Un titolo e due V.
Un mondo e due parole che sembrano crescere sostenendosi a vicenda in una gara terribile:
Vendetta e Vittima.
Nel tempo in cui viviamo quasi nessun verdetto giudiziario viene recepito e vissuto sotto la confortante formula del “giustizia è stata fatta”.
Si tratta di un cambiamento di percezione non soltanto importante ma preoccupante anche come segnale che qualcosa di profondo si agita nell’anima della nostra società.
“Giustizia è stata fatta” si configurava, sin quando è stato presente e diffuso, come un consapevole atteggiamento del dover “cedere il passo” ad una dimensione considerata superiore sia in virtù della sua forza che della specificità delle sue procedure.
Si riteneva, non a torto, che (al di là dei possibili errori) la Giustizia operasse su un piano più generale degli interessi diretti che ad essa venivano sottoposti per il giudizio.
La frase sempre ripetuta “le sentenze non si discutono, si applicano” era una ottima sintesi di un atteggiamento largamente condiviso e sempre comunque richiamato da tutti.
Quel che invece oggi sembra dominare il contesto sociale è un sentimento che ritiene generalmente insufficiente la condanna irrogata e di conseguenza lamenta la limitatezza della punizione inflitta.
Ciò, tanto più, in presenza di supposte o reali scappatoie che potrebbero permettere al colpevole di non scontare integralmente nemmeno la pur insufficiente pena inflitta.
Viene di fatto invocata una “ferrea proporzionalità” tra il dolore (o, comunque il danno) provocato e quel che aspetta il colpevole in seguito alla condanna.
Si tratta, di tutta evidenza, di sentimenti molto forti sul piano comunicativo e capaci di esprimersi in poche battute fulminanti.
Essi paiono immediatamente comprensibili e condivisibili.
Sono chiari e netti, contrariamente alle complesse strutture motivazionali come sono quelle richieste dalle sentenze.
La madre che invoca una pena severissima per chi ha provocato la morte del figlio ha una tragica potenza espressiva e, nella continua corrente di comunicazione, può emergere e consumarsi (venendo condivisa) in pochi minuti.
Ponendo i singoli cittadini (generalmente al sicuro nelle proprie abitazioni) nel ruolo di valutatori e giudicatori come possono essi esitare a schierarsi tra chi guidava, magari ubriaco, un’automobile a forte velocità e chi da quella stessa macchina è stato investito ed ucciso?
Tutto apparentemente normale. Anzi banale.
Ciò che è meno evidente è come il diffondersi di questo atteggiamento sia in realtà la copertura della avanzata e della vittoria della prima delle nostre 2V: la vendetta.
La sostituzione della giustizia con la vendetta ha radici antiche e, paradossalmente, di matrice egualitaria.
Il codice mosaico, ridotto nella vulgata alla frase “occhio per occhio…” sostiene esattamente questo.
Chiama un intero popolo alla condivisione di un sistema valutativo in cui non vi è incertezza o spazio per manfrine.
A un danno subito deve corrispondere un danno eguale inflitto a chi lo ha provocato. Punto e basta.
Non è un tema che si può affrontare e respingere con leggerezza.
Alla fine degli anni ’50 Peppino Pes sostenne davanti ai giudici che era suo dovere uccidere l’assassino di suo padre.
Glielo imponeva il codice barbaricino in cui egli era cresciuto e a cui aderiva.
Chiese gli venissero almeno concesse le abbondanti attenuanti che all’epoca lo Stato elargiva ancora a chi avesse ucciso la moglie per motivi d’onore.
Gli venne invece comminato l’ergastolo e il delitto d’onore venne abrogato soltanto nel 1981.
Di conseguenza, in quegli anni lo Stato parve considerare le corna più gravi e giustificanti il delitto dell’assassinio di un congiunto stretto.
Alla avanzata vittoriosa della prima V, corrisponde poi quella dell’altra parola che va diffondendosi con tutto il suo drammatico peso concettuale.
Quella parola (la seconda V) è “Vittima”.
Anche questa parola (e il concetto che la sorregge) ha una storia antica e di per sé non disonorevole.
Il soldato che muore in combattimento non viene, giustamente, considerato una vittima.
Vittima viene invece, altrettanto giustamente, chiamato il civile morto sotto le bombe di quella stessa guerra che egli non aveva dichiarato e che il soldato era obbligato a combattere.
In sintesi noi sinora attribuivamo il carattere di vittima a chi soccombeva di fronte a una forza non soltanto infinitamente più grande (il terremoto, per esempio) ma soprattutto a lui totalmente estranea.
Oggi, però, questa categoria viene attribuita ma soprattutto rivendicata con modalità assai più vaste.
Se mio padre muore in ospedale (e magari io penso che poteva ancora essere salvato) io mi considero personalmente “vittima” di una condizione più forte di me cui posso rivolgermi per una protesta e tendenzialmente un risarcimento.
Su questa strada qualunque cosa possa capitare può trovare una responsabilità superiore alla quale chiedere conto e risarcimento dell’avvenuto.
Che si tratti del brutto voto in pagella al figlio o della malattia, poco importa.
Abbiamo di fronte, insomma, un crescere parallelo di due stati d’animo diversi ma in qualche modo convergenti.
Da una parte l’idea di considerare ingiusta e anomala qualunque cosa determini sofferenza e dolore. Per prima, naturalmente, la morte che da sempre l’Umanità era abituata a considerare inevitabile e banalmente normale.
Dall’altra quella di non poter sperare in una Giustizia effettivamente efficace ed agire, di conseguenza, in maniera autonoma e diretta.
E, poiché questo sarebbe difficile e comunque non legittimo, si sceglie di trasferire l’azione sul piano strettamente comunicativo.
Qua, nel mondo dei social in cui molti parlano con molti, le due parole Vendetta e Vittima si incontrano e si inseguono rafforzandosi a vicenda.
E i risultati di questo incontro non sembrano ottimi.
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