12 maggio ‘24
Sapori, profumi, colori di Falconara.
Casette di mattoni rossastri affacciate sulla Nazionale e sugli scogli, imbastiture lunghe di massi rocciosi che si oppongono alla voracità del mare, si susseguono dalle maleodoranti raffinerie API fino ad Ancona, indorata ai raggi del sole. La città dorica appare in lontananza mostrando fiera la cattedrale di San Ciriaco che, arrampicata sul monte Conero, guarda il porto con le sue navi allineate, i container metallici, il brulichio di marinai dalle bianche uniformi che spiccano tra le tute nere e blu di scaricatori e facchini.
Di fronte a Falconara sfilano all’orizzone le petroliere che accompagnano i pensieri verso l’altrove, verso itinerari mitici che si snodano fra le isole e le città omeriche, la terra dei faraoni, le bianche spiagge sabbiose di Tangeri e di Casablanca fino alle Colonne d’Ercole, il limite invalicabile del mondo antico…
Falconara si estende sulla collina colorata di giallo dai campi di granoturco, girasoli, alberi dalle foglie inaridite, sterpaglie che invadono campi incolti su cui si muovono leggere come polvere tenere farfalline impalpabili, dai colori sfumati; sotto un’umida cappa di calore tafani molesti e maggiolini verde smeraldo lasciano sospeso nell’aria il loro ronzio. Qua e là macchie di papaveri rossi, qualche casetta fatiscente nascosta da piante di fico, affacciata su una strada sassosa che risale la collina. Questa è “Falconara Alta”come la raffigurerebbe un pittore con i colori della sua tavolozza.
Chi scende dal treno, avvolto dal profumo del mare, ha di fronte il viale alberato che dalla stazione porta dritto dritto fino al municipio, rosso come le casette, una torretta e un falco di bronzo dalle ali spiegate che la protegge dall’alto proprio come un castello medioevale domina il borgo che si estende ai suoi piedi.
Al di là della Nazionale si incontra il cuore di Falconara: il Caffè Bedetti è sempre affollato; di fronte a una vetrina ricolma di “pastarelle”, dietro il bancone, il barista, col farfallino nero e la camicia bianca, baffetti alla Clarlk Gable, sta alla macchina del caffè espresso che serve in tazzine di vetro appannato. Al tintinnio dei cucchiaini si sovrappongono le parole “tagliate” del dialetto marchigiano – namo, famo, vedemo – di ragazzi e ragazze con in mano il cono gelato “da venti” ricoperto di panna montata; uomini chiacchierano tra loro tra sbuffate di fumo; in fondo al locale si gioca a bigliardo o a carte sbattute sul tavolo di fronte a un bicchiere di vino rosso del Conero.
In uno spazio all’aperto, Bedetti ogni giovedì pomeriggio propone il “ballo dei bambini”. Mentre le mamme bene agghindate sedute ai tavolini chiacchierano fra loro, al suono di una orchestrina maschietti e femminucce si scatenano nella raspa ballando al centro della sala. Le gonnelline impreziosite da pizzi svolazzano sulle gambe ancora acerbe delle bambine, che indossano calzine corte di cotone e scarpette alla bebè rinfrescate di biacca; i bambini sfoggiano con una serietà inedita un minuscolo papillon.
Non lontano dal caffè Bedetti si presentano altre attrattive: il forno di Valentina oltre al profuno del pane appena sfornato lascia diffondere nell’aria quello di una focaccia fragrante che nasconde “mortatella” e olive; il negozietto di Sergio sforna grandi teglie di pizza al rosmarino; la porzione più piccola costa solo cinque lire!
Di fronte al cinema Ciucci una vecchina, seduta davanti a un banchetto, offre rotolini o stecche di liquerizia, tubetti di “cingomme” che nascondono una monetina di plastica con l’effigie dei ciclisti più famosi; anche le “becche”, semi di zucca da sgranocchiare davanti allo schermo che proietta, attraverso una coltre di fumo, “Sette spose per sette fratelli” o “L’ultimo Apache” o “Il nipote picchiatello” con l’irresistibile Jerry Lewis…
All’uscita della scuola elementare si ritrova ancora la stessa vecchina circondata dagli scolari con il grembiule blu, le scolarette con quello a quadrettini bianchi e rossi, un fiocco bianco tra i capelli, uguale a quello annodato al collettino rotondo. Le cartelle, perlopiù di cartone pressato, chiuse da due cinghie, contengono un astuccio di legno con i pennini da intingere nel calamaio infilato in un foro rotondo del banco, le matite nera e colorate, la gomma e il temperino; i quaderni a righe e a quadretti, più o meno piccoli a seconda della classe, profilati di rosso, sono rivestiti da una ruvida copertina nera, troppo funerea, dall’odore acre. Nella cartella non mancano però le biglie di vetro magiche, lucenti, dai tanti colori fra loro intrecciati che si comprano nel negozio di Servadio di fronte alla scuola. Sanno scatenare la creatività dei bambini come le macchie d’inchiostro sul quaderno e le nuvole su cui costruiscono i personaggi della loro fantasia.
Nei giorni di pioggia, con impermeabili rossi e blu con il cappuccio, i bambini affondano i loro stivaletti di plastica nelle pozze d’acqua venate da arabeschi oleosi rilasciati sull’asfalto dai mezzi a motore: le Giardinette, le Topolino, le prime Vespe che scendono a rotta di collo per le strade in ripida discesa da Falconara Alta verso la Nazionale e il mare, le mete di chi si reca al lavoro ad Ancona o alla raffineria o di chi non resiste al fascino della sabbia, del sole, degli ombrelloni a spicchi colorati, delle cabine a strisce bianche e azzurre. Mentre i più piccoli, nei loro costumini di lana fatti ai ferri dalle nonne, raccolgono col retino le conchiglie trascinate dalle onde sulla riva, o tentano di nuotare infilati in una vecchia camera d’aria di gomma nera, dalla piattaforma di Bedetti dietro gli ombrelloni si espande la musica del jukebox; ragazzi e ragazze dalla pelle lucida e abbronzata si muovono al ritmo di Let’s Twist Again cantata da Chubby Checker. Alcuni clienti del bar addentano con voluttà panini al latte profumati che nascondono prosciutto crudo e alicetta mentre sorseggiano una gazzosa gelata. Giovani aitanti, appoggiati alle colonne del bar con una Malboro in bocca, osservano estasiati i primissimi bikini osé alla Brigitte Bardot delle amiche, pregustando il piacere di trascinarle fra le onde sino agli scogli o alle boe, quelle più lontane da sguardi severi. La giornata continuerà con loro in pineta, nel profumo dolciastro degli oleandri e amaro dei pini mentre la pelle sa ancora di salsedine, seduti sulle panchine bianche che si susseguono lungo il viale fino al Municipio, di fronte a villette degli anni Trenta, eleganti e un po’ misteriose, così nascoste dal verde delle siepi.
Mentre un ragazzo strimpella la chitarra, si canta, si programma la serata al cinema all’aperto, quello “dei frati” della chiesa di Sant’Antonio, o un bagno di mezzanotte e un falò acceso sulla spiaggia, o quattro lenti da ballare stretti stretti sulla terrazza di un amico con il sottofondo di “Sapore di sale”, “Tu si na’ malatia”, “Il cielo in una stanza”… sotto le stelle cadenti di San Lorenzo.
Dopo gli anni Sessanta sono tornata solo rare volte a Falconara e in tempi recenti le sono passata davanti con il Freccia Rossa che mi porta in un’altra città di mare più a sud. Il treno corre veloce. Mi lascia appena una frazione di secondo per scorgere il viale che conduce al municipio, quello che da bambina e da ragazza mi portava alla casa dei nonni, una palazzina costruita nel primo dopoguerra, color cemento, con un giardinetto che si estendeva intorno a un albero di fichi, con delle prose bordate di trifoglio coi fiorellini rosa dal sapore acidulo che di notte si illuminavano al luccichio delle lucciole; vasi di gerani rossi, una seggiola di legno con la seduta di tela a strisce colorate, dove, all’ombra, riposava mio padre, il toscano stretto tra i denti, lo sguardo rivolto verso il mare.
Non mi fermo più a Falconara: dopo il boom degli anni Sessanta le casette di mattone rosso sbiadito dal tempo sono state abbattute una dopo l’altra per lasciare il posto a condomini di più piani; nel corso degli anni anch’esse sono sparite come il caffè Bedetti e lo spazio all’aperto riservato al ballo dei bambini; il negozio di Servadio con le sue biglie colorate; quello di Sergio con la pizza al rosmarino; il forno di Valentina con il profumo della focaccia farcita con la mortadella e del pane appena sfornato.
Mi basta quella fugace immagine che mi cattura dal finesrino del treno in corsa per far affiorare il volto, i profumi, i suoni di quella Falconara genuina e schietta che non c’è più. Rivedo la cucina di mia nonna Laura con la ghiacciaia, il fornello che sprigiona il profumo del latte che sale dal bricco posato sulla fiamma, insieme a quello della noce moscata e dei fegatini che creano il sapore inconfondibile e unico dei wincisgrassi, cotti al forno di Valentina insieme a un pollo ruspante lasciato dorare insieme a spicchi di aglio, patate e rametti di salvia e rosmarino. Rivedo le massaie che rientrano a casa dal forno con le teglie domenicali portate sui palmi delle mani; annuso la scia di profumo irresistibile che si fonde con quello dolceamaro degli oleandri e dei pini pervadendo ogni strada, la pineta, il viale che porta al municipio.
Sedute intorno al tavolo, la finestra aperta sul mare, mia madre e mia nonna, mentre risuona il cinguettio che annuncia il Giornale Radio mattutino, tra boccate di fumo della Giubeck sfilata dal pacchetto giallo, legano con un elastico le figurine dei detersivi Omo e le etichette che avvolgono i barattoli di pomodoro Cirio… contano i punti, scelgono se avere in cambio tazzine, piatti, bicchieri, o qualche giocattolo. Un bel giorno un pallone striato di azzurro e di bianco, i colori del mare, arriva a casa consegnato dal postino. Con quella palla affascinante o con i tamburelli portati a Natale da Gesù Bambino si gioca in mezzo alla strada non ancora asfaltata come tutte quelle di Falconara Alta, senza il timore delle rare automobili o motorette che sollevano nuvole di polvere. Noi bambine e bambini, coi nostri pantaloni alla pescatora e magliette bianche a strisce rosse o blu, osserviamo con sospetto il passaggio, con il suo carretto, di Matto di Pio: chissà cosa trasporta? chissà perché lo chiamano tutti così?
Nella vicina pineta, immensa nel ricordo, un fazzoletto di prato circondato da pini marittimi e oleandri nella realtà, un nugolo di bambini dalle voci assordanti giocano a nascondino, a rubabandiera a “un due tre stella!”. Alcuni soldati di leva, in divisa grigio-verde, flertano con le ragazze di Falconara appartati nelle panchine meglio nascoste dalle siepi di pitosforo e al sicuro dal controllo della ronda che passa instancabilmente ad ogni ora come il camion che sparge acqua sulla ghiaia polverosa; una mamma allatta il suo bambino; un anziano legge il giornale mentre controlla i nipoti suoi e altrui con gli occhiali lasciati scivolare sulla punta del naso.
La mattina si scende in spiaggia con gli zoccoletti di legno che rintoccano sull’asfalto come le campane; per raggiungere il mare si attraversa il mercato tra le sottogonne a balze di pizzo bianco, alla moda, che sventolano appesse a dei ganci; i contadini attirano l’attenzione sulla propria merce con richiami coloriti che si incrociano nell’aria, poi contrattano con le donne il prezzo delle zucchine e dei cetrioli. Giunti in spiaggia attraverso il sottopassaggio della ferrovia che odora di ossi di seppia e gusci di cozze e di conchiglie marcite al sole, i piedi si muovono con cautela per evitare i grumi di catrame arrivati sulla sabbia dalla raffineria.
I più piccoli hanno fretta di entrare nell’acqua; le mamme dalla battigia agitano asciugamani bianchi per richiamarli a riva. Nel cielo volano gli aquiloni variopinti legati a un filo; intanto passa il ragazzo che grida “bomboloni alla crema!” I ragazzi e le ragazze più grandi si tuffano dagli scogli, fanno a gara a chi arriva prima alla boa rossa che delimita le acque sicure; qualcuno si allontana dalla costa con il moscone a remi per raggiungere il largo, dove l’acqua è profonda e da dove si domina tutta la costa con le sue casette arrampicate fino al municipio con il falco dalle ali distese, le colline bruciate dal sole. Lontano, dove il mare si unisce al cielo, il profilo dell’orizzonte dà il senso dell’ignoto e dell’infinito. Dopo il bagno, i ragazzi e le ragazze, distesi sulla sabbia ad asciugare al sole, guardano con speranza al loro futuro mentre si lasciano sedurre dalle lusinghe dei primi amori…
Dopo cena si esce tutti all’aperto. I bambini un po’ assonnati ascoltano gli adulti, seduti lungo il muretto di cinta di orti e giardini, che chiacchierano e, mentre fumano, si raccontano ancora una volta l’evento estivo di maggior richiamo: la festa di Ferragosto. Sul grande sagrato della chiesa dei frati vengono estratti con solennità i numeri vincenti della lotteria, mentre sopra le teste rivolte all’insù esplodono i fuochi di artifico, fantasmagorici e assordanti. Nonna Laura ha vinto tre galline vive! E ancora si ride a crepapelle rivedendo la scena dei pollastri che si dimenano mentre, afferrati per le zampe unghiute, si dibattono e chiocciano incessantemente fino al piccolo pollaio sotto casa. Mentre i più piccoli si addormentano in braccio alle mamme, gli adulti si apprestano a rientrare a passi lenti nelle proprie case con uno sguardo al cielo alla ricerca di un’ultima stella cadente.
Queste sono le ultime immagini di un paese di mare negli anni del dopoguerra, raccontate con emozione a me stessa per non dimenticare.
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