Queste riflessioni sulla politica come scienza filosofico-sociologica sono sottese da un’intuizione di fondo sulla politica come esperienza e come concetto, che si qualifica in ragione della strutturale asimmetria introdotta dal potere fra i due soggetti – chi comanda e chi obbedisce – di questa specifica relazione sociale: diseguaglianza di posizione (o oggettiva), sulla base di una uguaglianza di fondo (o soggettiva in senso ontologico). Una concezione della politica che rimanda a una più generale antropologia, ovvero a una concezione dell’uomo da cui discendono le caratteristiche della politica stessa (consenso/dissenso, condivisione/divisione, ordine/disordine, pace/guerra, autorità/effettività-coercizione, più in generale razionalità/volontarietà). Evitando un’impostazione astrattamente teorica, queste riflessioni si fanno carico anche delle profonde e vaste trasformazioni storico-politiche, tutt’ora in corso, di cui sono state e sono testimoni le generazioni che dal XX secolo si sono affacciate, quando non vi sono nate, nel XXI.
Introduzione
Le riflessioni che seguono e seguiranno nelle prossime settimane sono sottese da un’intuizione di fondo sulla politica come esperienza e come concetto, che si qualifica in ragione della strutturale asimmetria introdotta dal potere fra i due soggetti – chi comanda e chi obbedisce – di questa specifica relazione sociale: diseguaglianza di posizione (o oggettiva), sulla base di una uguaglianza di fondo (o soggettiva in senso ontologico).
Una concezione della politica, perciò, che rimanda a una più generale antropologia, ovvero a una concezione dell’uomo da cui discendono le caratteristiche della politica stessa (consenso/dissenso, condivisione/divisione, ordine/disordine, pace/guerra, autorità/effettività-coercizione, più in generale razionalità/volontarietà).
Lo sforzo, peraltro, vòlto a evitare un’impostazione astrattamente teorica, è stato di farsi implicitamente carico (tenendole, perciò, sempre presenti) delle profonde e vaste trasformazioni storico-politiche, tutt’ora in corso, di cui sono state e sono testimoni le generazioni che dal XX secolo si sono affacciate, quando non vi sono nate, nel XXI.
Sono note e sono sintomatiche ed eloquenti le pennellate con cui dagli studiosi – storici, sociologi, politologi, filosofi – è stato dipinto il Novecento: “secolo delle ideologie” e della “fine delle ideologie”, addirittura della “fine della storia”, della “fine della geografia” (quando non anche della fine della religione), della fine dello Stato (nazionale) sovrano, erede dell’assolutismo moderno.
Secolo, quindi, della “fine delle rivoluzioni”, sia nel senso rigoroso tributario di quella francese, tale per antonomasia, e, quindi, di quella russa (e poi cinese, ma non vanno dimenticate l’Ungheria e la Polonia), sia delle rivoluzioni intese come mutamenti radicali e repentini di potere da parte del popolo (si pensi già alla autoproclamata “rivoluzione fascista” e non solo a quella nazionalsocialista…), dei popoli (il rimando d’obbligo è alle rivoluzioni terzomondiste/anticolonialiste); rivoluzione – idea/ideale di rivoluzione – il cui esaurimento si è fatto simbolicamente datare al 1991, l’anno della morte anagrafica dell’URSS.
Ma il XX è stato anche il secolo delle due guerre mondiali e “totali” – cioè insieme militari e civili – la “guerra civile europea dei trent’anni”, come è stata felicemente definita da Christoph Cornelissen, entrambe concluse con un cambio di rotta della storia, la prima seguita dal crollo degli imperi centrali, la seconda dalla crisi e caduta degli imperi coloniali (almeno nel senso politico-militare tradizionale).
Secolo tristemente contrassegnato dalle tre dittature totalitarie, la cui tragica memoria si lega alla Shoah e ai genocidi di massa, consacrati, per così dire, dalle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki.
Non a caso, guardando ai milioni di cadaveri di cui sono disseminati i campi di battaglia, le camere a gas e le città spietatamente bombardate, per non parlare delle clandestine fosse comuni tutt’oggi solo in parte scoperte, il Novecento è stato anche definito il secolo del “male assoluto”, che non pare esaurirsi nella sua prima metà, se si mettono nel conto le almeno duecento “guerre locali” con cui, nel lessico tardocapitalistico, si allude oggi alla “periferia” del mondo.
Un gigantesco cono d’ombra, insomma, che si prolunga nel terzo millennio, apertosi all’insegna del terrorismo internazionale, subito sintomaticamente battezzato come la “terza guerra mondiale” (guerra anch’essa combattuta senza fronti e senza distinzione fra il bellico e il civile).
E questo anche a voler tralasciare altri drammatici problemi, che coinvolgono e avvolgono l’intero pianeta: il problema ecologico, contrassegnato dall’inarrestabile inquinamento (potremmo emblematicamente sintetizzare, secolo delle tre bombe: la bomba demografica, la bomba atomica e la bomba ecologica), e quello pandemico, con l’epidemia da Covid-19.
Guerre di massa, genocidi di massa, Stati di massa: il Novecento è stato, nel bene e nel male, il secolo delle masse, dei movimenti, dei partiti, dei sindacati di massa, diciamo pure dei popoli di massa, tali sia nelle forme politico-istituzionali, monopartitiche e monocratiche in genere, sia – ma si tratta di differenze di fondo ed essenziali – in quelle pluripartitiche.
Masse cui fa riscontro congenito il leaderismo con la personalizzazione della guida o/e del gruppo che le guida, sia in senso organizzativo che espressivo.
Secolo, dunque, il XX, dell’elitismo per antonomasia, aperto e annunciato già da quelle teorie elitiste che, da fine Ottocento e primo Novecento (con Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto, Robert Michels), avrebbero influenzato anche pensatori molto lontani dai liberal-conservatori dell’omonima scuola italiana (si pensi, per esempio, a John Dewey e Joseph Schumpeter o, addirittura, allo stesso Jacques Maritain, propugnatore delle “minoranze attive”) e che comunque colgono un fenomeno generale e generalizzabile oltre lo specifico significato letterale del termine (élite): anche le segreterie dei partiti più democratici (non solo, cioè, quelli a “centralismo democratico”) si caratterizzano per una forte leadership accentratrice.
Ma lo stesso vale per i proprietari e gestori dei mass media, manovratori della pubblica opinione sia a livello politico che economico-pubblicitario.
Siamo sempre in presenza di una “mobilitazione” delle masse a opera di élites forti, più o meno personalizzate, ma sempre “organizzate”.
In ogni caso, da questo punto di vista, si attenua la differenza e la distanza fra democrazie liberal-pluraliste e democrazie “popolari”, perfino (ma, sia chiaro, si tratta di gradazioni che, per la scala, diventano da quantitative differenze qualitative essenziali) fra liberaldemocrazie e totalitarismi (così come, in questa prospettiva, si può intravedere facilmente l’aspetto di continuità col secolo XXI e le sue élites transnazionali…).
Il secolo XX registra in particolare, infatti, in modo per così dire connotativo, il trionfo della liberal-democrazia e della social-democrazia, diciamo pure della democrazia – come è stata anche definita – social-pluralista. Qualificazione di un processo – per gettare uno sguardo particolare all’Italia – la quale, a spalle del “miracolo economico”, via via divenne, con l’avallo dell’egemonia democratico-cristiana, da laica sempre più neo-laicista e secolarista.
Un’inchiesta sui giovani, condotta nel cuore degli anni Sessanta del Novecento, ne registrava l’atteggiamento diffusamente integrato e carrierista: i “giovani delle tre M” rappresentavano, infatti, una generazione dedita a “Moglie, Mestiere, Macchina”, tre nomi-symbol di una generazione che aveva indissolubilmente sposato il progresso neo-capitalistico nella fase che già si annunciava come consumista, radicata nella “società opulenta” (termine proveniente, in verità, dall’altra sponda dell’Atlantico).
Veniva a siglare la “grande trasformazione”, la crescente americanizzazione della vita quotidiana scandita dalla TV, dagli elettrodomestici, dalla Vespa e dalla Cinquecento.
Ebbene, nel decennio successivo, scoppiò nell’America ancora intrisa della Beat generation e si diffuse rapidamente nell’Europa – dalla Sorbona alla Sapienza – la “contestazione globale”, brodo di coltura delle Brigate rosse, che, radicalizzando e combinando il neo-marxismo col freudismo e con la guerriglia di marca terzomondista, cercarono di colpire al cuore il sistema di mercato con la forza espansiva del consumismo sotto copertura e legittimazione dello Stato neo-capitalista.
A circa un quarantennio dagli anni di piombo, caduto col Muro il blocco orientale, squilibratosi quello occidentale (a egemonia formalmente monocratica statunitense ma sostanzialmente sempre più multi- e trans-nazionale, sotto l’incalzante ricatto, in prospettiva, sia dell’ascesa asiatico-cinese sia dell’implosione fondamentalista arabo-islamica, nel più vasto quadro della globalizzazione economico-finanziaria e informatico-comunicazionale), il mondo di oggi non sembra forse pesantemente ripiombare nella palude delle più radicali contrapposizioni ideologiche (analoghe alle seicentesche guerre di religione europee se non ai “conflitti di civiltà” alto-medievali, ma confluenti, in realtà, in un vasto processo di omogeneizzazione culturale) e delle più spietate competizioni economiche legate a un mercato nominalmente neo-liberista, di fatto tendenzialmente sempre più oligopolista quando non monopolista tout court?
Ma, per chiudere la digressione sull’Italia (nel quadro euro-atlantico e mondiale), quella denominazione di “social-pluralista”, riferita alla democrazia degli ultimi decenni del ‘900, ci rimanda a un altro evento determinante di questo secolo epocale, quello della “grande crisi” del 1929, a prescindere dalla quale non si può capire il nuovo rapporto instauratosi fra Stato ed economia: la nuova “economia politica”, quella segnata dall’interventismo statale nelle varie (anche fra loro contrastanti) modalità, dal dirigismo al corporativismo alla pianificazione collettivista ma anche all’economia mista, infine – nonostante la differenza semantica – all’economia sociale di mercato, secolo, quindi, che vede la nascita dello “Stato sociale” e, più in generale, della cultura del welfare state.
Se, a questo punto del bilancio, si volesse individuare e configurare un risultato storico unitario del capitalismo industriale, post-industriale, finanziario, dai suoi inizi settecenteschi agli ultimi sviluppi tardo-novecenteschi, lo si potrebbe additare nella grandiosa affermazione del mondo del lavoro che si è organizzato nel sindacato e nel partito, improntando lo spirito delle Carte costituzionali e delle rispettive linee programmatiche e traducendosi, appunto, nello “Stato sociale”.
Secolo, però, che se a livello politico-istituzionale registra il trionfo della liberal-democrazia social-pluralista poco fa accennata, ne dispiega anche la crisi, per il vero già annunciata e denunciata tempestivamente negli anni Settanta dalla presa d’atto del sovraccarico fiscale e di governo e che viene a saldarsi con quella della forma-partito. Il Novecento è stato, infatti, il secolo dell’affermazione del partito (di massa) sia nella forma pluri- che in quella mono-partitica totalitaria di destra e di sinistra.
Conclusivamente e complessivamente, è il secolo in cui si viene compiendo “la globalizzazione” quale sistema di sviluppo economico mondializzato combinato con, e favorito da, la rivoluzione informatica (che supera e assorbe quella plurimillenaria della scrittura, risalente addirittura all’età sumerica, assunta, da allora, progressivamente a codice di comunicazione universale).
Sono dunque, il XX e il XXI, i secoli della planetarizzazione di un modello di sviluppo, di una forma di comunicazione, di una (forma di) cultura che possiamo riassumere e simboleggiare rispettivamente nel supermercato globale, nel linguaggio digitale (Internet), nella “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”.
Documento, quest’ultimo, che, incorporando la tradizione cristiana, quella giusnaturalistico-laica del secolo XVII e poi illuministica del XVIII, fino ai corrispondenti esiti otto-novecenteschi, ci rimanda a un altro aspetto chiaroscurale del Novecento quale secolo della secolarizzazione, dei secolarismi e delle corrispondenti reazioni (si pensi alla scintilla scoccata nel 1979 con la rivoluzione fondamentalista di Khomeini in Iran), un vero e proprio laboratorio storico in cui si sperimentano le “religioni politiche” da una parte, e il valore pubblico e politico della religione dall’altra: a metà strada troviamo la “religione civile” come risposta laica dello Stato costituzionale liberal-democratico (e non va dimenticato, proprio sul piano politico, un altro vero e proprio evento storico, la nascita in Europa – dall’Italia alla Francia alla Germania, con successiva esportazione in altri continenti come l’America Latina – dei partiti cristiano-democratici e democratico-cristiani, in una vicenda che vede incontrarsi, da un lato, il cattolicesimo sociale con il cattolicesimo liberale e, quindi, democratico, dall’altro, il cattolicesimo politico con il cristianesimo riformato, come, per esempio, nella CDU tedesca).
L’orizzonte storico-politico e storico-culturale che, a questo punto, si spalanca agli occhi e stimola le attese dell’uomo contemporaneo è quello inedito di un neo-federalismo e di un neo-solidarismo internazionale e transnazionale come risposta possibile e plausibile, quanto meno auspicabile, al duplice processo di finanziarizzazione di un’economia rigidamente oligopolista, che vede, perciò, la concentrazione in pochissime mani della ricchezza mondiale, da una parte, e, dall’altra, l’impetuoso rimescolamento demografico, ancorché non prevalentemente affidato alle invasioni armate (come accadde nel lontano passato storico tardo-romano, quello, appunto, dei regni romano-barbarici): risposta, in definitiva e in concreto, al problema, sempre più drammatico, dell’immigrazione, destinato a destabilizzare (oggettivamente) il continente europeo.
Pare, tuttavia, troppo comodo imputare unilateralmente e prevalentemente tutte queste trasformazioni alla “tecno-struttura” economica, cui si sarebbe rivelata succube la stessa politica. Afferma giustamente Pierre Bourdieu: “Il mercato mondiale è una creazione politica (come lo era stato il mercato nazionale), più o meno scientemente concertata”.
Si completa, così, con la tessera culturale e religiosa insieme a quella economica, sociale e politica, il vivace mosaico del Novecento, con l’eredità complessa e complessiva – insieme “lucrosa” e “damnosa” – trasmessa al Duemila, complessità che non deve però indurre o inclinare, indulgendo a un magari tacito pessimismo storico, verso un giudizio succube dei tanti e innegabili aspetti negativi (la damnosa haereditas, appunto).
Proprio la lezione dell’esperienza vissuta nel Novecento ha fatto emergere, progressivamente incalzanti, quei valori di libertà e di uguaglianza, quel primato della coscienza personale, ma anche quelle garanzie costituzionali e istituzionali, nei confronti di qualunque potere assoluto e totale, quello spirito di condivisione e di solidarietà, quella vocazione alla pace sociale e alla pace politica e internazionale, altrettante conquiste favorite e facilitate dall’enorme sviluppo tecnologico messo – e che sempre più va messo, con il supporto insostituibile dell’educazione e dell’istruzione – a servizio delle giovani generazioni, sottraendole all’isolamento autistico (che non è, perciò, solo psicologico ma storico tout court) dell’universo digitale.
Valgano pure queste rapide considerazioni introduttive come excusatio non petita, di cui, perciò, non posso non farmi carico, ma che, in ogni caso, rivelano l’intuizione “realistica” di chi guarda alla politica come a un’esperienza intimamente – il che non significa esaurientemente – storica. Realismo, dunque, non storicistico, nella misura in cui è invece erede di una tradizione culturale (gnoseologica, etica, politica) che si può a buon diritto definire all’insegna del realismo cristiano.
Mi spiego meglio. La storia politica è la costante testimonianza del governo del più forte e, a sua volta, la storia del pensiero politico, quando non si risolve intenzionalmente in giustificazione ideologica di quest’ultimo, si compie nella inesausta ricerca del governo (del) migliore. Quale maggiore dimostrazione che la storia del pensiero politico non coincide perfettamente con – e non incide quanto almeno dovrebbe su – la storia politica, nonostante la loro stretta interconnessione?
Questo secondo fatto (sintomatico di un valore) rovescia, dunque, quella non coincidenza o non perfetta incidenza in una prospettiva che possiamo definire insieme pascaliana e vichiana, per cui, all’impossibilità di instaurare l’ottimo Stato si sostituisce nella realtà “effettuale” il migliore Stato forse (umanamente) possibile e fattibile (non solo nel senso di meno peggiore). Se il potere politico non può cambiare la propria natura (fondata sulla forza pur razionale) può, però, migliorarla. La forza del potere diventa così – e si rivela quale – moderazione, a prescindere dal nome dato a questa giustificazione: diritto, giustizia, autolimitazione del potere e così via.
È questo il punto in cui si incontrano – ed è un incontro di fatto – storia politica e storia del pensiero politico (ma anche storia della scienza politica, delle scienze politiche e sociali).
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