Lettera da New York.
È sempre difficile capire come nasce un movimento di massa, quasi sempre sinonimo di movimento di protesta. Normalmente ne veniamo a conoscenza quando è già lo vediamo formato e in azione, o ne apprendiamo l’esistenza dai media, quando ha già raggiunto una certa importanza.
Ma come è nato proprio dalla sua origine di solito non lo sappiamo. Una o due persone appassionate a qualche problema che radunano qualche amico e cominciano a parlarne magari già in una pubblica piazza o in un pubblico locale?
Per qualche ora o giorno o settimana? È difficile saperlo, spesso non lo sappiamo (e neppure ce lo chiediamo) neanche quando il movimento ha successo, diventa nazionale o addirittura internazionale, i suoi leaders diventano personaggi pubblici. È così in tutti i paesi liberi, dove non ci sono restrizioni o controlli di governo sull’uso di internet o del telefono. Figuriamoci in un paese dove TUTTO è sorvegliato e regolamentato dalle autorità di governo come la Cina. E se l’è domandato anche la corrispondente del New York Times da Pechino, Vivian Wang, quando ha visto sorgere il movimento contro le severissime restrizioni imposte in tutto il Paese dal governo per il Covid. Traggo queste notizie da una sua intervista del podcast “The Daily”.
Giovedì 24 novembre, una settimana prima dell’intervista, scoppia un incendio nella città di Urumki, nella Cina occidentale, in cui muoiono dieci persone. Nascono molti sospetti e speculazioni a voce fra i vicini radunati intorno alla casa in fiamme e online che le morti siano state causate dalle porte di case chiuse a chiave dall’esterno dagli incaricati del rispetto delle regole contro la pandemia.
Regole imposte a Urumqi da oltre tre mesi. Non c’è nessuna prova, i pompieri, arrivati troppo tardi, negano ma la voce si sparge rapidamente.
È la nascita, spontanea, del movimento, che cresce rapidamente: qualche centinaio di residenti che chiedono a gran voce, marciando verso il municipio, un alleggerimento o l’eliminazione delle chiusure. Sono furiosi: per loro quelle morti sono state provocate dalle restrizioni per il coronavirus.
Venerdì sera cominciano a circolare video che denunciano “l’assassinio” delle dieci persone. Il giorno dopo, sabato, nasce una protesta a Shanghai, iniziata come una veglia funebre per i morti di Urumqi a lume di candela in una piazza.
Quando le immagini cominciano a circolare online, si unisce sempre più gente, la folla cresce a centinaia e la veglia diventa una protesta. Domenica dilaga in tutto il paese, anche a Wuhan, la cittadina dove è nata la pandemia.
A Pechino la situazione è vissuta direttamente dalla corrispondente che va dove si sa che avviene il raduno, senza sapere cosa troverà, anzi pensando che non troverà nessuno o quasi.
Invece trova centinaia di dimostranti che si mettono in marcia gridando sempre più esplicite richieste politiche: fine della censura, libertà di stampa, sino addirittura a chiedere la dimissioni di Xi. La folla è fatta soprattutto di giovani tra i 20 e 30 anni, e circola fra di loro un senso di gentilezza reciproca, felici di scoprire per la prima volta la bellezza di essere tutti fuori, tutti liberamente uniti dallo stesso scopo.
Vivian Wang li intervista: dicono che sono andati ai raduni senza sapere cosa avrebbero trovato e parlano della loro sorpresa di trovare tante persone sconosciute fra di loro ma solidali e unite dallo stesso scopo.
E descrivono un senso come di gratitudine. La censura in Cina rende estremamente difficile trovare qualunque senso di comunità, di sapere che cosa pensano quelli che ti sono vicini, con la sola eccezione degli amici veramente più stretti. Qui si sente un senso di gratitudine per essere apertamente tutti della stessa opinione.
Così è stato l’inizio, adesso il movimento continua a ingrossarsi con domande ormai solo politiche e anche pericolose. Non è chiaro come reagiranno le autorità, per ora hanno dato disposizioni alle forze dell’ordine di reprimere vigorosamente il movimento, ma non sono ancora avvenuti episodi di violenza contro i dimostranti. Si può solo attendere sperando in una soluzione pacifica, dove le autorità, primo di tutti Xi (che in verità ha dato qualche segno di voler allentare le misure per il “zero covid”) concedano qualche libertà ai loro “sudditi”.
E l’opinione pubblica americana? Sostanzialmente favorevole alle proteste, anche nelle sedi giornalistiche tradizionalmente di destra. Per dare un’idea di che cosa ne pensa il New York Times, pur sempre la testata più influente e rispettata del paese, ecco qui di seguito i titoli degli ultimi giorni: “In Cina, dove la protesta unita sembra surreale. La corrispondente traccia uno straordinario scoppio di rabbia pubblica”.
“Pelli di banana per Xi Jinping”.
“Scossone al contratto di Pechino con il suo popolo. Scambiando la libertà con la prosperità, ma forse non ottenendo nessuna delle due”. “I dimostranti in Cina non stanno solo difendendo il diritto di esprimere pareri contrari. Stanno difendendo il diritto di essere umani”. “Un potente spiegamento di dissenso in Cina. Il coraggio dei dimostranti è una profonda affermazione che la libertà di parola è un valore riconosciuto da gente in tutto il mondo”. “Xi ha rotto il contratto sociale. Ha mai un autocrate tolto a così tanta gente il diritto di avere una vita normale?”.
“Mentre la Cina allenta le regole, gli esperti temono un’ondata di infezioni. Gli anziani rimangono vulnerabili”.
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