A proposito della Storia delle donne in Italia dal 1848 ai nostri giorni, Marsilio 2023
Tredici/D Lexicon Fresco di stampa
Sara Carbone
Storica e critica letteraria
Sara Carbone per Fresco di Stampa la rubrica della quarta sezione Lexicon di Democrazia futura recensisce lo studio di Marco Severini, Le fratture della memoria. Storia delle donne in Italia dal 1848 ai nostri giorni (Marsilio, 2023) “minuziosa ricostruzione del cammino delle donne, in Italia, per il riconoscimento dei loro diritti, politici e sociali, dalla metà del Diciannovesimo secolo a oggi”. “Le fratture della memoria non è solo un libro di storia delle donne ma un libro di riflessioni per gli uomini quanto per le donne stesse alla luce del loro passato più o meno recente: il paragrafo dal titolo Simmetrie mancate, in cui si denuncia il «clamoroso silenzio» di alcune donne di fronte all’approccio tutt’oggi sessista della lingua italiana, o i ritratti non proprio rassicuranti di alcuni profili femminili della politica italiana degli ultimi anni e dei giorni nostri, costituiscono un vero e proprio finale aperto che fa di questo libro, non solo un must have delle nostre biblioteche, come ha recentemente scritto la professoressa Silvia Boero, ma un prezioso e, quanto mai, necessario strumento di ripensamenti”- conclude la scrittrice campana.
08 maggio 2024
Edito dalla casa editrice Marsilio, nel settembre 2023, Le fratture della memoria. Storia delle donne in Italia dal 1848 ai giorni nostri, del professore Marco Severini, docente di Storia dell’Italia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Macerata, è una minuziosa ricostruzione del cammino delle donne, in Italia, per il riconoscimento dei loro diritti, politici e sociali, dalla metà del Diciannovesimo secolo a oggi.
L’autore, che rivendica nell’introduzione al volume il primato del fascino della Storia su quello della fantasia e dell’immaginazione, ha armonizzato narrazione cronologica e trattazione per temi: ha sia ricucito, con il filo della sequenzialità, frammenti «del complicato cammino intrapreso dalle italiane verso la modernità», sia portato alla luce «alcuni stereotipi e rigidità interpretative» che si sono ripetuti ciclicamente e, magari, continuando a perpetrarsi nel presente, sono tra i responsabili della mancata «circolazione della conoscenza storica».
Organizzando la materia trattata in otto capitoli – i primi due dedicati alla seconda metà dell’Ottocento, i restanti sei a figure femminili e dinamiche storiche del secolo breve-, animato dall’intento di colmare quei vuoti prodotti da vere e proprie “amnesie storiche”, come il titolo del libro suggerisce, Severini inizia a raccontare le vicende che vedono protagoniste le italiane a partire dagli anni 1848 – 1849. Persuaso che il “biennio riformatore” del secolo Diciannovesimo costituisca «il punto di inizio di un capitolo nuovo nella storia delle italiane», lo storico salda l’inizio della storia dell’emancipazione femminile in Italia con quello dell’emancipazione nazionale che conosce tentativi e sacrifici volti alla realizzazione di uno Stato unitario; ravvisando negli eventi occorsi in questi due anni una «polifonia di voci» di donne che porta con sé le novità della «mobilitazione» e del «fare squadra», egli restituisce una realtà complessa e frastagliata, ricca di sfaccettature e articolazioni che caratterizzano “femminismi” molteplici già nel panorama ottocenteschi.
Se, infatti, il decennio preunitario costituisce un momento di «riflessione» e «raccoglimento» per le donne italiane, come si legge nel primo capitolo, dal titolo L’adolescenza delle italiane (1848 – 1860), gli anni che vanno dal 1861 alla fine del secolo sono contraddistinti da femminismi diversi: da quello «elitario e moderato» a quello «ugualitario e radicale»; da quello «cattolico» a quello «pacifista», a quello «pratico» che accoglie attività di natura filantropica e laica. Quello post-unitario è un Paese che si destreggia tra conservatorismo e maschilismo e si esprime in atteggiamenti contraddittori: si respira una certa aria di apertura verso il tema del suffragio amministrativo femminile ma di chiusura verso la questione del suffragio politico; imperano certe convinzioni come quelle che traspaiono dalle affermazioni di Giuseppe Zanardelli il quale, in materia elettorale, aveva affermato che, pur possedendo le donne capacità intellettuali per esercitare il diritto di voto, era necessario che glielo si vietasse perché «la loro vita sociale non le chiama[va] a quel compito».
L’esigenza suffragista, insiste l’autore, non costituisce l’aspetto esclusivo caratterizzante il faticoso percorso delle donne per la conquista dei diritti fra Otto e Novecento; terreno di lotta è anche l’accesso al mondo dell’istruzione, per cui lotta per il riconoscimento dei diritti e per la possibilità di accesso al mondo dell’istruzione si fondono, in molte occasioni, in un unico coro; sono, spesso, le donne che l’hanno spuntata in materia d’istruzione a guidare momenti significativi della battaglia per i diritti. È una donna laureata, infatti, Maria Montessori, a lanciare, il 26 febbraio 1906, dalle colonne del giornale La vita, un proclama con il quale invita le italiane a iscriversi nelle liste elettorali politiche dal momento che nessun divieto, in tal senso, è espresso dalla legge. Discriminate come cittadine, appunto, esse sono state tenute lontane anche da ogni possibilità di istruirsi al pari degli uomini.
Con la legge Casati del 1859, estesa poi a tutto il regno d’Italia nel 1961, alle donne viene garantita l’istruzione elementare fino a 12 anni; unica chance per chi, del gentil sesso, abbia voluto continuare gli studi, sono le scuole Normali alle quali si accede però a 15 anni. La Casati, che nulla prevede per la formazione femminile dai 12 ai 15 anni, tace anche in merito all’accesso delle donne al mondo universitario precluso loro per costume, prima ancora che per legge.
Ma le rivendicazioni femminili per la parità dei sessi si caratterizzano, fin dagli albori anche per un marcato indirizzo pacifista che condanna l’uso della violenza e che accompagnerà il cammino delle donne anche nel Novecento fino ai giorni nostri: valga fra tutti, ciò che lo storico scrive verso la fine del volume dove si legge che, all’inizio degli anni Ottanta del Novecento, nascono gruppi femministi i quali puntano a contrastare la proposta legislativa dei Socialisti, volta all’istituzione di un servizio militare femminile volontario, e ad aprire un momento di «riflessione femminista sulla pace»; non è certo un caso, né dal punto di vista narratologico né di coerenza interna di un ragionamento storico rigoroso e intimamente disciplinato, che, nel primo capitolo, si legge di donne, appartenenti ai diversi ceti sociali ma accomunate sicuramente da un forte istinto pacifista, che rispondono in maniera «impressionante» al proclama del triumvirato mazziniano il quale chiede loro di prestare servizio assistenziale e infermieristico durante i convulsi fatti della Repubblica romana del secolo lungo.
Mantenendo l’attenzione focalizzata sui temi senza perdere d’occhio la cronologia, lo storico opera direttamente nelle «fratture della memoria» per conferire «una cittadinanza storiografica» alle donne cadute nell’oblio, cercando la “matrice comune”, la costante storica, quella mano apparentemente invisibile, responsabile di tale silenzio; e allora, indicando di volta in volta, chi e/o che cosa ha condannato le donne a diventare soggetti opachi della storia, Severini smaschera e a dà un volto ai responsabili di quel racconto tutto al maschile che ha prodotto «un corto circuito storico – memoriale» nella storia contemporanea.
Che questo volto assuma le sembianze di un’Enciclica papale, come la Nostis et nobiscum di Pio IX con la quale il pontefice «getta un’ombra sulla moralità delle donne» che si sono impegnate nelle operazioni di soccorso nei giorni della Repubblica romana; che sia una semplice memoria “maschile” la quale, durante il fascismo, ha occultato il ruolo di protagonista che le donne hanno rivestito nel corso del primo conflitto mondiale o che, ancora, esso vesta i panni di un’archiviazione giudiziaria, come quella che non ha permesso a Ottavia Fabbrizzi, vittima delle marocchinate di avere giustizia sebbene ormai defunta, poco importa: appare incontrovertibile agli occhi dell’autore l’azione di una volontà del maschile che, «con calcolo e premeditazione», ha prodotto e, spesso, produce un silenzio del femminile.
È questo doppio procedere, gravido di temi e spunti di riflessioni, che fa de Le fratture della memoria storia e storiografia insieme, canto e controcanto, racconto di ciò che si è detto e di ciò che, invece, si sarebbe potuto e dovuto dire.
Se, inoltre, l’universo maschile ha spesso taciuto una certa storia, in tali altri casi l’ha raccontata con determinate parole piuttosto che con altre. E, dunque, lo storico orienta la riflessione sull’uso “politico” del linguaggio perché la scelta delle parole di cui servirsi è importante. Severini osserva, per l’appunto, come in alcune situazioni, anche la scelta di un determinato lessico abbia contribuito alla perpetuazione della stesura del racconto storico al maschile.
Continuare, a esempio, a definire le dieci proto elettrici marchigiane – alle quali, nel 1906, viene riconosciuto, sebbene temporaneamente, il diritto di voto -, con il vezzeggiativo di maestrine, dice Severini, contribuisce «a declassare l’intera vicenda» di cui esse sono state protagoniste. Anche sbagliare i nomi, come accade per il Presidente della Corte di Ancona, Lodovico Mortara, proprio colui il quale, nel 1906, riconosce il voto alle dieci marchigiane, ricordato con un errato nome di battesimo, è “svista” di non poco conto, indice coerente di quel deliberato progetto di damnatio memoriae di cui si è detto.
Assieme a questo “atto d’accusa” rivolto agli uomini, l’autore non manca di riconoscere, del resto, nell’arco della narrazione, “uomini dalla parte delle donne”, per citare il titolo di un volume, curato dalla professoressa Lidia Pupilli, in cui lo storico è intervenuto con un contributo dal titolo «Tre padri per una legge».
Già in tale sede, discettando della Legge n. 1176 del 17 luglio 1919, nota come Legge Sacchi, ha individuato nei tre padri del provvedimento che ha riconosciuto la capacità giuridica della donna in Italia – Amedeo Sandrini, Ettore Sacchi e Lodovico Mortara – tre personalità fuori dal coro e genuinamente convinti che la questione femminile fosse materia urgente da affrontare. La loro indipendenza da pregiudizi culturali viene ribadita dal nostro autore in questa sede, quando passa a trattare in modo analitico, proprio la legge n. 1176 del 1919, ignorata dalla storiografica della seconda metà del Novecento e dei primi anni del Ventunesimo secolo e richiamata solo dagli studi di genere, che, però, hanno «insistito sul carattere circoscritto e limitato della norma».
«Più avanti del partito, dell’ideologia e della storia», «nei sentimenti e nelle idee», si è rivelato, anche, Antonio Gramsci che, unico nel PCd’I, sostiene la necessità della formazione di una nuova personalità e un nuovo modo di concepire sé stesse da parte delle donne, oltre al ruolo di madri e di mogli che la società tradizionalmente ha da sempre attribuito loro.
Ricorrendo, oltre che alle tradizionali fonti «archivistiche, documentarie e bibliografiche», ai repertori biografici, di cui denuncia lo scarso utilizzo, l’autore cesella abilmente ritratti di donne che, dal 1848 a oggi, hanno segnato la storia degli uomini e delle idee. Mantenendo fede alla doppia struttura narrativa, capita spesso che alcune figure femminili siano citate all’interno di un determinato contesto, in cui sono i fatti ad esigerne il richiamo, e biografate altrove, in paragrafi che propongono una tematica particolare o che sono proprio specificatamente dedicati a esse. È il caso, solo per fare qualche esempio, di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, cui si fa riferimento nel racconto delle Cinque Giornate di Milano e sulla quale si ritorna con maggiore dovizia di informazioni nel paragrafo dedicato alle viaggiatrici, o quello di Camilla Ravera, ricordata come compagna di lotta di Gramsci, negli anni del biennio rosso e poi biografata nel paragrafo, tra le pagine finali del volume, intitolato ad vitam quando la si ricorda, in qualità di prima, tra le quattro senatrici a vita dell’Italia repubblicana. Alla biografia di Lidia Pöet, invece, richiamata nelle battute finali del testo come protagonista di una «scalcagnata serie televisiva», è dedicato un paragrafo specifico, così come accade per la senigalliese Licia Rognini, vedova dell’anarchico Giuseppe Pinelli che, protagonista del paragrafo Licia, una donna del Novecento, è stata, per altro, oggetto di studio dedicato da parte di Severini, in un volume del 2020, dal titolo Licia. Storia della prima italiana che denunciò un questore.
Quando le donne non sono ritratto, ma diventano nomi di una dimensione corale, il lettore si trova di fronte a veri e propri “grumi narrativi” che, spesso, si addensano attorno a date di «anni enormi», direbbe Italo Calvino: è il caso del 1906 – anno della sentenza Mortara di cui si è detto, della petizione in favore del riconoscimento del diritto del voto politico alle donne, presentata in parlamento dall’infaticabile Anna Maria Mozzoni, e della stampa del romanzo di Sibilla Aleramo dal titolo Una donna; oppure del 1946, quando le donne vedono riconoscersi il ruolo di elettrici attive e passive, entrano a far parte delle compagini amministrative del nuovo Stato italiano e partecipano, sebbene in numero esiguo, ai lavori della Costituente.
Così come le fonti bibliografiche, il campo d’indagine ha un raggio vastissimo e la galleria di biografie va da donne impegnate, nelle varie epoche, dall’Insegnamento alla Medicina, dall’Avvocatura alle Libere professioni; si indaga su quanto esse abbiano determinato e su quanto siano state, a loro volta, influenzate, dal mondo della moda, della carta stampata, della cucina…
Le italiane vengono, poi, poste a costante confronto con le donne straniere che vivono in Italia o all’estero al fine di misurarne divergenze e analogie di approccio alle diverse questioni; nel lungo cammino dell’emancipazione, esse possono assurgere, in certi casi, a pioniere rispetto alle corrispettive europee, in certi altri, volgere al seguito.
L’analisi tende non solo alla narrazione del fatto in sé ma contiene, quasi sempre, un “affaccio” sulle conseguenze più o meno immediate che l’incursione delle donne in uno spazio prima riservato esclusivamente agli uomini ha prodotto o produrrà. Ne è una prova, apparentemente banale, visto il tema, ma in fondo molto significativa negli esiti, la «femminilizzazione della cucina e dell’editoria a essa collegata» agli inizi del secolo scorso, che determina la creazione di due «livelli di competenza» ossia un livello alto, fortemente qualificato e maschile e un livello basso, fatto di una cucina che punta sull’utilizzo di ingredienti semplici e sani e, dunque, femminile.
Tuttavia, la conquista delle donne di spazi sempre più vasti del racconto storico, consente all’autore di rivedere e scrivere in modo nuovo la Storia stessa. Valga come esempio fra tutti, la storia della prima guerra mondiale: raccontata comunemente come conflitto e ridefinizione dei rapporti fra gli Stati, può essere ripensata e presentata, secondo lo storico, in modo nuovo come ridefinizione dei rapporti sociali interni agli Stati dal momento che le donne sono riconosciute le vere protagoniste degli anni bellici del primo Novecento.
Le fratture della memoria non è solo un libro di storia delle donne ma un libro di riflessioni per gli uomini quanto per le donne stesse alla luce del loro passato più o meno recente: il paragrafo dal titolo Simmetrie mancate, in cui si denuncia il «clamoroso silenzio» di alcune donne di fronte all’approccio tutt’oggi sessista della lingua italiana, o i ritratti non proprio rassicuranti di alcuni profili femminili della politica italiana degli ultimi anni e dei giorni nostri, costituiscono un vero e proprio finale aperto che fa di questo libro, non solo un must have delle nostre biblioteche, come ha recentemente scritto la professoressa Silvia Boero, ma un prezioso e, quanto mai, necessario strumento di ripensamenti.
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