprio l’accessibilità e la trasparenza di contenuti e servizi, che pure è sollecitata dal manifesto, deve diventare condivisibilità di dati e algoritmi che sono, per loro natura, beni pubblici non cedibili o privatizzabili.

Come per i vaccini la consapevolezza piena da parte degli utenti e delle comunità che li rappresentano, penso alle città o alle università o alle categorie professionali, debbono far valere costantemente il controllo critico sulla dinamica dell’evoluzione del sapere.

Senza un’infrastruttura pubblica che possa controllare e mediare il learning machine degli algoritmi e la dinamica di ibridazione dei dati noi saremo sempre più subalterni e sottomessi a quel dominio che un grande filosofo come Remo Bodei, nella sua ultima opera, intitolata proprio Dominio[6], considerava la grande sfida della società della comunicazione.

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[1] Michele Mezza, L’emendamento di Borges: non solo media e non solo contenuti. Qualche considerazione critica sul manifesto per l’Internet di servizio pubblico”, Democrazia futura, II (6-7), aprile-settembre 2022.

2 MICHELE MEZZA, EDOARDO FLEISCHNER, PIERLUIGI BODA, INTERNET, LA MADRE DI TUTTE LE TV : IL PROGETTO RAINEWS 24, ROMA, RAI ERI, 244 P.

4 Malcolm Gladwell “Small change. Why the revolution will not be tweeted”, The New Yorker, 27 settembre 2010. Cfr. https://www.newyorker.com/magazine/2010/10/04/small-change-malcolm-gladwell.

5 Albert-Laszlo Barabàsi, Link. La scienza delle reti, Torino, Einaudi, 2004, VII-254 p. Edizione originale: Linked: The New Sci- ence of Networks, New York, Perseus Group, 2002, 280 p.


[6] Remo Bodei, Dominio e sottomissione, Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale, Bologna, Il Mulino, 2019, 407 p.

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