Quale futuro è possibile?
Sedici/A Hermes Storie di geopolitica – Mondo
Andrea Ricciardi, studioso di storia contemporanea
Pensieri in libertà, lontani dalle visioni manichee dominanti nella nostra carta stampata su “un anno di massacri” ci propone lo storico contemporaneista Andrea Ricciardi partendo dall’operazione “alluvione Al Aqsa” (dal nome della più grande moschea di Gerusalemme), perpetrata un anno fa da Hamas sino al recentissimo “culto della violenza “purificatrice” che [a parere dell’autore] anima l’azione del governo di Israele la cui reazione, praticamente per tutte le cancellerie (non solo per Macron), è inaccettabile per le modalità e le proporzioni tra offesa e difesa.
9 ottobre 2024
Il 7 ottobre 2023 Hamas, dopo aver lanciato dalla striscia di Gaza più di 5000 razzi, iniziava l’operazione “alluvione Al Aqsa” (dal nome della più grande moschea di Gerusalemme), attaccando con almeno 1.500 uomini il sud d’Israele, uccidendo 1195 persone (di cui 815 civili) e sequestrandone 254, di cui 229 civili, senza incontrare ostacoli. Superficialità dell’intelligence israeliana? Errori marchiani dei vertici militari? Nessun altro servizio segreto, compreso quello egiziano, era a conoscenza del progetto? Il piano aveva interessato migliaia di persone, è davvero strano che non vi fosse alcun sentore di un evento così clamoroso e devastante, che avrebbe favorito i “falchi” di ogni parte, come infatti è avvenuto fino ad oggi.
Quest’ultimo aspetto deve far riflettere sui risvolti politici del 7 ottobre, che ha consentito a Netanyahu di rafforzare la sua scricchiolante posizione di vertice che, a guerra in corso, non può essere scalfita. La strage dà inizio a una terribile escalation militare, di cui purtroppo non si vede la fine. Israele, l’8 ottobre, dichiara lo stato di guerra, la prima volta dalla Guerra del Kippur (1973), il 26 ottobre l’esercito entra a Gaza. L’IDF, guidato dal governo Netanyahu – con 101 ostaggi ancora nelle mani di Hamas (37 sono stati uccisi, 117 liberati grazie all’unica tregua concordata) – da allora a Gaza ha provocato la morte di quasi 42.000 persone, di cui circa 20.000 tra donne e bambini. Sono 1,9 milioni gli sfollati (cioè il 90 per cento della popolazione) mentre gli aiuti umanitari in pratica sono cessati, considerati i bombardamenti e l’impossibilità di continuare ogni attività anche negli ospedali, rasi al suolo. Qualche centinaio i soldati israeliani morti negli attacchi a Gaza, migliaia i civili sfollati nelle zone di confine.
Il conflitto, intanto, si è allargato: Israele è entrato in Libano, dove finora ci sono stati circa 2000 morti, ma anche questo numero “oscilla”, come tutti gli altri. In Libano si trova il grosso di Hezbollah (letteralmente “Partito di Dio”) che, con Hamas e l’Iran (paese non arabo ma guidato da una teocrazia sciita che perde consenso interno), celebra con orgoglio il 7 ottobre 2023. Non è chiaro di cosa ci si possa inorgoglire se solo si considerano le riprese effettuate un anno fa dagli stessi miliziani di Hamas, impegnati a soffermarsi sugli occhi terrorizzati delle loro vittime e sui cadaveri di giovani donne e uomini presentati come macabri trofei. Ma lo stesso culto della violenza “purificatrice” anima l’azione del governo di Israele la cui reazione, praticamente per tutte le cancellerie (non solo per Macron), è inaccettabile per le modalità e le proporzioni tra offesa e difesa. In queste ore aumentano le truppe israeliane in Libano e si attende una nuova rappresaglia contro l’Iran, ma quale sarà la sua reale entità? Alimentando la spirale di vendette, si può davvero risolvere qualcosa?
Anziché accettare le numerose risoluzioni dell’ONU da ben prima del 7 ottobre 2023, frenare le violenze giornaliere dei coloni in Cisgiordania contro i palestinesi, che devono avere uno Stato sovrano riconosciuto anche da Israele, Netanyahu segue la linea dell’estrema destra che sostiene il suo governo, improntata all’integralismo religioso. Una forma di fanatismo che ha generato da lunghi anni violenza e abusi e che è speculare all’integralismo islamico. Un integralismo che regola la politica di quella parte del mondo arabo per cui Israele è un paese da cancellare e i palestinesi, in concreto, non sono un popolo da difendere (e da accogliere) attraverso una politica costruttiva, ma un mezzo per accrescere – con cinismo – influenza e potere vista la debolezza dell’ANP. Per il governo di Netanyahu, invece, i palestinesi quasi non sono persone. Per l’estrema destra israeliana sono solo un pesante intralcio alla conquista di una grande terra promessa da Dio al popolo ebraico, secondo un’ interpretazione della Bibbia.
Una vera democrazia è tale solo se è laica. Altrimenti, al netto delle proteste dei cittadini contro le politiche del governo, che dimostrano l’esistenza di opinioni e sensibilità diverse nella società dello Stato ebraico (come tra gli ebrei che vivono nel resto del mondo), Israele si avvicina pericolosamente a una sorta di teocrazia, simile a quelle che dice di voler sconfiggere nel nome della libertà e del suo diritto ad esistere. Negli Stati autoritari e totalitari non si risponde dei reati gravissimi compiuti dai detentori del potere, reati come i crimini di guerra di Netanyahu, di Hamas e di tutte le forme di terrorismo cieco e disumano, che venga da uno Stato o da una milizia transnazionale. Quando si teorizza o si persegue concretamente la cancellazione di un popolo, ebraico o palestinese che sia, il futuro non può che essere cupo. L’unica strada da perseguire, nonostante le grandi e innegabili difficoltà anche di ordine pratico, è l’accettazione della diversità, il rispetto degli altri e della loro cultura. In caso contrario, con il successo del fanatismo (ovunque parente stretto di nazionalismi e sovranismi), che giustifica la tortura e annulla la politica, cresce ogni forma di razzismo e di discriminazione.
La comunità internazionale ha superato a fatica due guerre mondiali e, considerato anche il conflitto russo-ucraino (un milione di morti da quando è scoppiato nel 2022), deve trovare una soluzione politica al rebus mediorientale per evitare la terza. Chi ha in mano le chiavi dell’economia e della finanza, soprattutto attraverso il controllo delle armi e delle risorse energetiche, determina la stragrande maggioranza degli equilibri (o meglio squilibri) geopolitici. Le grandi potenze, in Nord America, in Europa e in Asia, oggi devono favorire la pace, che si costruisce necessariamente tra nemici. I paesi più influenti, che fin quasi dalla sua fondazione orientano l’ONU limitandone la credibilità e l’efficacia attraverso i veti incrociati nel Consiglio di sicurezza, devono farsi carico di risolvere concretamente, e non attraverso appelli vuoti e intrisi di retorica, una situazione terrificante, che rischia di condurre il pianeta verso l’autodistruzione.
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