MUTA A PIEDI

DI MARIA SOLE SANASI D’ARPE

Un illustre conterraneo dell’altrettanto illustre presidente Grasso, sto parlando di Leonardo Sciascia, una volta scrisse: “Un libro è una cosa. Lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, ma se lo si apre e legge diventa un mondo. E, allora, soffermiamoci un attimo sulle parole di Sciascia. Un libro è una cosa, un oggetto, un ente inanimato. Se un pittore dipingesse uno o più libri starebbe dipingendo una natura morta, pensate ad esempio allo “Studio di mani con Bibbia” di Albrecht Dürer del 1506, o a “Il bibliotecario” di Giuseppe Arcimboldo del 1562, quadro che a mio avviso anticipa di circa 360 anni la pittura metafisica di Giorgio De Chirico, o, ancora, alla “Natura morta con romanzi francesi e una rosa”, di Vincent van Gogh del 1887. Bene, io, ogni caso, sto parlando di un oggetto e voi state vedendo un oggetto, una cosa, un ente fisico, che non ha alcunché di metà ta fusikà, per dirla con Aristotele.

Ma, a volte, nel mondo dei fenomeni accade “a kind of magic”, per dirla con i Queen, una specie di magia, per cui un oggetto inanimato, meramente fisico, diventa un raccoglitore spirituale, in cui dentro non vi è solo il mondo di cui parlava Sciascia nell’aforisma che ho citato poco fa, ma l’universo! Ecco, stasera vi parlerò proprio di un ente particolare, questo libro, che da oggetto fisico diventa ente metafisico.

E, allora, cominciamo dal titolo. Umberto Eco, nel giugno del 1983, quasi due anni dopo la pubblicazione della sua opera più celebre, “Il nome della rosa”, pubblicò, sulla rivista Alfabeta, un breve saggio, dal titolo “Postille a Il nome della rosa”. È uno scritto interessantissimo, perché Eco è stato un vero e proprio re Mida nella storia della letteratura e della filosofia contemporanea, in quanto, a mio parere, ha tramutato in oro tutto ciò di cui ha trattato. Bene, oltre a fornire delle importantissime chiavi di lettura della sua opera, Eco ci ha regalato una colta disamina sul titolo di un’opera. Il titolo di un libro è già una chiave interpretativa e fornisce suggestioni al lettore: pensate a “Guerra e pace” di Tolstoj o a “Il rosso e il nero” di Stendhal. Poi ci sono titoli più rispettosi del lettore e sono quelli che si riducono al nome dell’eroe eponimo, come “David Copperfield” di Dickens o “Robinson Crusoe”, di Dafoe. Oppure, titoli onestamente disonesti come “I tre moschettieri” di Dumas, poiché è chiaro che questo romanzo narra principalmente la storia del quarto di essi, D’Artagnan, e così via. Veniamo al titolo di questo libro. Oggi viviamo nell’era della velocità, dell’annullamento delle distanze, dell’acquisizione quasi istantanea, tramite un semplice telefonino, di vaste conoscenze. Con affetto e tenerezza, rapportando il tutto al tempo presente, penso ai futuristi, a Filippo Tommaso Marinetti, che poco più di 110 anni fa, pubblicò il “Manifesto del Futurismo”, nel quale celebrava l’abitudine all’energia e alla temerarietà, la bellezza della velocità, l’automobile ruggente più bella della Nike di Samotracia.

Oggi, con un click, riusciamo a spostare in meno di un secondo, byte e contenuti multimediali, dall’Everest alla Patagonia, dal Polo nord al Polo sud, una macchina di Formula 1 riesce ad arrivare a 350 km all’ora. Già quarant’anni fa, in tre ore e mezza, il Concorde volava da Londra a New York. Pensate anche al quadro di Umberto Boccioni, “La città che sale”, del 1911. Bene, oggi, il Burj Khalifa, a Dubai, il grattacielo più alto del mondo, completato nel 2010, raggiunge gli 820 metri di altezza, quasi un titano che osa sfidare Zeus e il cielo.

Viviamo, quindi, nell’era della velocità, dei mezzi di trasporto iperveloci, con la velocità che ha influenzato anche le nostre vite e i nostri rapporti umani, che ci fa imprecare quando un messaggio sms tarda di qualche secondo ad arrivare. Viviamo anche nel tempo del rumore, perché la tecnologia è rumorosa, è come il ventre d’acciaio di un grande transatlantico a carbone, con pistoni alti quanto un palazzo che girano e fanno rumore.

Ecco, velocità e rumore. Bum, bum, bum. E in tutto questo frastuono, in questo vagone, che è la nostra esistenza, che corre all’impazzata verso l’ignoto, impedendoci di percepire chiaramente cosa stia passando di fuori, Maria Sole cosa fa? Pubblica un libro intitolato “Muta a piedi”! Io amo, io amo tutto questo. Questo libro, già solo nel titolo, rappresenta un vademecum da seguire per vivere il tempo presente, una nuova estetica trascendentale kantiana per percepire la realtà presente al di là della fisica.

Poi, la copertina, altro tributo a quanto io amo così tanto. Guardate questa figura che cammina a piedi, all’interno di un colonnato che rinvia sia al mondo classico che alla sacralità dell’esistenza, quasi un introibo ad altare dei. Chi è che cammina a piedi, muta, senza mostrare al lettore il suo volto? Una divinità, come in tanti topoi della letteratura mondiale? Una sacerdotessa, che si sta apprestando a raggiungere l’ara dove compiere riti propiziatori alla divinità? No, è l’autrice! Guardate quanto è bella questa copertina, ideata da Micaela Lazzari della casa editrice Eurilink, su fotografia di Alessandro Gori e proposta dell’autrice. E cosa si sente in questa dimensione? La dea o la sacerdotessa è muta, ma comunque si percepisce un qualche suono. Cosa si sente?

Si sente il rumore sottile della prosa, per citare l’opera di un gigante della letteratura italiana: Giorgio Manganelli. Quella prosa dal rumore sottile che delicatamente inonda le pagine del libro. E cos’altro si sente?

La dea o la sacerdotessa cammina, i suoi piedi colpiscono il lastricato del tempio, producendo il flebile suono di una goccia che cade sul pavimento, quella goccia che cade all’inizio di un vero capolavoro della musica di tutti i tempi, che è la suite, non la canzone, “Echoes” dei Pink Floyd, il si acuto, la nota suonata al pianoforte da Rick Wright e passata attraverso il sistema di altoparlanti rotanti Leslie. Sembra quasi di sentir riecheggiare anche I versi: “The echo of a distant time, comes willowing across the sand, and everything is green and submarine…”.

Ho avuto la fortuna, in quanto book editor della casa editrice Eurilink University Press, che ha pubblicato questo volume, di essere stato tra i primi a leggerlo e meditarlo, perché questo richiede il lavoro di editing: lettura e meditazione. La pubblicazione del libro di Maria Sole ha goduto della brillante intuizione della presidente di Eurilink, la dottoressa Stefania Lazzari Celli, di non dipanarne i contenuti in successione temporale, pensate alle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” del Foscolo, in cui i contenuti, cioè le lettere che Jacopo Ortis invia a Lorenzo Alderani, si succedono dalla prima dell’11 ottobre 1797 all’ultima del 25 marzo 1799, ma di raggruppare i singoli contributi in cinque quaderni. Io credo che questo abbia dato un tocco più congeniale alla scrittura dell’autrice, quasi che l’accadimento trattato nel singolo giorno – il libro è un diario che data ogni contributo – fosse soltanto un pretesto per permettere all’autrice di donare al lettore la propria interpretazione dell’evento descritto.

È un metodo molto comune in letteratura. Io vado in una biblioteca, trovo un manoscritto del ‘600 firmato da un tale Ripamonti, che parla della storia di due giovani della provincia di Milano che devono sposarsi ma che non vi riescono a causa della prepotenza del signorotto locale che vuole semplicemente portarsi a letto la contadinotta, la storia mi piace, ci scrivo su un romanzetto, lo pubblico col titolo di “Fermo e Lucia”, poi dopo lo revisiono, aggiungo personaggi ed elementi alla trama e lo ripubblico nel 1840 col titolo definitivo di “Promessi sposi”. Ecco, in letteratura il pretesto funziona così!

Ora, potrei cavarmi dall’impaccio e dirvi sic et simpliciter: leggete il libro! Oppure potrei consigliarvi di cominciare col leggere la prefazione del presidente Grasso, che, a mio avviso, coglie molto bene i tanti aspetti del libro. Cito il presidente: “In cinque quaderni l’autrice percorre un ideale cammino tra pensieri e ricordi, proponendo delle riflessioni dense di spunti per il lettore, incoraggiato egli stesso a guardarsi intorno e mettersi in gioco. Si tratta di una lettura piacevole, caratterizzata da un ricco rimando a libri, film e canzoni, che costituiscono un invito alla scoperta o alla riscoperta di autori importanti.

Un testo che apre finestre su altri testi – Umberto Eco ne “Il nome della rosa” fa dire ad Adso, in un colloquio con frate Guglielmo: “I libri parlano di libri, ovvero è come si parlassero fra loro – un testo che suggerisce percorsi imprevedibili tra il mondo classico e quello moderno, tra l’antico e il pop, in un continuo andirivieni di suggestioni e parallelismi coraggiosi”. Giustissimo. È effettivamente così. In queste parole c’è tutto quanto io avrei voluto dire per commentare i contenuti di questo libro.

Vorrei, però, soffermarmi su una tematica, a me molto cara, che emerge nel primo quaderno ma che, in realtà, investe tutto il percorso tracciato nel libro: la rincorsa tra vita attiva e vita contemplativa. Questa distinzione è retaggio di uno dei periodi culturalmente più belli e importanti della storia del pensiero umano: l’Umanesimo, un periodo in cui finalmente l’uomo smise di pregare e cominciò a ragionare introspettivamente su se stesso e sul mondo quale teatro delle proprie azioni.

E da qui il collegamento con l’attività politica dell’uomo, individuo all’interno di una comunità di uomini, secondo quanto già stabilito nell’età classica, in Grecia, in quella Atene del V secolo a.C. che rappresenta l’età dell’oro per chi, come me, studia la filosofia politica. L’età in cui nella città del Partenone, che proprio allora veniva

innalzato, prima Socrate, poi Platone e infine Aristotele forgiavano l’Homo novus, proprio come avrebbero rifatto, circa 20 secoli dopo, gli umanisti. L’età in cui la politica assumeva i caratteri di scienza e il politico l’uomo votato a essa. L’età in cui si distingueva tra politiké (vita pratica o attiva) e theoría o bíos theoretikós (vita teoretica o contemplativa). È molto bello e interessante questo parallelismo tra mondo classico e Umanesimo, ma ancora più bello è il fatto che l’autrice abbia intriso il pennello nel primo per tratteggiare il secondo.

E, allora, anche per questo bisogna essere grati a questa giovane scrittrice, a Maria Sole, soprattutto per l’esempio che ella ci dona rispetto alle esistenze spesso vuote o dedicate all’effimero e al transeunte di tante e tanti suoi coetanei. Maria Sole rappresenta una speranza, e qui non parlo più da book editor ma da docente ed educatore, che cerca di avviare i suoi giovani studenti a usare criticamente la mente, non a imbottirli di nozioni: la speranza che i suoi coetanei e le generazioni successive, posino questi maledetti smartphone e aprano un libro. Mi immagino Maria Sole il 24 dicembre, il 1° gennaio o il 15 agosto – sono alcune delle date in cui descrive eventi – quando tutti siamo in festa, chiusa nella sua stanza a scrivere, per donarci la narrazione di un accadimento distillata nell’alambicco della sua visione del mondo, arricchita dalla sua prosa colta ma fluida, come un ruscelletto di montagna, quello che con le sue acque fresche riesce a placare la sete più tenace, la sua prosa filtrata da quella particolare sensibilità femminile che, quando unita a un sostrato culturalmente robusto, diventa quasi poesia.

I libri parlano anche e soprattutto dei loro autori. Dissi a Maria Sole quando mi chiese un commento su questo libro: “Sono felice perché ti sto conoscendo attraverso le pagine che hai scritto. Ho capito tante cose di te. E ti ringrazio”.

Ecco, io spero che tutte queste mie parole, questo mio intervento, vi abbiano stuzzicato la curiosità di intraprendere un viaggio tra le pagine di questo libro, perché questo libro rappresenta, innanzitutto un viaggio, quello dell’autrice. “La propria destinazione non è mai un luogo, ma un nuovo modo di vedere le cose”, scrisse Henry Miller. Quanto è vera questa frase, e quanto è assolutamente vera se riferita a quest’opera, perché ciò che essa offre al lettore non è una meta ma un nuovo modo di vedere le cose.

Ora posso dirvelo: leggetelo, ne sarà valsa certamente la pena.


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