Una giovane ragazza viene rapita e brutalmente uccisa dal suo (altrettanto giovane) ex fidanzato che dichiarava di non poter vivere senza di lei.
Sulla scia della giustificata indignazione si apre un susseguirsi di dichiarazioni e interventi in talk show. Come spesso capita in Italia in questa discussione collettiva si accumulano fenomeni di carattere diverso, posizioni politiche anche di carattere strumentale, accuse e difese di parte.
Quel che appare certo è che stiamo vivendo un momento di passaggio.
Nella storia della questione femminile e il suo rapporto con la violenza maschile ci sarà un “prima di Giulia” e un “dopo Giulia”.
Purtroppo, però, risulta ben chiaro che molte posizioni espresse in questi giorni sono strumentali alla volontà di apparire e di guadagnarsi un posto nella sovrabbondanza di comunicazione che ci circonda.
Da qui la necessità (e forse l’utilità) di distinguere le cose per imparare anche a difendersene.
La terribile morte di Giulia potrebbe essere l’occasione per leggere in profondità il mostro e il suo sfaccettato rapporto con il resto della società.
Per prima cosa credo che occorra istituire una categoria della mostruosità specifica per la fenomenologia del “predatore sessuale” che appare decisamente in crescita.
Alcuni anni fa una vecchia signora che dormiva da anni sotto i portici di Piazza Vittorio a Roma venne aggredita e violentata in loco.
Si trattava della situazione meno sessualmente attraente che si possa immaginare. La signora era conosciuta e benvoluta da tutti, non esibiva alcunché e dormiva per la strada solo per drammatici motivi di carattere economico.
Cosa spinge il predatore, dunque, se non la natura di possibile preda della sua vittima?
Che si tratti di non italiani scarsamente integrati (come nel caso di piazza Vittorio) o di maschi di buona famiglia perfettamente inseriti nella società la risposta sta, evidentemente, fuori dal corretto e normale dialogo di natura sessuale.
L’atto significativo è il riuscire a disporre del corpo femminile come prova del proprio potere di natura maschile.
Riecheggiano in questi atroci rituali di possesso i riferimenti, sepolti nella memoria biologica, del maschio che conferma il suo dominio sull’ambiente in virtù della capacità di possedere, e conseguentemente ingravidare, le femmine del branco.
Si trattava, di tutta evidenza, di un comportamento legato alla riproduzione della specie, premiando nel suo percorso il maschio che dimostrava di essere il più geneticamente dotato di tutti.
Insomma, siamo nella zona di comportamento che la specie umana condivide con le altre specie animali disseminate sul pianeta Terra.
Non è una cosa piacevole, ma occorre farci i conti.
Un numero crescente di studi dimostra che gli esseri umani controllano, nonostante quel che ritengono, una parte assolutamente minoritaria dei milioni di circuiti e scambi elettronici che si muovono costantemente nel nostro cervello.
Vi è dunque una immensa area sia di percezione che di decisioni direttamente operative che costituisce una parte fondante del nostro essere nel mondo ma che si determina in maniera indipendente dalle nostre decisioni e dalla nostra volontà.
Si può forse ritenere che codesti comportamenti “bestiali” si collochino in questa area dove convivono con altri comportamenti di tutt’altra natura e indirizzo.
Affrontare questo livello di discorso può risultare fastidioso e sgradevole.
Facilmente si può ritenere, infatti, che esso possa suonare come giustificativo dei comportamenti che si vuole condannare.
Gli atti di predazione sessuale potrebbero risultare come non derivanti da atti di consapevole volontà (quindi punibili) ma da pulsioni elettromagnetiche irresistibili.
Del resto, questa è la contraddizione in cui si muovono oggi tutti gli studi sulla attività cerebrale. Gli stessi che vi si dedicano sottolineano spesso come i concetti giuridici di volontà e consapevolezza andranno tendenzialmente in collisione con gli avanzamenti delle conoscenze in materia di dinamiche cerebrali.
È importante tuttavia sottolineare come non soltanto non vi sia una responsabilità di carattere collettivo o sociale nei confronti di quelli che qui chiamiamo predatori sessuali, ma che nei confronti di questo particolare tipo di mostri non vi è educazione o informazione che tenga.
Il branco di maschi che trascina una donna dopo averla stordita e la usa sessualmente non ha alcun rapporto con la sfera della affettività e non pratica alcun riconoscimento di genere.
L’aberrante fenomeno può essere combattuto solo su due piani.
Il primo è quello giuridico processuale. Nonostante quanto esposto in precedenza non possono essere concesse ai predatori le attenuanti e le linee di difesa che legittimamente si usano per gli altri reati.
Una quarantina di anni fa si ottenne il passaggio dal “delitto contro la morale” al delitto contro la persona.
Oggi la violenza sessuale dovrebbe essere ulteriormente aggiornata a “delitto contro l’umanità”, anche a sottolineare il suo disporsi in un’area bestiale e antiumana.
Altrettanto fondamentale dovrebbe essere la diffusione del profondo disprezzo per tali comportamenti.
Disprezzo diffuso, esplicitamente e personalmente manifestato. Un disprezzo capace di superare le determinazioni processuali per condannare usque ad mortem chiunque si renda colpevole di tali atti.
Una logica del genere collide, di tutta evidenza, con il principio filosofico e giuridico per cui è meglio un colpevole in libertà di un innocente in galera.
Si intravvede il rischio di non accertare il grado di colpevolezza o di innocenza determinandolo in base alla resistenza o alla condiscendenza della donna violentata.
Ma occorre affermare il principio che non si fa e basta.
L’utilizzazione sessuale di altri esseri umani non in condizione di negare il consenso è un crimine contro l’umanità e contro la società.
Contro tutti noi, insomma.
Molto più complesso è il discorso sulla violenza (che può giungere sino all’omicidio) quando vi sia o vi sia stato un rapporto di intesa amorosa fra due persone.
Qui i comportamenti sociali, famigliari e genericamente culturali contano ovviamente molto di più.
Per prima cosa va osservato che una gran parte della Terra è oggi governato da culture religiose e politiche che esplicitamente attribuiscono al maschio un diretto potere sulla donna, moglie o figlia che essa sia.
Non si tratta di residua patriarcalità ma di un sistema organico e ben costruito.
La convinzione che la femmina appartenga al maschio non porta necessariamente con sé anaffettività e rinuncia al discorso amoroso.
Costruisce però il fondamento di un comportamento che giustifica il controllo e, se ritenuto necessario, anche la sopraffazione.
Non possiamo non considerare che oggi tali atteggiamenti sono diffusissimi anche nelle società occidentali e che forse funzionano anche da “esempi” che anche il maschio non islamizzato vorrebbe imitare.
Su tutt’altro piano si colloca, sempre negativamente, il crescere nell’uomo della consapevolezza di inferiorità nei confronti delle donne.
Alla affermazione della parità di diritti fa seguito, nel lavoro come nella famiglia come nella vita sociale, la evidenza di una superiorità femminile mai verificata in precedenza.
Da tempo l’importanza nel lavoro della forza fisica (attribuita maggiormente ai maschi) è venuta bruscamente diminuendo.
Nel corso degli ultimi anni non vi è maschio che non abbia dovuto riconoscere la superiore resa femminile negli aspetti più importanti della vita e della stessa riproduzione sociale.
Purtroppo, però, riconoscere non vuole dire accettare.
Si è istituito di conseguenza uno strano braccio di ferro collettivo, in cui ogni affermazione, professionale o meno, di una donna è stato vissuto come ritirata o comunque come concessione da parte dei maschi che detenevano quello specifico territorio.
In questo senso uno dei vantaggi derivanti dalla crescita della Intelligenza Artificiale sarà legato al fatto che essa non applica valutazioni di genere ma solo di efficacia.
Altrettanto importante è la modificazione profonda del rapporto con l’apprendimento sessuale da parte del genere maschile nelle nuove generazioni.
Per millenni, da millenni la percezione della sessualità femminile è stata faticosa e talvolta persino dolorosa.
La donna appariva, ed era, portatrice di un potere superiore legato alla capacità di procreazione.
Entrarvi correttamente in contatto implicava un percorso di apprendimento e un profondo cambiamento di se stessi.
Entrambi questi fattori erano di fatto sottoposti alla approvazione della donna che li aveva determinati ed ispirati.
Un rapporto amoroso, fortunato o meno che fosse, era comunque considerato come un cammino determinato da due volontà e reso comunque possibile da un consenso iniziale di parte femminile.
Forse un poco patriarcale, ma tutto sommato funzionale.
Negli ultimi anni la sessualità femminile è stata posta dalla Rete a disposizione di tutti, in qualunque momento e in qualunque luogo.
Siamo passati da giovani maschi che sbavavano guardando il catalogo di Postal Market (che infatti veniva loro sottratto) a giovani maschi che possono avidamente compulsare qualunque comportamento sessuale.
Non è questo, però, l’aspetto più grave.
Di fronte alla virtualizzazione della figura femminile, iper rappresentata sugli apposti siti, il giovane maschio ha incominciato a virtualizzare anche se stesso.
Di fatto, dotandosi di un alter ego elettronico, ha rinunciato alla propria crescita e al proprio cambiamento.
Non ci si può stupire se, quando arriva a potersi rapportare con una vera figura femminile, scopre la inadeguatezza del suo essere sia in termini fisici che psicologici e agisce in maniera che i parenti codificano come incomprensibili e inaspettati.
Questi, e molti altri, fattori si sommano in maniera differente nei singoli casi più o meno gravi.
È il terreno, in tutti i suoi versanti, su cui va combattuta la battaglia culturale che deve affiancare quella giudiziaria.
Nel succedersi della fase “dopo Giulia” si potrà verificare quanta buona fede e correttezza verranno messi a disposizione di un processo che inizia ora e che potrà durare ancora a lungo.
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