Il racconto di una ricetta può trasformarsi in una sorta di scavo archeologico, alla ricerca, di nomi, di ingredienti e tecniche di cottura, per risalire all’origine delle pietanze che oggi mangiamo, come per esempio la Salsa Genovese.
Le origini della Salsa Genovese
Un importante campo di esplorazione riguarda le origini della famosa “Salsa Genovese” di Napoli. Detta in due parole, mi perdoneranno i gastronomi, è una pasta condita con una salsa di carne stracotta con le cipolle. Ovviamente a Genova non sanno proprio cosa sia. Di qui il fiorire di storie e leggende. Proprio come gli archeologi possono essere favoriti, ma anche intralciati da racconti popolari non documentati, così è avvenuto anche con il nostro piatto genovese-napoletano. Si vagheggia di un cuoco o addirittura di un marinaio genovese, che in una epoca indeterminata, abbia portato la ricetta a Napoli. O se ne attribuisce l’origine alla colonia di mercanti genovesi presenti a Napoli nel XVII secolo. Addirittura si parla di genovese come genevois (ginevrino), attribuendo il piatto alle guardie svizzere chiamate a corte dai Borboni. Nessuna di queste storie porta a tracce archeologiche di elementi propri della cucina, cioè a una ricetta. La ricetta da cui partire per la nostra ricerca esiste, ed è in alcuni manoscritti del XIV secolo, sotto il titolo di Tria Ianuensi, cioè Tria Genovesi. Esaminiamo il testo:
Per fare tria genovesi, soffriggi cipolle con olio e metti in acqua bollente; fa cuocere e mettici sopra spezie; e colora e insaporisci come vuoi. Con queste puoi mettere formaggio grattato o tagliato a pezzi. E servile ogni qual volta ti piaccia insieme con capponi o con uova o con qualunque carne.
Abbiamo una pasta (i Tria) che si aggiunge a un condimento fatto di cipolle soffritte con cui si condisce carne di vitello o di pollo, o addirittura uova. Le tracce “da esplorare” sono il nome genovese, la presenza di carne e cipolla e, alla fine, la pasta. Per l’archeologo culinario si aprono necessariamente due strade di esplorazione: da un lato la vicenda dei tria, e dall’altro quello della carne con le cipolle.
Cosa sono i Tria (o Itriya), come erano fatti e come si preparano
I Tria erano una pasta seccata al sole, conosciuta sin dai tempi degli antichi greci. Ne parla anche il medico arabo Ibn Butlan, vissuto nella prima metà del XI secolo. “I tria bolliti in brodo e conditi con il formaggio e il grasso, sono molto buoni per curare lo stomaco. Con lo zucchero sono amati dai giovani”.
Ma come erano fatti i Tria? Ci illumina in merito una ricetta contenuta nel Kitab al-Tabikh, il Libro delle Vivande. Scritto a Baghdad nel XII secolo, ma rielaborazione di testi risalenti ad almeno 2 secoli prima, ci racconta la grande cucina dei Califfi delle Mille e una Notte. Qui incontriamo la ricetta dei Tria (Itriya):
Tagliare della carne grassa in pezzi di grandezza media, far sciogliere della coda (si tratta del grasso della coda di montone, utilizzata nella cucina araba, noi possiamo usare olio) e si fa rosolare la carne nel grasso. S’aggiungono due cipolle tritate, una manciata di ceci e coste di barbabietola e due manciate di riso. S’aggiunge sale e cannella e si copre di acqua tiepida. Appena la carne è cotta si aggiunge pepe, coriandolo pestato e lentisco. Quando l’acqua bolle si getta una manciata e mezzo di Itriya. Alla fine si sparge sopra cumino e cannella.
È una ricetta complessa; carne rosolata con la cipolla, come base di un piatto con ceci, riso e Tria: Attenzione i Tria non sembrano fatti di pasta lunga, altrimenti non si userebbe il termine “manciata”. Come si preparano i Tria ce lo racconta la ricetta che segue, nello stesso manoscritto, quella dei Tria. È una ricetta di il cui nome rinvia da una parola persiana: Rishta. Dopo aver illustrato la preparazione di una carne stracotta con cannella ceci e lenticchie, affronta la preparazione della pasta: “…… alla fine si versa il Rishta, che è una pasta che viene impastata con forza, stesa molto sottile, tagliata in strisce sottili, lunghe cinque dita.”.
Diciamo che abbiamo una sorta di tagliatelle lunghe circa 8 cm, ottenute spezzando lunghe strisce di pasta. Vale la pena di annotare che il termine Rishta, significa anche spago, come i nostri spaghetti.
Per altro così sono fatti i Tria pugliesi contemporanei, che nel famoso piatto dei Ciceri e Tria, vengono non solo bolliti, ma in parte fritti secondo una tradizione risalente all’antica Grecia.
Gli arabi portano quindi i Tria in Sicilia, sin dall’epoca romana grande granaio del Mediterraneo. El-Edrisi, Il grande geografo di Ruggero II, nella sua descrizione della Sicilia ci parla di Trabia, paese ancora oggi esistente vicino Termini Imerese: “A ponente di Termini è un abitato che di nome Trabìa …. allietato d’acque perenni che alimentano parecchi molini. La città ha una pianura e vasti poderi nei quali si fabbrica tante quantità di Tria da esportarne dovunque e specialmente in Calabria e in tanti paesi di Musulmani e di Cristiani, e se ne spediscono moltissimi carichi sulle navi.”
Ma com’è che i Tria Siciliani, diventano Genovesi? Qui l’archeologo è soccorso dalla storia economica. Nel passaggio tra il regno di Ruggero II e quello di Federico II, il commercio del grano e dei Tria, passa dal quasi monopolio dello stato siciliano, alla concessione di tratte commerciali prevalentemente ai genovesi. Genova, che non ha campi di grano, diventa così monopolista di questo commercio per tutto il Mediterraneo. E così i Tria diventano Genovesi, come dire pasta di Gragnano, di Torre Annunziata, e così via.
Salsa alla Genovese: come nasce il condimento della carne con cipolle
Esplorata la storia dei Tria, passiamo al condimento della carne con le cipolle. La ricetta dei Tria Ianuensis, le cipolle sono il condimento della carne, e non, come nella nostra genovese un insieme che nasce da lunga cottura.
Vi propongo ora la lettura di un manoscritto arabo-andaluso, sempre del XIII secolo, dal titolo emblematico: “Carne alla siciliana”.
“Si prende una libbra e mezza (poco meno di mezzo kg) di petto vitello o costolette, o altre parti. La si mette in casseruola con un po’ d’acqua, sale, e 1 kg di cipolle. Dopo si cuociono a fuoco moderato e quando la cipolla è cotta a puntino, e tutta la carne è rosolata, si versano sopra quattro cucchiai di olio d’oliva, pepe, cannella di Ceylon e di Cina, del nardo indiano (una specie di valeriana) e delle polpette. Si termina la cottura e quando la carne è cotta si copre di uova battute allo zafferano o, se si vuole, senza coprirla, si termina la cottura al forno”.
Qui siamo molto vicini alla nostra genovese. Occorre ricordare che la Sicilia medievale era assai famosa per le sue cipolle, che quindi entrano massicciamente in molti piatti. Possiamo ipotizzare che questo condimento potesse essere utilizzato per i Tria ianuensis? Può darsi.
È questa versione di Genovese medievale, che lo chef Salvatore di Meo propone nella sua rubrica di ricette, collegata ai miei articoli.
A questo punto le tracce della ricerca archeologica, in assenza di reperti e ricette, si interrompono, lasciandoci molti interrogativi: come dalla Sicilia i Tria Ianuensis, vennero a Napoli? Certo quello che si preparava in base ai Ricettari della Corte di Federico II, probabilmente circolava in tutto il Sud Italia. Può essere che nel corso del tempo la parola Genovese sia passata dalla pasta al condimento. Quello che è certo che le tecniche di preparazione della pasta si sono evolute rispetto ai primitivi Tria che, col tempo, diventarono maccheroni. In un manoscritto conservato alla Pierpont Morgan Library di New York, risalente alla meta del XV secolo, denominato il cuoco napoletano, troviamo molte ricette della Corte Aragonese di Napoli.
Tra questi appaiono i Maccheroni alla Siciliana, dove si descrive un nuovo modo di fare la pasta: “Prepara un impasto con la farina più bianca, un albume e acqua di rose. Se dovessi preparare più quantità aggiungi solo due o tre tuorli d’uovo; rendi questo impasto abbastanza duro e prendi un piccolo bastoncino di ferro rotondo della lunghezza di una mano e con lo spessore di una cannuccia; mettilo nella pasta e con le due mani arrotola la pasta intorno. Leva la bacchetta e avrai i maccheroni con il buco a centro; questi maccheroni devono asciugarsi al sole e possono essere conservati per due o tre anni; cucinateli in acqua o in un buon brodo di carne e guarnirli con formaggio grattugiato quando li metti sui piatti con burro fresco e spezie delicate. Lessali delicatamente per un’ora.“
La ricetta descrive i nostri fusilli e il modo di prepararli, con brodo di carne e formaggio, è quello popolare descritto da Ibn Butlan; sicuramente, era il modo semplice con cui il popolo siciliano, nei mercati, mangiava i Tria, ed è anche il modo con cui si mangeranno a Napoli poco più di cent’anni dopo, quando nasceranno le prime fabbriche di maccheroni.
Nel ricettario aragonese e nelle cucine dei Palazzi napoletani dei secoli successivi non troviamo più preparazioni a base della preziosa salsa. La “Genovese” sembra essersi immersa nel silenzio della Storia. Riapparirà fra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, per influenza francese sotto le vesti di uno dei tanti Ragù che accompagneranno a Napoli la pasta e, ancora una volta un formato detto di Genova, potrebbe aver il nome alla salsa di carne e cipolla.