Roma, 20 marzo 1979, ore 20 circa: Mino Pecorelli esce dalla redazione di “O.P.”, il settimanale che dirige, in via Tacito, n. 50, con la compagna e segretaria Franca Mangiavacca e il cugino Paolo Patrizi, che da cinque anni è il suo più stretto collaboratore. Percorrono insieme un tratto di Via Tacito, poi Patrizi si accorge di non avere monete per l’autobus e torna indietro per cambiare il denaro ad un bar vicino. La Mangiavacca sale sulla sua 127 parcheggiata nella stessa Via Tacito, mentre Pecorelli prosegue per raggiungere la sua autovettura, una Citroen CX Pallas, parcheggiata nella parallela Via Orazio.
Raggiunta l’automobile, Pecorelli mette in moto ed innesta la retromarcia, senza fare c,a, so ad un uomo con un impermeabile chiaro che attende nel van del portone davanti al quale è parcheggiata l’autovettura l’uomo si awicina, bussa al finestrino: Pecorelli si volta, l’uomo attraverso il vetro spara con una pistola quattro colpi, il primo dei quali colpisce alla bocca il giornalista che si piega sul volante, mentre gli altri tre colpi lo raggiungono al fianco ed alla schiena.
La Citroen con la retromarcia innestata sbanda lentamente, sale sul marciapiedi e finisce con la parte posteriore contro la saracinesca di un negozio chiuso. Trenta metri più avanti alcune persone che si trovano in un bar nqni sentono il rumore degli spari: l’inchiesta accerterà che l’assassino ha usato probabilmente un silenziatore. Franca Mangiavacca, la compagna del giornalista, seguendo i sensi unici da Via Tacito si è immessa in Via Boezio.
Giunta all’angolo con Via Tacito, si rende conto della strana posizione in cui si trova la Citroen di Pecorelli: l’uomo con l’impermeabile bianco è ancora accanto al finestrino. La donna frena, ingrana la retromarcia, percorre via Tacito fino . all’altezza della Citroen. Quando arriva accanto all’auto, l’assassino è scomparso. Si accorge subito che per Pecorelli non c’è più nulla da fare, percorre un tratto di strada per tentare di intercettare l’uomo che è fuggito, poi torna indietro, incontra Patrizi e lancia un grido di aiuto. Arriva un carabiniere in borghese che dà l’allarme: saranno i carabinieri ad occuparsi delle prime indagini. Viene avvertito il Questore di Roma e la Digos: la notizia non desta particolare stupore, quasi che l’assassinio di Pecorelli fosse nell’ordine naturale delle cose, vista la complessa personalità del giornalista ucciso la sua storia personale ed alcune intimidazioni subite (per due volte a distanza di tempo gli avevano danneggiato gravemente l’auto parcheggiata vicino casa).
Pecorelli era nato a Sessano del Molise, in provincia di Isernia, il 14 giugno 1928. Il padre, farmacista del paese, morì quando Mino aveva appena nove anni. La madre, con Mino1 e la sqrella Rosita, si trasferì a Velletri, dove risiedeva sua sorella, che aveva sposato un ufficiale dei Carabinieri. Mino dimostrò subito di avere un temperamento vivace: a dodici anni fuggì di casa con un amico per andare a combattere in Grecia. Fu ritrovato dopo tre giorni dalla polizia a Napoli e ricondotto a casa, ma per poco. Velletri subì un pesante bombardamento alleato, la famiglia Pecorelli tornò a Sessano.
Presto in paese arrivarono le truppe alleate: la zona fu occupata dall’armata polacca del generale Anders e Mino, che aveva appena sedici anni, si arruolò con un gruppo di coetanei nell’armata e fu assegnato alla compagnia Hastaio. Fu leggermente ferito sul fronte di Castelfidardo ed ebbe i gradi di caporale: ad Ancona, aderendo ad una supplica della madre al generale Anders, fu congedato e si ricongiunse alla famiglia che intanto :si era trasferita a Roma.
Frequentò il liceo Nazzareno, si laureò in Giurisprudenza, trovò lavoro come comparsa e reclutatore di comparse per i primi film che ricominciavano ad essere prodotti a Cinecittà.
Una retribuzione più sicura gli veniva dall’attività di direttore di alcuni cinema romani (il Reale, l’Adriano). Aprì uno studio legale, sposò una impiegata del Ministero della Difesa, ebbero un. bambino ed andarono ad abitare in un appartamento in Via Ugo De Carolis: sembrava l’inizio di una vita tranquilla, ma non era così. Mino infatti presto si innamorò di un’altra donna dalla quale negli ani successivi ebbe anche un figlio, si specializzò in diritto fallimentare, ebbe un rapido successo professionale, ma non era ciò che desiderava. Conobbe Elia Valori, nipote di un alto prelato e con amicizie importanti ed attraverso Valori, Egidio Carenini, all’epoca vice segretario amministrativo della D.C., che sarà un punto di riferimento importante nel suo futuro.
Presentatogli non si sa da chi, conolbbe Leone Cancrini, legato ad ambienti politici di destra e proprietario di un settimanale d’attualità, “Mondo d’oggi”, diretto da Paolo Senise.. Capo della redazione milanese era Nino Pulejo, che nel 1945 aveva nascosto in casa sua a Milano Junio Valerio Borghese, in attesa che i servizi segreti americani lo portassero in salvo dai partigiani. Tra i pirincipali collaboratori della rivista era Franco Simeoni, legato ai servizi segreti militari, prodighi di informazioni riservate talora per motivi di servizio, altre volte per faide interne tra le varie fazioni dei servizi stessi. Pecorelli iniziò alla metà degli anni ’60 a collaborare alla rivista, di cui divenne comproprietario. Fu l’occasione per molte nuove conoscenze: sembra che fra essi (Di Gioacchino, pag. 34) ci fosse anche il capo di stato maggiore delle Forze Armate Giuseppe Aloja, di cui alclUni collaboratori erano anche collaboratori di “Mondo d’oggi”.
Pecorelli imparò presto il gioco: ottenutl:a una informazione, la usava a suo piacimento, giocando contemporaneamente su fronti diversi e sempre sottraendosi ad un preciso scthieramento. Nel 1968 la rivista, dopo il petroliere Attilio Monti e l’ex comandante della Guardia di Finanza Domingo Fornara, attaccò Pieraccini e Corona, deputati del P.S.I., accusati di aver accettato benefici dal S.I.F.A.R. Venuto in possesso attraverso un tale mons. Carlo De Angeliis di documenti riservati vaticani, preannunciò una inchiesta giornalistica riguardante la Gestapo, la e. I.A., i servizi segreti di tre paesi Nato, la Filat, la Montecatini, Mary Luce e l’ordine dei domenicani” e l’Università “Pro Deo” in particolare, accusata di essere una centrale spionistica dellla e.I.A. trasferita a Roma da Lisbona da padre Felix Morlion, il domenicano rettore della “Pro Deo”.
L’inchiesta non fu però mai pubblicata: intervenne infatti l’ufficio affari riservati del Ministero dell’interno con un’offerta di cinquanta milioni contro l’impegno di rinunciare alla pubbllicazione della rivista per cinque anni. . Pecorelli, oberato dai debiti, accettò e “Mondo d’oggi” scomparve nel nulla Sembrava la fine ed era invece solo l’inizio: il 22 ottobre 1968 venne registrata presso l’ufficio stampa del Tribunale di Roma l’agenzia di stampa “O.P. – osservatorio di politica internazionale”, con sede in via Tacito, 90 a Roma, direttore Pecorelli e collaboratore Franco Simeoni, l’ex redattore di “Mondo d’oggi”, licenziato poi nel 1971 in quanto ritenuto da Pecorelli troppo legato ai “servizi”.
All’inizio si trattò di pochi fogli di carta ciclostilati, uniti da un punto metallico all’angolo: il contenuto era costituito da brevi articoli che informavano, spesso usando nomi di fantasia, su fatti coperti dal più assoluto segreto (o che almeno avrebbero dovuto esserlo) e che coinvolgevano la responsabilità di personaggi della politica, dell’economia, dell’alta finanza, delle Forze Armate e degli stessi servizi segreti. Talvolta si trattava di veri e propri reati, altre volte di illeciti amministrativi, in altri casi ancora di comportamenti assolutamente m contrasto con l’immagine pubblica del protagonista o dei protagonisti.
Nel 1972 Pecorelli diviene capo dell’ufficio stampa di Fiorentino Sullo, Ministro per le Regioni: prima di conferirgli l’incarico Sullo chiese informazioni al S.I.D. che diede ottl:ime referenze sul giornalista. Evangelisti, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, fedele collaboratore di Andreotti, espresse a Sullo viva contrarietà per la scelta fatta: Pecorelli non perdeva occasione per attaccare su O.P. il Presidente del Consiglio e non era certo un amico della D.C. Sullo chiese al giornalista di scegliere fra la direzione dell’agenzia e l’incarico ministeriale e Pecorelli, inopinatamente, scelse quest’ultimo: direttore di O.P. fino all’anno successivo quando Sullo lasciò il Ministero, divenne Simeoni. Il rapporto Sullo – Pecorelli, i motivi della scelta di Pecorelli a favore del Ministero e del conferimentco dell’incarico da parte di Sullo sono restati finora sconosciuti.
L’agenzia giornalistica continuò a funzioinare normalmente, denunciando scandali, malversazioni, oscure manovre condotte all’ombra delle istituzioni politiche e dei grandi potentati economici. Per O.P., che nel 1978 divenne una rivista settimanal\e profittando di un cospicuo finanziamento ottenuto da Evangelisti, sembrava non esistessero segreti, di Stato o meno. Le disawenture finanziarie di Michele Sindona ed i suoi legami con Andreotti, le acrobazie ed i funambolismi di Roberto Calvi, la disastrosa esperienza industriale di Rovelli, i finanziamenti occulti dell’ltalcasse di Arcaini, la strage di Piazza Fontana, il “golpe” Borghese, lo scandalo Lockheed, i rapporti tra mafia e politica sono solo alcuni dei temi degli articoli di Pecorelli.
Tra essi alcuni riguardano fatti e personaggi assolutamente insignificanti» tanto da fare pensare a veri e propri messaggi rivolti a persone che ne avevano la giusta chiave di lettura per condizionarne in qualche modio i comportamenti o magari solo per avvertirli che erano sotto tiro di O.P. e del suo direttore.
Non sembravano esservi limiti alla possiibilità di Pecorelli di conoscere (e rendere note) le vicende più oscure e le lotte di potere che si svolgevano negli anni ’70 all’ombra delle istituzionii repubblicane. La caratteristica che balza evidente dalla lettura della rivilsta (V. Mangiavacca, Memoriale Pecorelli, in cui sono riprodotti moltissimi articoli di quegli anni del giornalista assassinato) è la rinuncia ad una precisa linea politica, all’adesione ad un determinato schieramento, ad una ideologia che non sia, al negativo, quella della lotta contro il comunismo.
Pecorelli era contro tutti, ma al tempo stesso amico di tutti e da molti riceveva le notevoli somme di denaro necessarie per la pubblicazione della rivista che al massimo potè contare su circa duemila abbonamenti, tra i quali erano inclusi anche quelli plurimi ottenuti da amici compiacenti al solo scopo di finanziare il settimanale. Secondo la testimonianza del giornalista Enrico Fiorini al magistrato inquirente dopo l’omicidio, nel 1980, Pecorelli riceveva un milione an mese dalla Montedison. Altro denaro lo riceveva da Camilla Cruciani, dall’Enel, dal S.1.0., quando ne era capo Miceli, e da Mario Foligni, che tuttavia sarà coinvolto nello scandalo dei petroli (tangenti sul petroliio libico) esploso proprio per la pubblicazione di alcuni articoli su O.P.
Le sue agende (pubblicate tra i documenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P.2) annotano appuntamenti con le persone più diverse, oltre a numeri di telefono riservati di alti funzionari dello Stato quasi del tutto sconosciuti ma sempre collocati in elevate posizioni di potere effettivo. Tra i personaggi più conosciuti compaiono i nomi di Silvio1 Berlusconi, Fedele Gonfalonieri, Giampaolo Cresci, molto vicino a Farnfani, i costruttori Francesco e Gaetano Caltagirone, Sereno Freato, stretto collaboratore di Moro, Angelo Rizzali, Gelli, Ortolani, Elict. Valori, uomo delle Partecipazioni statali, il deputato O.C. Rolando Pkthionin ed altri meno noti.
Tra le persone conosciute c’erano Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, magistrato romano titolare di delicate inchieste che fu anche Ministro, Franco Evangelisti, anche lui fedelissimo di Andreotti ed anche lui per un breve periodo di tempo Ministro, Antonio Bisaglia, a lungo Ministro delle Partecipazioni Statali, Egidio Carenini, un deputato o.e. con cui aveva un appuntamento settimanale, RJaminio Piccoli, Segretario politico della D.C. e più volte Ministro, Emilio Colombo, che fu Presidente del Consiglio e più volte Ministro D.C., Ennio Danesi, anche lui deputato della Democrazia Cristiana.
Nelle Forze armate Pecorelliera in ottimi rapporti con molti uomini dei “servizi”, da Maletti a Miceli, da Dalla Clhiesa a Falde, un colonnello dei carabinieri che prestava la sua opera rnei “servizi” e che Miceli, allora capo del S.1.O., gli aveva messo alle costole. Dal 1972 al 1974 Falde fu addirittura direttore responsabile di O.P. Un amico era anche il generale Mino, comandante generale dell’Arma dei carabinieri, deceduto in un incidente mai completamente chiarito (il suo elicottero di servizio precipitò senza apparente motivo in Calabria), lo stesso che nel 1975, agendo su incarico della Segreteria di Stato Vaticana, aveva scoperto 114 massoni nelle alte gerarchie ecclesiastiche e l’anno successivo, su richiesta del card. Siri, arcivescovo di Genova, aveva indagato sulle connessioni tra prelati massoni e mondo della finanza, indagine su cui nulla si è saputo ma che con ogni probabilità, in base ai legami venuti successivamente alla luce, portava a Marcinkus, Calvi e Sindona. Secondo il giornalista suo amico sa1rebbe stato anche il col. dei carabinieri Viezzer, anche lui operante nei “servizi” che gli aveva fornito i documenti in possesso dei “servizi” sul passato di Licio Gelli, che furono pubblicati su O.P. quando ancora nessuno ne conosceva l’esistenza (da acceso fascista a (forse) agente al servizio del comunismo internazionale: v. in proposito ampiamente Prazzesi, Licio Gelli). Viezzer smentì però un suo coinvolgimento nella vicenda.
Ottimi amici di Pecorelli erano il colonnello dei Carabi:ì nie ri Antonio Varisco, anche lui legato al S.I.D., poi ucciso (1979) dalle Brigate Rosse e il generale Pietro Musmeci, vice apo del S.I.S.M.I. che sarà incriminato per il reato di depistaggio nell’inchiesta sulla strage di Bologna. Tra gli uomini che operavano nell’economia, Pecorelli poteva contare sull’amicizia di Cefis, presidente prima dell’ENI e poi della Montecatini, di Giancarlo Elia Valori, con ottimi rapporti anche a livello internazionale (Peron, Ceausescu, il coreano Kim I Sung), di Luigi Rossi di Montelera, di Tommaso Acidario, già direttore generale dell”‘ltalcasse”, e di Ugo Niutta, molto legato al mondo delle partecipazioni statali e da ultimo Presidente di Farmitalia. Tra le persone conosciute da Pecorelli era anche Francesco Cosentino, Segretario generale della Camera dei deputati e consigliere parlamentare del Presidente della Repubblica Leone (che gli versò venti milioni per attenuare gli attacchi di O.P. nei confronti del Presidente) e Federico Umberto D’Amato, per molti anni capo dell’Ufficio affari riservati del Ministero d ll’interno. Nell’agenda di Pecorelli ricorre anche (cinque volte) il nome di Luciano lnfelisi, sostituto procuratore della Repubblica a Roma. Altri magistrati con i quali era in rapporti erano Antonio Alibrandi e Cesare D’Anna.
È da sottolineare che tutti i nomi ora indicati risultano da documenti processuali o da dichiarazioni (pubblicate) dello stesso Pecorelli o dalle sue agende. Certamente tra le amicizie del giornalista vi erano anche persone ben introdotte in Vaticano: nel settembre 1978, ad esempio, pubblicò una lista di centoventuno tra cardinali, vescovi ed alti prelati indicati come appartenenti alla Massoneria: tra essi il nome del card. Marcinkus, presidente dell’Istituto per le opere di religione della città del Vaticano e strettamente legato a Calvi e Sindona, oltre a quelli dei cardinali Saggio, Paletti; Pappalardo e Villot, del segretario di Paolo VI, don Pasquale Macchi, e del vicedirettiore dell”‘Osservatore Romano”, don Virgilio Levi. Secondo un articolo apparso su “L’Europeo” del 6 dicembre 1982, nel 1974 nella redazione di O.P. lavorava Mons. Hilary Franco, legato da stretta amicizia a Calvi ed indicato come appartenente all”‘Opus Dei”, notizia questa smentita dall’interessato. Sta di fatto che secondo alcune testimonianze fu proprio mons. Franco a tentare attraverso l”‘Opus Dei” il salvataggio di Calvi e del Banco Ambrosiano. Se ci siano stati e di che tipo fossero i rapporti tra il prelato e Pecorelli è restato fino ad oggi un mistero.
Altro collaboratore della rivista era Don Annibale Ilari, un monsignore amico del col. Falde, facente parte del tribunale della Sacra Rota, che forniva notizie sulle (spesso stupefacenti) sentenze del Tribunale, utilizzate poi da Pecorelli sul piano scandalistico.
Nei suoi articoli Pecorelli attaccava pesantemente anche coloro che erano tra i suoi amici ed erano prodighi con lui di informazioni (e di denaro): alle proteste di alcuni di loro rispondeva di farlo per non essere accusato di parzialità, anche se restava in molti il sospetto che il motivo era piuttosto quello di voler mantenere aperto il fronte. Ebbe una sessantina di querele per diffamazione, poche in proporzione al numero delle persone oggetto dei suoi attacchi, sia per l’abilità nel formulare le accuse senza violare il codice penale, sia per il prudente uso di nomi di fantasia per indicare personaggi reali (Andreotti era Belzebù, Dalla Chiesa era Amen, e così via).
Uno dei processi subiti fu in seguito ad una querela contro di lui presentata dlal col. Roberto Jucci, capo del S.1.0.S., a proposito della fornitura di una partita di armi alla Libia: Pecorelli fu condannato ma era ancora in corso presso la Corte di Cassazione quando fu ucciso. Analogamente accadde a proposito della querela presentata contro di lui da Mariotti e da sua moglie: Pecorelli fu condannato ad un anno ed un mese dli reclusione ma quando morì la condanna non era divenuta ancora esecutiva.
Nel 1972, alla riunione della Loggia P2 che si svolse (29 dicembre) presso l’Hotel Baglioni di Firenze, Pecorelli conobbe Gelli, allora solo segretario organizzativo della Loggia. Fu l’inizio di una rapida amicizia, o almeno di un accordo d’affari. Pecorelli aderì alla P.2 e ne divenne il portavoce: il rapporto durò fino al 18 maggio 1978 quando, dopo ripetuti attacchi su O.P. a Gelli, Pecorelli si dimise dalla Loggia con una lettera al suo Gran Maestro in cui lamentava lo scarso aiuto avuto nei suoi attacchi a Mariotti, un deputato socialista toscano che fu anche Ministro, pure iscritto alla P2.
Il motivo della collaborazione di Pecorelli con Gelli resta uno dei tanti misteri italiani, tanto più che avvenne in un momento in cui Pecorelli sembrava aver risolto molti problemi. L’appoggio dei “servizi” alla sua attività si era fatto sentire anche sotto forma di una sede per il settimanale in Via Sicilia, in un edificio in cui già si trovavano uffici “coperti” dei servizi stessi. Il col. Falde, anche lui iscritto alla P.2, era divenuto il direttore responsabile del settimanale, i rapporti con Miceli, capo del S.I.D. (almeno fino al 1974, quando si riappacificò con Maletti, capo dell’ufficio D del S.I.D. e acerrimo nemico di Miceli) erano ottimi, alla rivista (secondo le dichiarazioni di Maletti al giudice Fiore nel 1975) giungevano abbondanti finanziamenti del S.I.D..
Un’altra amicizia di Pecorelli restata nem’ombra per lungo tempo è stata quella con il Gen. Carlo Alberto Dalla Chiesa, il cui nome compare per la prima volta nell’agenda del giornalista1 il 22 settembre 1978. Franca Mangiavacca ha riferito ai giudici che Pecorelli la sera stessa le disse che il generale gli aveva çt : • ! r sto di incontrarlo, probabilmente in quanto già nel 1975 su O.P., allora ancora agenzia di notizie, erano apparse alcune frasi (“Il Moro… Bondo”, “E’ proprio il solo Moro il ministro che deve morire?” “e a parole Moro non muore. E se non muore Moro…”) che davano quanto meno l’impressione che Pecorelli sapesse qualcosa sul rapimento e la uccisione dell’uo,mo politico. Anche durante il sequestro Pecorelli aveva dimostrato di essere ben informato su quanto stava accadendo, fino a pubblicare su O.P. alcune lettere di Moro dal luogo dove era tenuto prigioniero.
Il 9 agosto 1978 Dalla Chiesa venne posto nuovamente a capo dei reparti speciali antiterrorismo: nemmeno quindici giorni dopo cercò Pecorelli e lo incontrò il 4 ottobre , tre giorni dopo l’incursione nel “covo” delle Brigate rosse in via Monte Nevoso a Milano dove fu trovato il “memoriale corto” di Moro. Nulla si è mai saputo sul sequestro di altro materiale in quella occasione e, in caso affermativo, se (come sembra) fu data a Pecorelli la possibilità di averne visione (a proposito del materiale in questione v. Arlati, Le carte di Moro, pag. 84). Certo è che nel gennaio 1979 Dalla Chiesa tentò di recuperare materiale delle Brigate Rosse nascosto nel carcere di Cuneo, dove era rinchiuso Francis Turatello, forse custode del materiale stesso. Il capo degli agenti di custodia del carcere testimonierà a Perugina che ad accompagnare Dalla Chiesa all’appuntamento fissatogli dal generale a Pantalera, vicino Cuneo, era proprio Pecorelli.
Pecorelli era egli stesso un uomo dei servizi segreti? O era invece un ricattatore che attraverso la sua rivista tendeva a fare quattrini profittando delle informazioni in suo possesso? O, ancora, era un uomo legato ad una organizzazione segreta internazionale, una sorta di Super P.2 che lo sosteneva per una campagna di destabilizzazione, attraverso la denuncia di scandali di persone e istituzioni? O, infine, era semplicemente un uomo amante del rischio e dell’avventura che aveva come modello il grande giornalismo investigativo americano? Sono domande tutte restate finora senza risposta, anche se, direttamente o indirettamente, molti giudici, oltre alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P.2 !hanno cercato, finora invano, di risolvere l’enigma. Certo è che le indagini svolte dopo la sua uccisione per identificarne il responsabile hanno portato a risultati quanto meno sconcertanti.
La prima sorpresa venne dalla perizia balistica sui proiettili sparati contro di lui con una pistola, secondo i periti, calibro 7,65 mm Browning/32 Auto, probabilmente munita di silenziator e: due dei proiettili erano di una marca italiana (G.F.L. Fiocchi di Lecco) e due di una marca francese (Gevelot S.A. de Paris), pochissimo diffusa in Italia, provenienti dallo stesso lotto sequestrato il 27 novembre 1981 dalla Digos di Roma in uno scantinato del Ministero della Sanità in Viale Listz, n. 34, a Roma. Il deposito, attraverso un custode del Ministero (Biagio Alese) era gestito dalla banda della Magliana in stretto rapporto con i N.A.R. (Nuclei Armati Rivoluzionari), sigla della destra eversiva. La deduzione logica era che il delitto era stato compiuto da persona che faceva capo all’una o all’altra (o ad entrambe) le organizzazioni che avevano la disponibilità delle munizioni (se non anche dell’arma usata). Restava da individuare il motivo. Le indagini procedettero con grande lentezza almeno fino al 20 maggio 1981, quando scoppiò lo scandalo della loggia massonica P.2. Nella villa di Castion Fibocchi abitata da Licio Gelli furono rinvenuti due fascicoli dei “servizi” (uno riguardante i trascorsi di Gelli, l’altro lo scandalo dei petroli) identici a quelli tirovati nella redazione di O.P. il colonnello Viezzer fu incriminato per associazione a delinquere e, insieme a Gelli, per spionaggio. Il 29 maggio 1982 la procura di Roma chiese l’archiviazione del procedimento per l’omicidio di Gelli e che venisse dichiarata la improponibilità dell’azione penale contro Viezzer e Gelli.
L’istruttoria per la morte del giornalista proseguì nell’ambito di quella sulla P.2 fino al 1989 quando venne stralciata. Indiziati dell’omicidio furono Massimo Carminati, Cristiano Fioravanti, Valerio Fioravanti, Licio Gelli e Antonio Viezzer, tutti prosciolti in istruttoria il 15 novembre 1991.
La vicenda non era però conclusa. Un anno prima, il 17 novembre 1980, un articolo sul settimanale “Panorama” rivelò che a fine gennaio 1979, al termine di una cena presso la “Fannja Piemontesa”, Pecorelli aveva mostrato di fronte al magistrato Claudio Vitalone la copertina già pronta di O.P. in cui campeggiava una fotografia dell’allora Presidente del Consiglio Andreotti con la scritta “Gli assegni del Presidente”: si trattava, secondo Pecorelli, di assegni che Nino Rovelli, Presidente della S.I.R., aveva versato ad Andreotti per la sua corrente.
Quella degli assegni di Andreotti era una vecchia storia che aveva avuto inizio il 14 ottobre 1977, quando O.P. aveva pubblicato sotto il titolo “Presidente Andreotti, a lei questi assegni chi glieli ha dati”, la notizia che assegni per due miliardi di lire erano stati consegnati da Andreotti ad altri senza girarli per evitare che gli assegni stessi fossero riconducibili a lui. Franca Mangiavacca, la compagna di Pecorelli, raccontò al magistrato inquirente che l’informatore del giornalista era stato Ezio Radaelli, organizzatore teatrale, che aveva avutio alcuni di quegli assegni (170 milioni) per uno spettacolo propagandistico a favore della D.C. Secondo Paolo Patrizi, principale collaboratore di Pecorelli, Radaelli aveva dato a Pecorelli la sua disponibilità a collaborare dopo che su O.P. erano comparsi alcuni articoli su un traffico dii falsi quadri di De Chirico in cui Redaelli era restato coinvolto per i suoi rapporti con due gallerie d’arte, una di Milano e l’altra a Firenze. Nel 1! 9 93 Radaelli racconterà di aver subito pressioni da parte di uomin1i vicini ad Andreotti affinché testimoniasse di aver avuto gli assegni da parte non di Andreotti ma di Wagner, dipendente di Rovelli. Andreotti, interrogato, affermò di non sapere nulla degli assegni e di non aver avuto intenzione di indurre Radaelli a mentire ma solo di non essere chiamato in causa “avendo già in corso un altro procedimento presso la Procura di Palermo”. Confermò di aver avuto assegni da Rovelli ma solo per circa trecento milioni.
La questione degli assegni ha una importanza centrale nella ricostruzione dei motivi che portarono all’uccisione di Pecorelli: ad avviso dei magistrati inquirenti l’omicidio avvenne anche per impedire la pubblicazione dell’articolo preannunciato da Pecorelli alla fine della cena alla “Famija piemonteisa” riguardante appunto gli assegni.
Il 20 novembre 1992 Tommaso Busceitta indicò in Stefano Bantade e Gaetano Badalamenti gli organizzatori dell’omicidio ed in Giulio Andreotti il mandante.
Il 29 luglio 1993 il Senato concesse I’autorizzazione a procedere nei confronti del senatore a vita Andreotti. Il Pubblico Ministero Giovanni Salvi indagò, in base alle dichiarazioni di Buscetta, anche Gaetano Badalamenti e Giuseppe Calo. Nell’agosto del 1993 alcuni pentiti, già appartenenti alla banda della Magliana, accusarono quale mandante del delitto anche il senatore Claudio Vitalone, magistrato presso la Procura di Roma. L’indagine passò alla Procura di Perugia, competente per i reati in cui siano coinvolti magistrati in servizio nel distretto della Corte d’appello di Roma.
Il 20 luglio 1995 il procuratore capo di Perugia Nicola Restivo ed i sostituti Fausto Gardella e Alessandro Cannevale chiesero il rinvio a giudizio di Andreotti, Vitalone, Badalamenti, Calò, La Barbera e Carminati. Quest’ultimo chiese ed ottenne di essere processato con il rito abbreviato. Il 5 novembre 1995 gli altri cinque imputati furono rinviati a giudizio dal giudice per le indagini preliminari Sergio Materia e 1’11 aprile 1996 ebbe inizio il processo presso la Corte d’assise di Perugia.
A sostegno dell’accusa furono addotte We testimonianze di alcuni pentiti di mafia, primo fra tutti Tommaso Buscetta, il quale aveva dichiarato alla Procura di Palermo (26 novembre 1992) di aver saputo da due mafiosi, Stefano Bontade e Gaetano Badalamenti, che Pecorelli era stato ucciso su richiesta dei cugini Salvo, noti esattori siciliani delle imposte, per esaudire un desiderio di Andreotti, secondo Bontade perché minacciato nella sua onorabilità dagli attacchi del giornalista, secondo Badalamenti in quanto Pecorelli stava “appurando cose politiche collegate al sequestro Moro” ed a conoscenza anche del Gen. Dalla Chiesa. Buscetta confermò in due successive occasioni (2 giugno 1993 e 17 giugno 1995) le sue dichiarazioni.
La responsabilità di Stefano Bontade nell’omicidio fu confermata al magistrato inquirente da un altro pentito, Salvatore Cancrini, che affermò di aver avuto la notizia da Pippo Calò, legato ad Ernesto Diotallevi e Danilo Abbruciati, due dei maggiori esponenti della “banda della Magliania” di Roma. Un altro pentito, Antonio Mancini, già appartenente alla stessa banda, rivelò (11 marzo 1994) di aver appreso da Renato De Pedis, anche lui facente parte della stessa organizzazione criminale, e da Danilo Abbruciati, che l’omicidio era stato eseguito da Massimo Carminail:i e da Michelangelo La Barbera, conosciuto come “Angiolino il biondo”, su ordine della mafia che aveva ricevuto l’incarico da Claudio Vitalone: il motivo era che Pecorelli era venuto a conoscenza di segreti attinenti il sequestro Moro che potevano nuocere al gruppo politico cui lo stesso Vitalone apparteneva.
Anche Fabiola Moretti, compagna di Darnilo Abbruciati, affermò (1O aprile 1994) di aver saputo dall’Abbruciati che ad uccidere Pecorelli per suo incarico era stato Carminati insieme ad un’altra persona che però il suo compagno non aveva indicato, e che Abbruciati nominava spesso Bontade, Badalamenti e Pippo Calò. Anche un altro pentito, Maurizio Abbadino, pure appartenente alla banda della Magliana, riferì (27 maggio 1994) che Franco Giuseppucci, della stessa banda, gli aveva riferito che ad uccidere Pecorelli era stato, su richiesta di Pippo Calò,in rapporto con la mafia, Carminati, in quarnto il giornalista “stava ricattando un uomo politico”. Piene di contraddizioni risultarono invece le dichiarazioni rese (27 agosto 1993) al magistrato da un altro pentito della banda, Vittorio Carnevale, che chiamò in causa quale mandante dell’omicidio Claudio Vitalone.
Il giudice istruttore aveva ritenuto crediibili le testimonianze dei pentiti: movente dell’omicidio sarebbero stati gli attacchi di Pecorelli ad Andreotti a proposito della vicenda dell”‘ltalcasse”, che aveva finanziato personaggi come Caltagirone e Rovelli, vicini alla D.C. oltre che la stessa o.p. con notevolissime perdite firanziarie (vicenda questa oggetto di vivaci critiche di Moro nel suo memori1ale) ed a cui andavano ricondotti anche gli assegni di Rovelli. Altri possibili moventi del delitto, ad awiso del magistrato, potevano essere stati il possesso di notizie da parte di Pecorelli riguardanti il sequestro di Aldo Moro ed in particolare le (fallite) trattative per la sua liberazione, notizie cii cui Andreotti avrebbe temuto la divulgazione.
Secondo questa ricostruzione il ritrovamento il 14 aprile 1979 in un borsello lasciato su un taxi a Roma di alcuni oggetti legati alle Brigate rosse e di quattro schede personali di cui una intestata a Pecorelli, sarebbe stato un messaggio in codice che voleva significare che il movente dell’omicidio Pecorelli andava cercato nel contesto del delitto Moro e più in particolare nei falsi comunicati della Brigate rosse durante il periodo del sequestro e di cui era autore materiale Tony Chichiarelli, ucciso il 28 settembre 1984. Altro mòvente dell’omicidio, ad avviso del G.I., potevano essere le notizie in possesso di Pecorelli a proposito dei rapporti tra Andreotti e Sindona e che il giornalista avrebbe potuto utilizzare per ricattare l’uomo politico.
Ad avviso del magistrato si trattava1 di moventi che anche presi isolatamente potevano aver indotto Andlreotti e Vitalone a chiedere alla mafia l’esecuzione di Pecorelli. Veniva invece esclusa la possibilità di altri moventi, quali quello passionale e quella legata ad un documento di cui Pecorelli era in attesa il giorno prima della sua uccisione, entrambi indicati in un appunto acquisito pressai il S.I.S.M.I. e datato 23 marzo 1979. Pure esclusa fu la responsabilità di altri mafiosi indicati come autori materiali del delitto e un accordo tra Guardia di Finanza e ‘ndrangheta per l’esecuzione dell’omicidio.
Il processo celebrato presso la Corte d’Assise di Perugia si concluse (24 settembre -1999) con l’assoluzione di tutti gli imputati: la Corte infatti ritenne insussistenti le prove di un rapporto, all’epoca dei fatti, tra Cosa nostra e la banda della Magliana ed in particolare tra Pippo Calò e Daniele Abbruciati. Pure non provato fu ritenuto il coinvolgimento della mafia nell’omicidio e l’esistenza di un rapporto tra Andreotti e la banda della Magliana. Non univoci furono ritenuti dalla Corte i rapporti tra Claudio Vitalone e la stessa organizzazione criminale, alla quale la Corte ritenne riconducibile il delitto.
Non provati furono ritenuti i rapporti fra Carminati ed Abbruciati ed inattendibili le confidenze di Badalamenti e Bontade. Priva di riscontri oggettivi, tra cui la presenza a Roma il giorno dell’omicidio, furono infine ritenute le accuse nei confronti di Michelangelo La Barbera.
Pur assolvendo tutti gli imputati, la Corte manifestò le sue perplessità sulle strane coincidenze tra i due troniconi probatori (responsabilità di Cosa nostra e responsabilità della banda della Magliana) a proposito della identità del movente (la pubblicazione di notizie temute da uno stesso gruppo di persone) di quella del gruppo di potere che avrebbe ordinato l’omicidio e della fitta rete di rapporti politici, sociali ed economici, palesi o occulti (Loggia P.2, massoneria segreta) che legavano i vari personaggi coinvolti nerna vicenda. In sostanza la Corte riteneva plausibile l’impianto accusaitorio e la individuazione del movente, ma non riteneva provati i rapporti tra presunti mandanti, organizzatori ed esecutori dell’omicidio.
La Corte di assise di appello di Perugia, pronunciandosi sull’appello proposto dalla Procura della Repubblica e dalla parte civile (la sorella di Pecorelli, Rosina, ed i figli Andrea e Stefano) condannò (17 novembre 2002) a 24 anni di reclusione Andreotti e Badalamenti, confermando l’assoluzione per tutti gli altri imputati. Per pervenire a questa conclusione la Corte d’appello dichiarò di ritenere attendibili le rivelazioni di Buscetta e Badalamenti in quanto quest’ultimo faceva riferi.mento a proposito dei moventi dell’omicidio “alle carte di Moro consegnate da Dalla Chiesa a Pecorelli” e prova dei rapporti tra il generale e il giornalista erano riscontrabili nelle agende di Dalla Chiesa e nella testimonianza della segretaria di Pecorelli.
Inoltre già nel 1991 in epoca precedente alle rivelazioni di Buscetta il maresciallo Angelo lncandela comandante degli agenti di custodia dell carcere di Cuneo, aveva riferito al direttore del carcere Zaccagnino dell’attività svolta da Dalla Chiesa per entrare in possesso delle carte “segrete” di Moro, un particolare questo che né Buscetta né Badalamenti potev:ano conoscere. Veritiero era da ritenersi, in quanto sorretto da numerose conferme, quanto riferito da Buscetta a proposito dei rapporti tra Andlreotti ed i cugini Salvo.
Ad avviso della Corte, i rapporti stessi erano tali da consentire all’uomo politico di richiedere ai due cugini “l’eliminazione dello. scomodo Pecorelli”: per i Salvo si trattava di cosa fattibile dati gli stretti rapporti che essi avevano, secondo Buscetta, con Badalamenti e Bontade, che avevano entrambi la possibilità di agire per portare a termine l’omicidio. Il movente, ad avviso della Corte d’appello, era da ricercarsi in un articolo pubblicato da Pecorelli su O.P. del 17 ottobre (in edicola dal giorno 9) in cui sotto il titolo “Il filo rosso” si parlava di un manoscritto con grafia apparentemente di Aldo Moro di circa 150 pagine, quando il memoriale pubblicato era ancora un dattiloscritto di 48 cartelle: solo nel 1990 che sarà scoperto a Milano, in via Monte Nevoso, il secondo memoriale, questo manoscritto.
L’articolo provava che Pecorelli era a conoscenza del testo manoscritto del memoriale, così come non era da escludere che rispondessero a verità e fossero tratte da documenti rinvenuti da Dalla Chiesa nel carcere di Cuneo o altrove le notizie pubblicate su O.P. del 20 marzo 1979 a proposito del sequestro e delle trattative per il rilascio dell’uomo politico democristiano. Infine, a rafforzare il movente dell’omicidio stava, ad avviso della Corte, la vicenda degli “assegni del Presidente”, degli assegni cioè che sarebbero pervenuti ad Andreotti e da lui utilizzati per il finanziamento della sua corrente nella D.C.
Tutto questo, secondo la Corte, stava a provare il conferimento di un “mandato ad uccidere” da parte di Andreotti, almeno nell·a forma di un “consenso tacito”.
Restava a questo punto alla Corte d’appello la individuazione degli autori materiali dell’omicidio, confermando o meno la sentenza di primo grado che aveva assolto Carminati e La Barbera. Le dichiarazioni rese a questo proposito dagli ex appartenenti alla banda della Magliana furono ritenute inattendibili ed i due (presunti) responsabili dell’omicidio assolti.
A questo punto la situazione divenne di fatto paradossale: esisteva una verità processuale a proposito del movente del delitto e dei mandanti (Andreotti e Badalamenti) ma si ignorava chi avesse organizzato e materialmente compiuto il delitto. La Corte di Cassazione a sezioni unite il 30 ottobre 2003, decidendo il ricorso presentato contro la sentenza della Corte d’assise d’appello, annullò senza rinvio (quindi senza la possibilità di un nuovo processo) la sentenza ed assolse Andreotti e Badalamenti per non aver commesso il fatto in quanto mancava la prova dell’apporto della mafia e della banda della Magliana al delitto, venendo così meno la possibilità sia della individuazione degli organizzatori e degli autori materiali di esso, sia della esistenza del “mandato omicidiario”, essendo stato identificato solo il (preteso) mandante ma non anche i mandatari. È questa, ad oggi, l’unica verità processuale sull’uccisione di Mino Pecorelli.
Bibliografia
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