Roma, 9 settembre 1943: sta spuntando il giorno quando in Via Napoli, vicino all’ingresso secondario del Ministero della Guerra, compaiono un gran numero di automezzi civili e militari. Ci sono autoblindo, autocarri per il trasporto delle truppe, automobili di grossa cilindrata con targhe civili. Nell’edificio sta accadendo qualche cosa di importante, ma pochi sanno di che si tratti esattamente. Alle 4,30 esce dal portone un vecchio signore con un leggero cappotto indossato sulla divisa da generale e una valigetta in mano. Accanto a lui una donna anziana, più alta di una ventina di centimetri, e subito dopo un altro anziano signore, pure in divisa da generale.
Sono Vittorio Emanuele III di Savoia con sua moglie Elena che hanno trascorso la notte per motivi di sicurezza all’interno del Ministero, nell’appartamento riservato al Ministro, e il generale Paolo Puntoni, aiutante di campo del re. Nell’atrio del Ministero sono raggiunti da altri uomini in divisa: il principe ereditario Umberto di Savoia, il gen. Pietro Badoglio, Capo del Governo, il duca Pietro d’Acquarone, ministro della casa reale, il gen. Gamerra, aiutante di campo di Umberto, gli ufficiali d’ordinanza del re e del principe Campello e Litta – Modigliani, altri ufficiali di grado inferiore.
I soldati presenti nell’androne corrono a vedere cosa sta succedendo, riconoscono il re e la regina ma non si rendono conto di cosa significhi quella strana riunione. Dura poco: tutti prendono posto sulle autovetture con targa civile che, precedute da una autoblindo, si allontanano rapidamente dall’edificio e si dirigono verso il quartiere San Lorenzo da dove imboccheranno la Via Tiburtina. Ha inizio il lungo viaggio verso Brindisi, un episodio circondato ancora oggi da molti misteri che alcuni documenti divenuti recentemente accessibili negli Stati Uniti possono forse aiutare almeno in parte a dissipare.
L’allontanamento del re dalla capitale non era frutto di una decisione presa all’ultimo momento: fin dal 28 luglio Vittorio Emanuele II aveva dato disposizioni affinché tutto fosse pronto per lasciare Roma nel caso vi fosse stato il pericolo di essere catturat dai tedeschi: temeva, come disse al suo aiutante di campo gen. Puntoni, di fare la stessa fine del suo consuocero, re Leopoldo del Belgio, preso prigioniero dalle truppe del Reich al momento della invasione del suo Paese. Non era da escludersi che presto avvenisse altrettanto in Italia: erano iniziate infatti le trattative segrete con gli Alleati per un armistizio che ponesse fine ad una guerra ormai perduta ed era prevedibile una reazione germanica alla defezione dell’Italia.
Già prima del 25 luglio 1943 (e della fine quindi del regime fascista) erano molti tra i comandanti militari e gli appartenenti alla casa regnante a rendersi conto che la guerra era ormai perduta e che l’unico problema era come uscirne. Ambrosia, Capo di Stato maggiore generale, consapevole della disastrosa situazione militare, aveva tentato di indurre Mussolini ad essere chiaro con gli alleati tedeschi: o inviavano aiuti consistenti di uomini e mezzi sul fronte italiano o l’Italia sarebbe stata costretta a chiedere una pace separata. Mussolini non volle – o non ritenne di potere seguire – la linea di condotta suggerita da Ambrosia che si rivolse allora al Re, ma non riuscì a smuoverlo – almeno apparentemente – da una posizione di distacco dagli awenimenti.
Ciò che Ambrosia probabilmente ignorava è che fin dal maggio 1942 Badoglio si era messo in contatto con i servizi segreti inglesi per verificare la possibilità di un armistizio, così come avevano fatto, secondo documenti inglesi, Aimone d’Aosta, il generale Enrico Caviglia e la nuora del Re, la principessa Maria Josè, moglie di Umberto di Savoia, che aveva scelto come possibile intermediario
Salazar, il dittatore portoghese. Perfino Ciano aveva percorso la strada di una trattativa di pace con l’Inghilterra: gli inglesi però si dimostrarono decisi a richiedere, anche contro il parere di Churchill, la resa senza condizioni ed i tentativi italiani non ebbero successo.
Subito dopo il 25 luglio 1943 e la cattura di Mussolini il governo Badoglio aveva fatto un tentativo diplomatico per giungere ad un armistizio. Su istruzioni del Ministro degli esteri Raffaele Guariglia due diplomatici, il marchese Blasco Lanza d’Ajeta e Alfredo Serio, avevano preso contatto per incarico del governo italiano con le ambasciate inglesi, rispettivamente a Lisbona ed a Tangeri, ed avevano prospettato la possibilità di un armistizio descrivendo a fosche tinte la situazione dell’Italia, costretta a continuare a combattere con i tedeschi nel timore, in caso contrario, di un colpo di stato che avrebbe facilmente abbattuto il fragile regime post – fascista.
Secondo una recente testimonianza, autorevole anche se indiretta (Giorgio Runi) fu redatto un vero e proprio testo dell’armistizio proposto: a scriverlo materialmente sarebbe stato in parte lo stesso Guariglia ed in parte il card. Maglione, Segretario di Stato di Pio XII, al quale il Ministro degli esteri italiano si era rivolto per un consiglio ed un aiuto nella difficile circostanza. Della redazione del testo non esiste alcun riscontro in altre testimonianze né alcuna prova documentale: l’episodio è però importante in sé stesso in quanto indicatore di un intervento della Santa Sede nelle trattative di pace, forse al di là di quanto finora accertato e che, come vedremo, non è da escludersi abbia riguardato anche l’allontanamento da Roma del re e dei suoi più diretti collaboratori.
Il tentativo di Guariglia fallì per l’intransigenza inglese: subentrarono nella trattativa i generali, ben consapevoli della disastrosa situazione militare.
Il 3 settembre 1943 a Cassibile, un paesino della Sicilia, fu finalmente firmato un armistizio tra il gen. Castellano, a nome di Badoglio, e il gen. Bedell Smith, a nome di Eisenhower, comandante in capo delle truppe alleate: fu l’inizio di un tragico gioco di ambiguità e di equivoci.
Castellano assicurò gli alleati che gli italiani avrebbero combattuto contro i tedeschi con l’appoggio degli alleati, che da parte loro si impegnavano ad effettuare uno sbarco a sud di Roma e ad inviare una divisione aerotrasportata che con l’aiuto delle truppe italiane avrebbe occupato rapidamente la capitale.
La firma dell’armistizio fu da Badoglio e dal re tenuta rigorosamente segreta: l’accordo con gli alleati era che la notizia sarebbe stata data solo dopo l’effettuazione dello sbarco alleato in modo da cogliere di sorpresa i tedeschi e facilitare così la riuscita dell’operazione militare.
Fu solo questo il motivo del segreto o non vi fu anche un preciso disegno da parte di Badoglio e di Vittorio Emanuele III di sconfessare l’armistizio qualora fosse stato necessario richiedere l’aiuto delle truppe germaniche per reprimere una sollevazione popolare contro la monarchia, alimentata dalle forze politiche di sinistra, che traesse spunto dalla fine delle ostilità e dell’alleanza con i nazisti? Badoglio indicò la ragione del segreto nella presenza negli alti gradi dell’esercito di un numero notevole di ufficiali filotedeschi, fatto questo risultante anche da un memorandum del generale Carboni, capo di stato maggiore e contemporaneamente capo del S.I.M., il controspionaggio militare e quindi ben al corrente della situazione nelle forze armate.
A favore della tesi di Badoglio stanno i tentativi di alcuni gerarchi fascisti di riprendere il potere con l’appoggio dei tedeschi. Ai primi di agosto erano stati arrestati Giuseppe Bottai ed Achille Storace, ex segretario del P.N.F., con l’accusa di essere a capo di un complotto che aveva questo scopo: si poteva pensare che fascisti e tedeschi
avrebbero trovato facilmente, alla notizia dell’armistizio, una intesa per combattere l’ormai comune nemico.
E’ comunque certo che il 6 settembre fu deciso da parte italiana di non dare corso alle operazioni necessarie per il controllo di due piccoli aeroporti militari nelle vicinanze di Roma (Furbara e Cerveteri) dove sarebbe dovuta arrivare la division aerotrasportata, in quanto, secondo il rapporto del gen. Roatta, capo di stato maggiore dell’esercito, le truppe italiane non sarebbero state in grado di fronteggiare, per i tre o quattro giorni necessari per lo sbarco della divisione aerotrasportata americana, la reazione delle truppe tedesche. Il generale Maxwel Taylor, comandante della divisione, giunto a Roma la notte del 7 settembre con un altro ufficiale e con il capo del servizio segreto della Marina americana Erno Maggiori per prendere accordi sulla missione da compiere, incontrò il gen. Carboni, al quale era affidata la difesa di Roma, che gli comunicò l’impossibilità da parte italiana di dare attuazione al piano.
Alle due del mattino dell’8 settembre Taylor lasciò Roma senza alcuna speranza a proposito della collaborazione italiana alla realizzazione del piano: sollecitato da Carboni, aveva inviato un telegramma ad Eisenhower per chiedere la proroga dell’annuncio da parte alleata dell’armistizio.
La richiesta della proroga celava l’incertezza del re e del Governo a proposito della lotta contro i tedeschi: Eisenhower non cadde nel tranello e rispose che l’annuncio dell’armistizio sarebbe stato dato alle 18.30 dello stesso giorno 8 settembre.
Lo stesso giorno il re convocò al Quirinale il consiglio della corona. Erano presenti, oltre al re, il primo ministro Badoglio, i generali Ambrosia, Carboni, Puntoni e De Stefani (quest’ultimo al posto di Roatta e da lui inviato). Vi erano anche i tre ministri
militari, De Courten della Marina, Sorice della Guerra e Sandalli dell’Aeronautica. I tre ministri misero subito le mani avanti: dell’armistizio non sapevano niente.
Mentre la riunione era in corso, Radio Algeri diede notizia dell’armistizio. Carboni propose di sconfessare l’armistizio, dandone la responsabilità a Badoglio che avrebbe agito all’insaputa degli altri. Ambrosia si dichiarò d’accordo: l’essenziale era, a suo awiso, non affrontare i tedeschi in una situazione di assoluta inferiorità. Il maggiore Marchesi, ufficiale addetto di Ambrosia, fece notare che gli Alleati avevano filmato la firma e conservano tutti i documenti firmati dagli italiani: smentire tutto avrebbe significato perdere completamente l’onore.
Il re rimase colpito dal ragionamento del giovane ufficiale: si allontanò per dieci minuti e quando tornò annunciò che sarebbe stato mantenuto fermo l’armistizio firmato il 3 settembre.
Che cosa accadde in quei dieci minuti?
Quali contatti ebbe il re, tali da indurlo ad assumere un atteggiamento molto fermo a proposito del rispetto dei patti sottoscritti? E’ un mistero che dura ancora oggi e che ha dato luogo a molte illazioni in riferimento agli awenimenti successivi. Può essersi trattato di una assenza per motivi banali o per riflettere sulla decisione da prendere, ma può essere stata dovuta anche alla necessità di avere garanzie a proposito del suo allontanamento da· Roma per sottrarsi ai tedeschi che certamente, dopo la diffusione della notizia dell’armistizio, avrebbero cercato di catturarlo. Il piano elaborato da tempo prevedeva il trasferimento alla base de La Maddalena, in Sardegna, unica regione sotto il controllo italiano e mai occupata dalle truppe tedesche. Due cacciatorpediniere, il Vivaldi e il Da Noli ebbero l’ordine di essere pronti il 9 mattina a Civitavecchia per imbarcare il re e coloro che lo avrebbero seguito. La famiglia reale si trovava già in Svizzera da tempo ad eccezione della principessa Mafalda, rinchiusa in un campo di concentramento tedesco, dove morì, e di Maria Josè, che ai primi di settembre fu inviata con i figli nel castello di Sarre, in Val d’Aosta, da dove poi raggiunse anche lei la Svizzera.
In Svizzera si trovava anche dai primi di settembre la famiglia Badoglio e quella d’Acquarone: fin dal mese precedente erano giunti a Ginevra 41 vagoni merci cari_chi di mobili e suppellettili della casa reale. Abbondanti fondi (circa 20 milioni di lire del tempo) erano stati prelevati dal re tra agosto e settembre e da Badoglio (circa dodici milioni) dalla Banca d’Italia. Si trattava dunque di un piano ben congegnato, studiato nei particolari, a garanzia non solo del re e della sua famiglia, ma anche di coloro che gravitavano intorno a lui come Badoglio e d’Acquarone con le rispettive famiglie e che tendeva ad assicurare loro l’uscita dal tunnel dell’armistizio.
I tedeschi ne fecero saltare le premesse: per ordine di Kesserling 1’8 settembre occuparono la zona costiera a nord e a sud di Roma, compreso il porto di Civitavecchia. Imbarcarsi per la Sardegna non era più possibile: restava solo la possibilità di lasciare la città via terra, attraverso una delle 18 strade che confluivano a quel tempo nella capitale. Fu scelta la Tiburtina – Valeria, verso Tivoli per poi dirigersi verso Pescara nelle cui vicinanze, ad Ortona, sarebbe avvenuto l’imbarco per Brindisi sulla corvetta Baionetta.
Perché fu scelta questa soluzione? Quale garanzia di riuscita aveva un piano così frettolosamente preparato, quando i tedeschi mostravano già di voler reagire al “tradimento” italiano? E’ un mistero che nessuno, per quanto accurate siano state le ricerche, è finora riuscito completamente a chiarire. Vi sono tuttavia alcuni dati di fatto certi e che pertanto non possono essere ignorati nella ricostruzione della vicenda.
Proprio mentre la colonna con il re e Badoglio iniziava il viaggio, il gen. Roatta impartì alle truppe motorizzate che presidiano Roma l’ordine di abbandonare la città e di ripiegare verso Tivoli per evitare di esporre “città e cittadinanza a gravi e sterili perdite”, come si legge nel testo dell’ordine impartito. Fu anche stabilito che le truppe già in movimento verso Roma fossero in parte deviate a proteggere la Via Tiburtina? dove sarebbe dovuta passare la colonna di autovetture con quella del re, con tanto di guidancino reale, in testa.
Fu solo una coincidenza o si trattò di un ordine rientrante in un disegno più ampio il cui oggetto principale era la buona riuscita del viaggio reale attraverso una zona già occupata dalle truppe tedesche?
Prima di arrivare a Tivoli il convoglio fu fermato cinque volte ad altrettanti posti di blocco, di cui due tedeschi ed uno composto da militari tedeschi e da appartenenti alla Milizia. Ogni volta l’autista del re ripeteva affacciato al finestrino le parole “Ufficiale generale”, quasi fosse una parola d’ordine, e le autovetture venivano lasciate passare. Dopo alcune brevi soste dopo Tivoli, il convoglio di fermò nelle vicinanze di Chieti al castello di Crecchio di proprietà dei duchi di Bovino, amici di Umberto di Savoia, per rifocillarsi e decidere come e verso dove proseguire il viaggio. Per quanto assurdo possa sembrare, nessuno sapeva cosa esattamente sarebbe accaduto dopo l’arrivo a Pescara.
Può essere questa una conferma, anche se indiretta, che la decisione di abbandonare Roma fu presa effettivamente nel consiglio della Corona dell’8 settembre e forse dal Re durante la breve assenza dal Consiglio della Corona, previa assicurazione di via libera verso l’Adriatico essendo divenuto impraticabile l’imbarco dalle sponde del Tirreno. Tutto il resto era affidato alla buona sorte.
E’ infatti difficile credere che fu solo per caso, per fortuna, per disorganizzazione delle forze armate tedesche che il convoglio non fu bloccato dai tedeschi, benché ripetutamente fermato a cinque posti di blocco e anche sorvolato a bassa quota da aerei tedeschi nelle vicinanze di Arsoli. Può essere che la vicenda si sia svolta tutta all’insegna della casualità e della buona sorte, ma è possibile anche ipotizzare unq scenario diverso, quello cioè di un accordo segreto tra il re e Badoglio da una parte ed i comandanti tedeschi dall’altra in base al quale le truppe tedesche sarebbero entrate a Roma senza trovare resistenza in cambio del transito fino all’imbarco a Ortona del re e del suo seguito.
Di un patto in questo senso ha fatto cenno nel 1984 il colonnello Eugen Dollmann, colonnello delle S.S. e rappresentante di Himmler in Italia (v. Aga Rossi). Secondo Dollmann, Kesserling, comandante delle truppe tedesche in Italia, decise di accogliere la sua idea di lasciare libero transito al re ed ai suoi generali per evitare combattimenti con l’esercito italiano che avrebbero potuto ostacolare la lotta tedesca contro gli alleati. Un ordine di Kesserling in questo senso non è però mai stato trovato, né il generale tedesco vi fece cenno durante il processo a suo carico che si svolse a Venezia nel 1947, quando avrebbe potuto addurre a suo favore quel fatto.
Molto facili sono state quindi le successive e ripetute smentite sulla esistenza di quel patto, sostenuta per la prima volta nel 1964 da Ruggero Zangrandi nel libro “1943: 1’8 settembre”, che suscitò molte polemiche e valse al suo autore una condanna.
Il punto debole della tesi a proposito della esistenza di un accordo segreto è costituito dalla individuazione dell’eventuale intermediario tra le parti, non potendosi ovviamente pensare ad un contatto diretto che avrebbe comportato grossi rischi per gli interlocutori tedeschi tenuti ad una ferrea disciplina militare sotto l’occhio vigile di Hitler ed alla quale non sfuggivano nemmeno gli ufficiali di grado più elevato.
Un intermediario possibile tuttavia esisteva ed era la Santa Sede, ben presente in tutta la complessa trattativa armistiziale, fino all’intervento decisivo per la dichiarazione di Roma “città aperta”, il 15 agosto 1943, da parte del Governo Badoglio.
Documenti recentemente resi pubblici negli Stati Uniti consentono di aggiungere l_!n ulteriore tassello alla ricostruzione delle vicende dei giorni dalla fine di agosto e l’inizio del settembre 1943. William J. Donovan, direttore dell’O.S.S. (Office of Strategy Service, il servizio di spionaggio militare statunitense), che nel 1935 aveva conosciuto Badoglio in Etiopia, dove si era recato per una delle tante riunioni segrete per conto del suo governo, aveva un suo uomo in Vaticano: era il frate domenicano Felix Morlion. Ma a Donovan premeva avere la collaborazione di uno stretto collaboratore di Papa Pio XII che aveva stretti rapporti anche con antifascisti come Alcide De Gasperi che operavano nella clandestinità: quell’uomo era Mons. Giovanbattista Montini, il futuro Paolo VI, che accettò di divenire un punto di riferimento in Vaticano degli S.U.A. e fornì agli americani già nel 1943 notizie riservate sulla situazione italiana e sulle informazioni che giungevano in Vaticano da Berlino e da Tokio.
Difficile ritenere che l’allora Mons. Montini potesse svolgere questa attività senza poter contare su una rete di collaboratori in Vaticano: collaborava ad esempio con lui Mons. Ronca, che durante l’occupazione tedesca farà funzionare ben due radio clandestine della resistenza. L’organizzazione antinazista presente in Vaticano intervenne anche a proposito del re e di Badoglio da Roma? Non è da escludere a questo proposito un intervento inglese: il primo ministro inglese Wiston Churchill era legato da amicizia personale a Badoglio, tanto da farlo accogliere nell’ambasciata inglese a Roma per sottrarlo nel 1944 ad un ventilato arresto per la mancata difesa di Roma e da pretendere dal Presidente del Consiglio Bonomi una dichiarazione ufficiale che non si sarebbe proceduto ad una incriminazione ufficiale dell’ex Presidente del Consiglio.
D’altra parte la monarchia inglese tendeva quasi naturalmente ad assumere la tutela di quella italiana, contro qualunque pericolo che la minacciasse: nulla di straordinario quindi per un eventuale – e peraltro mç1i dimostrato – intervento indiretto inglese per garantire il re e Badoglio rispetto alla loro eventuale cattura da parte tedesca. L’accordo con i tedeschi – se vi fu – funzionò perfettamente. Dopo la sosta nel castello di Crecchio il re, la regina, Umberto di Savoia, Badoglio e alcuni alti ufficiali si trasferirono all’aeroporto di Pescara, mentre Ambrosia e Roatta si recarono a Chieti e vi insediarono un comando prowisorio.
Nella palazzina del comando dell’aeroporto il re tenne il consiglio della corona per decidere la prossima meta e come raggiungerla. Unico punto certo era che solo la Puglia, già in parte occupata dalle truppe alleate, offriva possibilità di asilo. Fu scartata la possibilità di un viaggio aereo nel timore di trovare gli aeroporti occupati dai tedeschi e scelto il trasferimento via mare, con navi che sarebbero dovute arrivare e che due aerei ricognitori stavano cercando di awistare nel mare adriatico. Il principe ereditario fu convinto dopo molti sforzi a proseguire il viaggio: voleva tornare a Roma, unico a rendersi conto che lasciare la capitale in quel momento significava mettere in gioco la credibilità della monarchia, con esiti imprevedibili.
Finalmente nel pomeriggio del giorno 9 giunse a Pescara la corvetta Baionetta: Badoglio e De Courten si imbarcarono subito. Per evitare l’assalto alla piccola nave da parte delle centinaia di alti ufficiali arrivati nel frattempo a Pescara per imbarcarsi, fu deciso che il re, la regina e le persone comprese in una lista compilata da Roatta per ordine di Ambrosia, sarebbero salite sulla nave a mezzanotte ad Ortona, una località vicino Pescara.
La corvetta arrivò, anche se in ritardo, due pescherecci traghettarono a bordo della nave le persone prescelte (57 in tutto) e la nave finalmente partì. Fu deciso di dirigersi verso Brindisi, porto che si accertò con un radiomessaggio non era occupat9 dai tedeschi. Durante il viaggio la nave fu sorvolata da un aereo da ricognizione tedesco, uno Junker 88; non accadde nulla. Secondo una testimonianza (Zangrandi, pag. 196) il re dichiarò successivamente “Pensai che l’aereo fosse venuto per sganciare una bomba su di noi, ma dopo avere compiuto il riconoscimento si allontanò”. Torna la domanda: riconoscimento di chi? Perché dopo averlo compiuto l’aereo si allontanò? Ancora una volta torna ad emergere il dubbio circa l’esistenza di un patto segreto con i tedeschi a proposito del buon esito del viaggio.
Alle ore 16 del 1O settembre il re e tutti coloro che l’accompagnavano sbarcarono a Brindisi: il giorno 11 l’agenzia di informazione Stefani informava che Badoglio era assente da Roma “in seguito a ispezioni militari che richiedono la sua personale presenza”. Nessuna informazione sul re, che per gli italiani si trovava ancora al Quirinale. Nel pomeriggio del giorno 1O al Ministero della guerra a Roma fu firmato l’armistizio con le truppe tedesche ma i combattimenti di civili e militari italiani contro i tedeschi durarono alla periferia della città fino al giorno 13, con più di 400 morti tra gli italiani ed un numero imprecisato di caduti tedeschi.
La capitale poteva essere difesa? L’abbandono della città da parte del re, del Presidente del Consiglio e degli alti gradi militari servì veramente a garantire la continuità dello Stato o non fu un atto vile e privo di qualunque dignità? Esiste un collegamento tra i due fatti – l’occupazione della città da parte dei tedeschi e il trasferimento del re – nel senso di essere l’uno causa ed effetto dell’altro in base ad un patto segreto tra il sovrano e Kesserling contratto attraverso intermediari restati sconosciuti? Sono quesiti che restano aperti ancora oggi, dopo più di mezzo secolo dallo
svolgimento di quegli avvenimenti, anche se non sono mancati i tentativi di accertare le responsabilità, sotto il profilo giuridico, dell’abbandono della capitale da parte di chi deteneva il potere politico e quello militare.
Fin dal 1944 lo spazio si dimostrò molto stretto. Fu esclusa subito la possibilità di far valere la responsabilità del Re, Capo dello Stato e Comandante Supremo delle Forze Armate in quanto tutelato dall’art. 4 dello Statuto del Regno – l’Italia divenne Repubblica solo nel 1946 – che dichiarava la persona del re “sacra ed inviolabile”. Incriminare Badoglio era impossibile, dopo la dichiarazione ufficiale di rinuncia ad agire in questo senso richiesta (ed ottenuta) dal Governo inglese al Presidente del Consiglio Bonomi. Roatta e Carboni furono processati per alto tradimento. Carboni, durante l’istruttoria a suo carico, denunciò (24 maggio 1947) al Tribunale militare di Roma Baodglio, Ambrosie, Castellano, Roatta, l’ex ministro della difesa Sorice ed altri ufficiali.
Le accuse erano alto tradimento, abbandono del posto di comando, rifiuto di combattere, disubbidienza, viltà, resa colposa e denigrazione dello stesso Carboni. Badoglio e Sorice, in quanto ministri in carica all’epoca dei fatti non furono nemmeno formalmente incriminati, mentre gli altri chiamati in giudizio furono assolti in sede istruttoria (19 febbraio 1949).
Roatta, arrestato nel 1944 per i crimini commessi in quanto capo del S.I.M. (Servizio Informazioni Militari) dal 1934 al 1936, non vide nemmeno la fine del processo: fuggì infatti dall’ospedale militare ospitato nel liceo “Virgilio” a Roma e si rifugiò prima in un convento e poi in Spagna.
La sentenza che lo condannava all’ergastolo emessa il 12 marzo 1945 dall’Alta Corte di giustizia per la punizione dei crimini fascisti fu cassata dalle Sezioni Unite della Cassazione il 6 marzo 1948.
La fuga di Roatta ebbe grande importanza per la ricostruzione giudiziaria dei fatti: era colui che aveva dato l’ordine alle truppe di abbandonare Roma e quindi persona, se effettivamente ci fu un piano con i tedeschi per il trasferimento del re e del suo “circolo” di generali, che non poteva non essere al corrente di quel piano in quanto il suo ordine ne costituiva condizione essenziale di efficacia.
Le cose non andarono meglio a proposito dell’accertamento delle responsabilità politiche. Una commissione d’inchiesta sulla mancata difesa di Roma, nominata nell’ottobre 1944 dal Presidente del Consiglio Bonomi e composta dall’Aw. Mario Palermo, comunista, sottosegretario alla guerra, che la presiedeva, e dai generali Pietro Ago e Giuseppe Amantea condusse un lavoro importantissimo per la ricostruzione dei fatti, interrogando quasi tutti i protagonisti noti e meno noti della vicenda (Carboni rifiutò di essere interrogato ed il re, in quanto tale, non poté essere convocato).
Nella relazione consegnata il 5 marzo dell’anno successivo al Ministro della guerra, la Commissione mise in luce, anche se in forma attenuata, le responsabilità avute nello svolgimento dei fatti dal re, da Badoglio e dal Comando supremo militare a proposito della mancata difesa della capitale dai tedeschi: dalla relazione seguì solo l’incriminazione di Roatta e Carboni, poi assolti. Il Governo italiano si era impegnato con gli alleati a mantenere segreta la relazione che fu successivamente depositata presso la Camera dei deputati e divenne consultabile solo nel 1985, anche se di essa si conobbero ampi stralci quando nel 1965 copia di essa fu depositata presso il Tribunale di Varese nel corso di un processo contro Zangrandi per il volume “1943: 25 luglio – 8 settembre”. Nella relazione non c’è traccia di un accordo segreto per la mancata difesa di Roma e il trasferimento a Pescara.
Carboni raccontò la sua verità in un libro pubblicato nel 1954 con il titolo “Più che il dovere”, accusando Badoglio di aver negoziato con i tedeschi la resa in cambio della possibilità di abbandonare Roma senza problemi da parte dei tedeschi. Badogliq, ancora in vita, non lo querelò. Carboni aveva fatto analoghe affermazioni durante l’interrogatorio subito nel corso del processo subito per alto tradimento: in quella occasione aveva però genericamente parlato di “voci” a proposito di istruzioni date a Calvi di Bergolo di trattare con i tedeschi. Anche Kesserling, nelle sue “Memorie di guerra” parla di trattative per la resa condotte da parte italiana da Calvi di Bergolo, ma fissa l’incontro al 9 settembre, quando il re e Badoglio già si trovavano a Pescara.
La testimonianza di Carboni, anche se tardiva, è affidabile? Non esistono elementi che consentano né una risposta positiva né una negativa. Certo è che probabilmente Carboni non raccontò tutto ciò di cui era a conoscenza: secondo alcuni (Corvisieri) aveva rapporti così stretti con i servizi segreti americani che gli fu offerta a guerra finita addirittura la cittadinanza statunitense ed un incarico di responsabilità nei servizi di quel Paese. Stando così le cose, non è possibile che la Capitale non fu difesa contro i tedeschi senza che gli alleati non ne fossero al corrente e non avessero dato il loro assenso, nel quadro di un preciso piano di garanzie fornite alla monarchia.
La difesa di Roma, in questo quadro, era questione interamente secondaria: il destino della capitale faceva parte di una strategia più complessa e ad essa non poteva non essere sacrificato.
Vaticano, servizi segreti, generali, con al centro il re e Badoglio e sullo sfondo un Mussolini liberato il 9 settembre dalla prigionia sul Gran Sasso, pronto a riprendere la guerra dello Stato con l’appoggio tedesco: ci fu un disegno organico, un patto, un compromesso che tutti finiva in qualche modo per riguardare e che ebbe il punto nodale nel trasferimento del re, di Badoglio e di un gruppo di generali italiani da Roma prima a Pescara e poi a Brindisi e nella mancata difesa della capitale dai tedeschi o tutto si svolse all’insegna del caso, della mancata programmazione dei comportamenti, e della buona fortuna?
Sono domande destinate a restare ancora senza una risposta certa.
SEGNALIAMO
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