Ogni istituto scolastico, e persino ogni aula formata da una ventina di alunni, sono lo specchio di tutta la società. Uno accanto all’altro, seduti nei loro banchi, bambini e bambine, adolescenti, futuri cittadini e cittadine, di estrazione sociale e culturale, religione, razza, condizioni psicofisiche disomogenee, condividono un percorso di crescita che si realizza attraverso la diversità, la peculiarità, l’unicità di ciascuno.
La legge 517 del 4 agosto 1977 è stata, dopo l’istituzione della Scuola media Unica entrata in vigore nel 1964, una tappa fondamentale del processo di democratizzazione della scuola italiana: si concludeva il tempo dell’emarginazione degli alunni portatori di handicap in classi speciali o differenziali, istituite nel 1962 con la legge 1859, che comunque aveva costituito un passo avanti rispetto al passato, quando i bambini con disabilità psicofisiche erano completamente esclusi dalla scuola.
Grazie alla legge 517 del ’77 gli alunni portatori di handicap vengono inseriti nelle classi normali, dove seguono un piano educativo personalizzato con il supporto della nuova figura dell’insegnante di sostegno.
Dalla fine degli anni Settanta la scuola diventa quindi il luogo dove anche gli alunni svantaggiati possono cercare di superare le difficoltà di apprendimento insieme ai propri coetanei, con i quali condivideranno i tempi, le esperienze, le emozioni, presenti e future, al di fuori delle aule scolastiche, nella società.
Si può quindi affermare che questa legge abbia rappresentato, in Italia, lo spartiacque storico tra una scuola della separazione e una dell’inserimento in linea con il dettato costituzionale:
Art. 3. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli…
Oggi le cronache giornalistiche, le dichiarazioni dei politici appartenenti alle diverse sponde, i dibattiti nei talk show esprimono sconcerto per i propositi espressi da un possibile prossimo parlamentare europeo, di cui non è salutare neppure rammentare il nome, che sostiene la necessità di escludere dalla frequenza nelle aule scolastiche gli alunni con disabilità psicofisiche, e nel contempo di formare classi in base ai livelli di competenza degli studenti, in linea con la nuova definizione del ministero “dell’istruzione e del merito”.
Mi torna in mente quando, ai tempi lontani della mia frequenza della scuola elementare, il capoclasse incaricato di sorvegliare i compagni durante l’assenza della maestra, tirava con il gesso una linea verticale sulla lavagna: alla destra annotava i “bravi, a sinistra i “cattivi”. In quel ruolo sgradevole il capoclasse impersonava l’autorità, perché da lui dipendeva il “merito” e il “demerito” dei suoi “pari” esercitando il potere di discriminare i suoi compagni. In quel ruolo “pro tempore”, vissuto con molto orgoglio, il capoclasse “dividendo” e spaccando in due la scolaresca consolidava le sue amicizie e le sue inimicizie.
Era il tempo, mi riferisco agli anni Sessanta e Settanta, in cui gli alunni più meritevoli occupavano i primi banchi di fronte alla cattedra e sotto gli occhi della maestra o del professore, i “fannulloni” o i meno motivati allo studio o i più discoli erano confinati in fondo alla classe a ridosso degli attaccapanni, dove potevano schiacciare un pisolino, guardare dalla finestra, tirare qualche pallina di carta contro i secchioni. La punizione era costituita dall’umiliazione, come auspicherebbe ancora il ministro Valditara. Chi non è più giovane ricorda se stesso o qualche compagno buttato fuori dalla porta dell’aula ad aspettare la fine delle lezioni con il bidello o dietro la lavagna con le mani dietro la testa. I registri di classe riboccavano di note sterili, senza che nessun docente cercasse di capire le origini del disagio di quegli alunni che nasceva probabilmente fuori dalle aule scolastiche.
Esistevano ancora le classi omogenee maschili e femminili. Nelle sezioni “A” e “B” venivano iscritti i figli di “buona famiglia”, di professionisti, laureati, dirigenti, poi via via seguivano le sezioni miste dove confluivano i figli degli immigrati dal Sud, degli operai, dei pluriripetenti, dei genitori separati… Ai professori anziani e con più esperienza venivano affidate le classi “migliori”, agli ultimi arrivati, spesso immigrati dal Sud, quelle “peggiori”.
Questa scuola, vecchio stampo, è tramontata grazie a una organizzazione democratica che inizia con l’eterogeneità delle classi al loro interno ed omogeneità fra le diverse sezioni; con
l’equa distribuzione degli alunni più attrezzati culturalmente anche per appartenenza sociale, dei casi più problematici, degli stranieri e dei portatori di handicap psicofisici.
Ogni classe costituisce, con tutte le sue “diversità”, un microcosmo corrispondente al campione più esteso dell’intera società. Per questo ogni aula scolastica è una palestra di vita, dove ci si allena, dalla scuola dell’infanzia all’università, al confronto, alla condivisione, all’inclusione, al rispetto dell’altro, alla solidarietà verso chi è “diverso”o meno attrezzato per affrontare la vita. La stessa eterogeneità la si condivide fuori dalla scuola, dall’infanzia alla vecchiaia e mette tutti alla prova: nella fabbrica, in ufficio, nelle sfere del potere, nel quartiere in cui si vive, anche nel proprio condominio…
Ripristinare le classi speciali o differenziali e contemporaneamente istituire le classi riservate agli studenti e alle studentesse più “meritevoli”, porterebbe la nostra società indietro di sessant’anni, azzerando il processo di democratizzazione fin qui conseguito secondo i dettami della Costituzione. Questo processo virtuoso deve invece continuare con scelte che favoriscano la piena attuazione del diritto allo studio di tutta la popolazione scolastica, con sempre maggiore attenzione alle classi sociali più deboli e in difficoltà, perché tutti possano aspirare a risalire la scala sociale: attività di insegnamento della lingua italiana propedeutica all’apprendimento di tutte le discipline per gli studenti stranieri; implementazione delle ore di sostegno e sussidi didattici per portatori di handicap; potenziamento del tempo scuola per arricchire la quotidianità degli studenti in tutti i suoi aspetti, cognitivi, ludici, espressivi, di interazione e inclusione, tenendo presente che la comunità scolastica di oggi sarà la società di domani.
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