IL DOPO AUSCHWITZ

L’orrore non visto

Sono passati parecchi anni dall’olocausto. Pochi per non avvertirlo più come una minaccia possibile, tanti per sanare ancora una ferita ormai chiusa ma non risolta!

L’ultimo film di Jonathan Glazer – tratto dall’omonimo romanzo “Zona di interesse” di Martin Amis uno dei più grandi autori letterari del ‘900 – cattura con immagini l’attenzione del pubblico che rimane esterrefatto di fronte all’esternazione dell’orrore pur senza vederlo. Fino ad ora le immagini dello sterminio ebreo, da parte dei tedeschi, nonché i racconti e le testimonianze dei pochi superstiti del campo di concentramento hanno riempito le nostre cineteche specialmente nella settimana di gennaio dedicata alla memoria di quegli eroi che eroi non erano.

Lo sono diventati a forza per le violenze fisiche e psicologiche subite ed oltremodo offensive per gli esseri umani ridotti a “topi” come le SS li soprannominavano per giustificare a se stessi gli atti disumani, la loro crudeltà ed insensibilità verso il proprio simile. Ma l’uomo possiede il dono dell’oblio per cui facilmente rimuove ciò che non vuole accettare per il timore di incorrere, ancora una volta, in una situazione che potrebbe ricondurlo all’orrore passato. Purtroppo però viste le condizioni dell’attuale presente, niente può evitare all’essere umano di ricadere nel baratro in preda come è alla sete di potere che appanna la sua razionalità. Una guerra come quella in atto, come del resto ogni guerra, è assurda poiché ha come protagonisti, ancora una volta, gli ebrei quegli stessi della Shoah condannati allora come adesso e cioè solo perché ebrei che anelano ancora oggi ad ottenere un pezzo di terra per la collocazione come popolo.

Forse sarebbe opportuno ricordare ai potenti che la terra non ci appartiene essa è di tutti come di nessuno, l’abbiamo avuta in prestito così come la vita ma, ad un certo punto la dovremo restituire pertanto siamo noi che apparteniamo alla terra che ci accoglierà tutti indistintamente come un grande ventre materno!

Il film come premesso è fatto soprattutto di immagini che, per la loro banalità e ordinarietà, producono nello spettatore un effetto ancora più incisivo e forte di quello a cui ci hanno abituato in questi anni i film precedenti laddove venivano mostrate nude e crude tutte le disumanità subite dai prigionieri quali: sottomissioni, abusi sessuali e tutti gli atteggiamenti dei carnefici atti ad offendere ogni dignità umana.

In breve la trama ci mostra lo scorrere della vita di una famiglia assolutamente normale composta da madre, padre e bellissimi bimbi frutto della loro unione; fin qui niente da eccepire (un po’ mi riporta alla mente “l’Ulisse” di Joyce) senonché il papà era il capo della SS del campo di Auschwitz Rudolf Hoss interpretato magistralmente da Christian Friedel. Tutta la famiglia, compreso il cane, trascorreva la propria vita in una bella villetta con piscina, cespugli fioriti, orto con piante ornamentali ed odorose con l’aiuto di prigionieri presi dal campo di concentramento che, in cambio della vita, prestavano il loro servizio stando sempre attenti a non urtare la suscettibilità dei loro padroni.

Questa dimora così bucolica e il regista non perde occasione per sottolinearne questo aspetto che ha il suo peso e ragion d’essere nella stesura del film (non aggiungo altro per non togliere all’eventuale spettatore la soddisfazione di coglierne il significato) sorgeva ad un passo dal campo ove milioni di persone ogni giorno e a ciclo continuo venivano prima gasate e poi cremate, solo un muro di recinzione li divideva dall’orrore. Le giornate scorrevano apparentemente felici, i bimbi giocavano e la mamma preparava dolci e torte per la famiglia mentre il papà si intratteneva nel salottino con personale addetto riunito per discutere del nuovo progetto circa l’ampliamento dei forni crematori per un servizio più rapido, visto il gran numero di persone che affollavano il campo.

Che quadretto!

I miei sensi sono stati messi a dura prova per tutta la durante del film; si sono scatenati in me sensazioni molto forti quali: pietà, senso di impotenza e disgusto per una umanità non ancora in grado di gestire la propria e l’altrui vita. Non a caso ho sottolineato l’incapacità di gestire la propria esistenza in quanto il film è molto più sottile di quanto si possa pensare. È vero che talune persone si spingono oltre ogni limite per soddisfare i loro egoismi ma è pur vero che essi pagano caro il loro agire in balìa come sono di una natura debole e fragile che si rivolta contro di loro come un boomerang, essi diventano inconsapevolmente carnefici di se stessi infatti, insieme all’umanità essi perdono anche la capacità di provare pena e dolore non solo verso gli altri ma anche verso se stessi.

Il finale del film rende giustizia di quanto detto. “La zona di interesse” era la zona reale ove tutto il personale che prestava servizio nel campo viveva condividendo orrore e disumanità; nel film tutto si si attiene ad un linguaggio formale e paradossalmente reale che si sposa con la nostra esigenza di verità non ancora esaudita, un linguaggio questo nuovo ed attuale che prende le distanze da un passato che ci attanaglia, ma che bisogna superare per intraprendere nuove strade che ci aiuteranno ad “Uscire dal nero” come auspica nel suo libro appena uscito il filosofo ebreo Georges Didi-Huberman.

Un film da vedere.


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