NEURALINK

un’analisi delle neurotecnologie in bilico fra medicina e transumanesimo

GIOVANNI MARIA OCCHIPINTI

Neuralink, dirompente azienda di neurotecnologie fondata da Elon Musk, ha installato nel gennaio 2024 il suo impianto cerebrale nel primo paziente umano: Noland Arbaugh, un uomo di 29 anni rimasto paralizzato dalle spalle in giù dopo un incidente subacqueo. La notizia è stata comunicata sinteticamente da Musk sul suo profilo X, ma è diventata virale a partire da una diretta pubblicata dalla società stessa, in cui Noland viene ripreso mentre gioca a scacchi online con il pensiero grazie ad un’interfaccia neurale.

Ma, concretamente, in cosa consisterebbe il miracolo implementato dall’azienda statunitense? Cos’è, da cosa è costituita, e come funziona questa benedetta interfaccia neurale?

L’infrastruttura tecnologica che ha permesso ad un uomo affetto da tetraplagia di recuperare la propria autonomia digitale (così viene definita dalla stessa Neuralink) è composta da una serie di elementi attentamente ingegnerizzati all’interno di un lungo e complesso iter di ricerca, sperimentazioni e approvazioni.

Il protagonista del processo è l’impianto cerebrale (N1 Implant), ovvero un impianto intracorticale (inserito nella corteccia cerebrale) della grandezza di una moneta, progettato per registrare, processare e trasmettere all’esterno i segnali dell’attività neurale. Per acquisire questi dati dal cervello, l’impianto è dotato di 1024 elettrodi distribuiti su 64 “fili” flessibili, ognuno dei quali è più sottile di un capello umano.

La sottigliezza e la flessibilità dei fili è pensata per diminuire il rischio a cui i pazienti sono sottoposti e per migliorare l’efficienza del dispositivo, ma ha reso necessaria la progettazione autonoma di un robot chirurgico (R1 Robot), capace di posizionare gli elettrodi vicino ai neuroni di interesse.

I segnali acquisiti e processati sono poi trasmessi ad un’applicativo Neuralink operante su di un dispositivo esterno, come un computer, che li decodifica e traduce in azioni, come il movimento di un cursore sullo schermo di un device.

Per finire, come ciliegina sulla torta, abbiamo una batteria esterna (N1 Charger) in grado di caricare a distanza l’impianto, che così può essere posizionato sotto la scalpo in modo da risultare invisibile.

Come abbiamo già precisato, il lavoro di ricerca e sperimentazione alla base di tecnologie del genere è immenso ed ha probabilmente impiegato alcune delle menti migliori del pianeta. Infatti, Neuralink ha dovuto non solo internalizzare notevoli capacità di microfabbricazione, ma anche sviluppare sistemi innovativi per simulare gli ambienti chirurgici e testare la robustezza delle sue tecnologie. Tuttavia, proprio questa incredibile preparazione ha permesso all’azienda di sviluppare un impianto cerebrale tra i più sofisticati che siano mai stati utilizzati nell’ambito delle BCI. Per fare un confronto, il dispositivo più comunemente utilizzato nella ricerca sulle interfacce neurali, l’array Utah, utilizza cento elettrodi, contro i 1024 di N1 Implant.

E non poteva essere diversamente, siccome la missione di Neuralink è di rendere la loro interfaccia neurale una “seconda natura”. Infatti, se l’obiettivo a breve termine di questa prima fase di sperimentazione sugli esseri umani è quello di ripristinare l’autonomia digitale di soggetti completamente paralizzati, il sogno ultimo di Neuralink è quello di creare una piattaforma generalista in grado di integrare e supportare ogni capacità del cervello e della mente, sia per aiutare milioni di persone con bisogni medici irrisolti, sia per potenziare radicalmente le nostre capacità cognitive.

Difatti, le applicazioni delle BCI sono numerose. Esse possono, come abbiamo visto, svolgere un ruolo cruciale nel ripristino della mobilità, permettendo il controllo di dispositivi esterni ed arti prostetici con il solo pensiero, ma possono essere impiegate anche per la diagnosi e il trattamento di malattie neurodegenerative come il morbo di Parkison, o per la riabilitazione linguistica. In questo ultimo caso, per esempio, si parla di comunicazione aumentativa e alternativa (ACC), per cui i segnali cerebrali non vengono tradotti in azioni ma vengono convertiti in messaggi linguistici che vengono emessi da device in grado di sintetizzare il linguaggio umano con una velocità vicina a quella del parlato in condizioni sane.

Tuttavia, gli ambiti di utilizzo delle interfacce neurali oltrepassano il recinto della medicina, promettendo importanti innovazioni in cambi del sapere e dell’agire molto distanti dal mondo della salute. Le interfacce neurali possono essere utilizzate per il controllo a distanza di droni, robot o sistemi domotici in ambiti come quello della difesa, della sicurezza, dell’automazione industriale o della cura alla persona; oppure, si possono utilizzare le BCI per arricchire le esperienze di gioco e intrattenimento, rendendole ancora più immersive e interattive; infine, queste tecnologie possono essere implementate per il monitoraggio delle prestazioni cognitive, fisiche e dello stato emotivo degli utenti durante attività come lo studio o il lavoro, in modo tale da fornire dei consigli volti a migliorarne benessere, sicurezza e prestazioni.

Ma allora le interfacce neurali, con le altre strabilianti tecnologie del secolo, salveranno tutti quanti ricreando l’Eden in Terra?

Chiunque accolga a braccia aperte le portate benefiche della tecnologia senza interrogarsi sulle dinamiche storico-culturali, si affida ai sogni di gloria di altre persone, senza aver prima soppesato i rischi, esistenziali e non, connessi al progresso tecnologico in quanto processo umano. La tecno-scienza infatti, e la ricerca sulle BCI non fa eccezione, non è neutrale solo perché fondata su di un metodo rigoroso: ogni sviluppo tecno-scientifico è profondamente interconesso ai contesti umani in cui è prodotto, e pone pertanto questioni sociali, economiche, politiche e, soprattutto, etiche a chiunque si interfacci con esso: fruitori, spettatori critici o costruttori.

In particolare, le BCI rientrano nella categorie di tecnologie che puntano all’ibridazione della macchina con l’uomo, col fine di migliorare le performance e il benessere dell’ultimo. Questo filone di strumenti è attraversato, alimentato e plasmato da una vasta gamma di prospettive.

In primo luogo, è da riconoscere nell’implementazione di interfacce neurali (soprattutto a scopo non medico) una matrice transumanista, e lo confermano le parole di Elon Musk quando dichiara che l’obiettivo ultimo di Neuralink è “raggiungere una simbiosi con l’intelligenza artificiale”.

Il Transumanesimo, citando letteralmente il biochimico Aubrey de Gray, uno dei suoi massimi esponenti, è “un movimento sociale basato sull’idea che noi dovremmo, e soprattutto che sia possibile, utilizzare la tecnologia per superare i confini della condizione umana”. Esso è profondamente legato ai valori e ai magnati della Silicon Valley e postula, più in generale, che per ogni problema umano si possa trovare una soluzione scientifica e tecnologica, a patto di avere competenze e fondi adeguati. In altre parole, l’ideale cardine del movimento è rappresentato dalla volontà di affrancare l’essere umano da molti limiti biologici, guidando razionalmente il processo evolutivo della specie. Tra gli obiettivi del movimento annoveriamo non solo il potenziamento delle capacità intellettuali, fisiche o fisiologiche, ma anche lo sviluppo di un’intelligenza artificiale forte, il trasferimento della mente umana in una macchina e l’eliminazione dell’invecchiamento e della morte.

Alla base della matrice transumanista vi è, però, la corrente di pensiero ancora più generale del Postumanesimo, una prospettiva interdisciplinare che sostiene la necessità di ripensare e riconfigurare la categoria concettuale di “umano” alla luce, soprattutto, della radicale trasformazione subita dalle nostre esperienze quotidiane influenzate dalle nuove tecnologie. In questo scenario, la tecnologia non agisce solo come ente che trasforma e integra l’umano, ma come indizio tangibile che stimola la persona a rinunciare a qualsiasi centro ontologico su cui approssimare la propria natura, abbracciando così una visione policentrica delle categorie concettuali in cui l’alterità, e il caos, non sono considerati devianze ma principi dell’essere stesso.

Ma oltre agli aspetti ideologici e culturali, è fondamentale collegare la nostra incursione nel mondo delle interfacce neurali all’analisi delle potenziali ricadute sociali, economiche, politiche ed etiche che deriverebbero da una diffusione massiccia di questi strumenti.

La natura multidisciplinare delle BCI prospetta, infatti, un impatto economico positivo nei settori più diversi, ma solleva numerose perplessità, poiché l’accesso alle profondità del cervello implica non solo grandi opportunità ma anche non trascurabili rischi di abusi.

È fondamentale, pertanto, che tutti gli attori coinvolti si impegnino per lo sviluppo e l’impiego responsabile di queste neurotecnologie. Gli obiettivi ultimi dovrebbero, quindi, contemplare la protezione dell’integrità e della privacy individuali, ma anche l’accessibilità a questi benefici da parte di tutti e tutte. Lo strumento principe per assicurare traguardi del genere è sicuramente quello della regolamentazione, sia tramite la definizione di linee guida etiche, sia tramite il disegno di quadri normativi da parte degli enti politici. Ora più che mai, infatti, la politica tutta ma anche il corpo civile non può astenersi dal rimanere al passo con i tempi, pena l’esclusione da ogni possibilità di plasmare collettivamente il futuro della civiltà umana in una delicatissima ed epocale fase di transizione.

In conclusione, invitiamo i lettori ad applicare le tappe critiche e narrative di questo contributo ad ogni notizia che riguardi l’avanzamento dell’apparato tecno-scientifico. Ribadiamo, quindi, quanto sia importante per tutti noi essere curiosi e lanciarsi nell’esplorazione critica di ogni innovazione tecnologica di cui veniamo a conoscenza, consapevoli che alla base vi è sempre un’innovazione del pensiero e della cultura umani. Non dovremmo avere paura di non essere abbastanza competenti, non dovremmo avere paura di rimanere travolti dalle ondate di novità. Non dovremmo avere paura, perché una nostra paralisi non porterebbe a nulla se non alla contemplazione sterile di un progresso ineluttabile. Dovremmo, al contrario, armarci di pazienza, informarci e chiedere aiuto per la comprensione e l’approfondimento di questioni troppo complesse; dovremmo ascoltare le nostre esigenze e prestare attenzioni a quelle degli altri; dovremmo, infine, coltivare un’immensa e costante curiosità, sospinti dalla convinzione che il progresso può e deve essere un processo costruito dialogicamente.


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