La retorica del fascismo/antifascismo
Tredici/A Hermes Storie di geopolitica – Italia
Guido Barlozzetti
Conduttore televisivo, critico cinematografico, esperto dei media e scrittore
Prendendo spunto dalle recenti polemiche in merito alla mancata messa in onda da parte della Rai in occasione della ricorrenza del 25 aprile di un monologo scritto da Antonio Scurati, Guido Barlozzetti analizza la retorica del fascismo/antifascismo ne “Il Testo, lo Scrittore e la Presidente” proseguendo l’analisi dello stile comunicativo di Giorgia Meloni oggetto di molte molto critiche da parte dell’autore della trilogia mussoliniana. “[…] in un tempo in cui la comunicazione è diventata ambiente e teatro a tempo pieno […], può succedere – scrive Barlozzetti – che un testo, scritto per essere letto in una trasmissione televisiva in una ricorrenza particolare della nostra storia, venga ad assumere una centralità che fa da reagente rispetto a tutto un dibattito politico che riguarda l’attualità tanto quanto il giudizio che si dà di un periodo fondamentale della storia non solo italiana del Novecento. Il Ventennio del fascismo”. Suddiviso in due Atti come un’opera drammaturgica: “Il Testo – prosegue Barlozzetti – ha una firma e l’autorevolezza per non perdersi nei meandri ambigui della rete. I protagonisti di questa storia sono lo Scrittore, appunto, la Televisione e la Rete, e la Presidente del Consiglio. Il contesto: quello largo, un governo di destra-centro, quello stretto, la ricorrenza del 25 aprile”.
16 maggio 2024
Non è facile. Non è per niente facile separare i giudizi dei fatti tanto più quando i fatti contengono già giudizi, sia perché si sono avvolti gli uni sugli altri, sia perché i giudizi sono diventati dichiarazioni che sono diventati fatti, e dunque vanno oltre la questione filosofica del vero e del falso e galleggiano in questa bolla del tutto virtuale che passa sempre di meno per i giornali e sempre di più per la rete, le chat, i tweet, i post.
C’era una volta il dialegesthai socratico, il dare e ricevere ragione, ora vige la sofistica equivalenza delle parole.
Tutti che partecipano, come d’altronde sto facendo anche io in questo momento, con l’ansia di dire la propria, perché finalmente tutti possono dire la propria e lasciare il proprio commento lapidario nel flusso delle dichiarazioni.
Che alla fine non sia questa la realtà? Il flusso, perfettamente eracliteo perché è del tutto indifferente se vada di qua o di là, su o giù, se tutte le direzioni non siano altro che apparenze dello stesso, identico flusso. Che, accade, ogni tanto si agglomerano, densificata su una questione, un tema, addirittura su una parola. Non una parola qualunque, ma una sulla quale si gioca la storia dell’ultimo secolo del nostro paese.
E in un tempo in cui la comunicazione è diventata ambiente e teatro a tempo pieno, il flusso di cui abbiamo appena detto, può succedere che un testo, scritto per essere letto in una trasmissione televisiva in una ricorrenza particolare della nostra storia, venga ad assumere una centralità che fa da reagente rispetto a tutto un dibattito politico che riguarda l’attualità tanto quanto il giudizio che si dà di un periodo fondamentale della storia non solo italiana del Novecento. Il Ventennio del fascismo.
Dunque, nel percorso di questo testo si sovrappongono piani diversi:
- la comunicazione che nel tempo della rete convive ancora con quello della televisione;
- una politica che oscilla tra le logiche antiche della censura e del controllo diretto e quelle invisibili attraverso gli algoritmi e la profilazione dell’utenza;
- la storia che, con il governo di destra-centro uscito dalle elezioni delle 2022, si vede rivolgere una domanda che riguarda il rapporto tra un passato relativamente recente e la direzione in cui cammina il presente.
Trasversale a questi piani, il testo esprime tutta la forza provocatoria delle sue argomentazioni, con una densità per certi versi analogica rispetto al milieu virtuale nel quale finisce per muoversi, e alla fine va a concentrarsi su una parola – antifascista – proposta come una cartina al tornasole dell’atteggiamento con cui ci si rapporta al regime fascista: un capitolo chiuso o un’onda lunga che ritorna? Un’esperienza che suscita nostalgie e quindi anche la continuità di un modo di pensare, di un carattere italiano che in circostanze del tutto diverse torna a manifestarsi?
Intanto, quello che è sotto gli occhi di tutti è che il Testo ha prodotto un confronto inedito – se volessimo dirlo nei termini di una narrazione un Duello – per diverse ragioni:
- per l’oggetto della contesa, l’antifascismo;
- per il profilo dei duellanti che rimanda a un rapporto contraddittorio che non comincia certo da oggi tra la politica e la cultura;
- per l’ambiente in cui si è tenuto, la grande bolla della comunicazione sospesa tra analogico e digitale.
Infine, questa vicenda interroga sulla forza che può avere (ancora) la scrittura nel flusso della comunicazione.
Il Testo lo ha infatti scritto Antonio Scurati, di professione scrittore, vincitore di premi importanti, autore di una monumentale biografia di Benito Mussolini. Parliamo di un professionista che usa la scrittura come medium di una creatività letteraria, che oggi appare insidiata da applicazioni dell’intelligenza artificiale che sembrano in grado di automatizzare i processi di scrittura e di diversificarli in funzione delle esigenze. Per questo lo scriverò con la maiuscola, lo Scrittore, per indicare l’appartenenza a un regime tecnologico legato a una soggettività che ne è anche il valore aggiunto.
Scurati non capita per caso in questa storia, a lui si deve infatti M, un’opera poderosa che appare come il contraltare politico e letterario di un altro lavoro monumentale costruito e condotto dallo storico Renzo De Felice, che a suo tempo sdoganò il dibattito fino ad allora proibito sui vent’anni del fascismo in Italia, sulla figura del Duce, sulla doppia anima del fascismo tra movimento e regime, e su una questione troppo spesso sottaciuta, il consenso largo che registrò nel Paese. Intense furono allora le discussioni e, a fronte di chi sollevava insuperabili barriere ideologiche, ci fu anche chi capì che i conti con il Ventennio andavano fatti e insieme con esso sia con l’Italia che l’aveva accolto e condiviso largamente, almeno fino alla metà degli anni Trenta, sia con il potere carismatico di cui Mussolini era stato espressione. Argomenti questi tutt’altro che anacronistici e che sarebbe il caso di affrontare anche per quanto riguarda l’attualità, non limitandosi alla retorica dei proclami.
Il Testo ha una firma e l’autorevolezza per non perdersi nei meandri ambigui della rete.
I protagonisti di questa storia sono lo Scrittore, appunto, la Televisione e la Rete, e la Presidente del Consiglio.
Il contesto: quello largo, un governo di destra-centro, quello stretto, la ricorrenza del 25 aprile.
Atto I
Andiamo per ordine.
La televisione che poi è quella del servizio pubblico, attraverso un programma commissiona un testo allo Scrittore, gli chiede un monologo di un paio di minuti appunto sulla festa simbolica che ricorda la Liberazione dal nazi-fascismo oltreché la fine della Seconda guerra mondiale.
Lo Scrittore scrive il testo che lui stesso dovrà leggere e pattuisce un compenso di 1800 euro. Una prassi che, se non si trattasse di quel testo, non solleverebbe particolari reazioni, anche perché s’inquadra nella normalità contrattuale che riguarda una prestazione professionale, a prescindere da ogni considerazione etica.
Hai visto mai che qualcuno abbia ancora un’idea dell’intellettuale come una sorta di sacerdote la cui credibilità passa anche per il rifiuto del mercato, fonte di immediata corruzione per tutto quello che produce?!
Vedremo che questo aspetto non sarà secondario nell’evoluzione della storia.
A questo punto, però, deve succedere qualcosa perché il percorso di quelle pagine si blocca. Il Testo si ferma in una palude ambigua in cui le considerazioni di ordine editoriale sì avvolgono con quelle che riguardano il piano economico.
Come a dire che non si capisce con chiarezza se il blocco sia dovuto alla non condivisione di quello che vi è scritto e/o dipenda da una pretesa ritenuta eccessiva da parte dello Scrittore.
Quando si dice blocco lo si fa per dire perché il testo nel frattempo va ovunque e dappertutto. Lascia la scrivania, viaggia per le mail, entra nei meandri dell’azienda da cui è stato commissionato, si diffonde per tutta la galassia dei social, viene battuto e ribattuto dai giornali sui propri siti.
Insomma, il testo si moltiplica, un po’ come i dollari che svolazzano nell’aria quando cade la valigia con il malloppo alla fine di Rapina a mano armata di Stanley Kubrick.
È inutile pensare di chiudere la stalla, quando i buoi ormai sono usciti e vanno dove gli pare. Appartiene alla rete l’ubiquità inarginabile, non c’è censura che possa cancellare, a meno di un blackout a monte come accade in regimi votati al controllo.
Siamo in un campo aperto dove si confrontano strategie di apertura e chiusura, la posta essendo quella del consenso sul piano politico e la persuasione da parte di un marketing personalizzato, dove la seconda è la versione più sofisticata e funzionale del primo, che però spesso ancora si pensa in una sorta di autonomia pre-digitale che presume di poter governare il dispositivo tecnologico.
Il Testo vi entra con la promozione che gli deriva da alcuni elementi forse sottovalutati da chi ha provato a fermarlo:
- la notorietà dello Scrittore, la sua applicazione storico-letteraria al periodo fascista e alla biografia di Mussolini, e il sostegno che gli viene da uno schieramento politico-mediatico;
- il circolo vizioso di una censura che ottiene l’effetto opposto perché il testo esce dalla tv compare sui giornali e sui social e chiunque lo può leggere;
- un contenuto che tocca la questione stessa della legittimazione del governo presieduto da Giorgia Meloni e porta all’estremo una discussione sulla natura dell’esecutivo e in particolare del partito di maggioranza;
- l’irrisolto nodo – fascismo/antifascismo – della memoria storica del Paese, su cui un giudizio storico che si contamina con quello politico resta aperto.
Il Testo
Mi pare opportuno pubblicare nella sua interezza il testo scritto da Antonio Scurati.
“Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924.
Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su sé stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.
In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.
Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.
Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista.
Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?
Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).
Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra.
Finché quella parola, Antifascismo, non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana”.
Il testo è diviso in due parti, l’una conseguente all’altra:
- nella prima si analizza la natura del fascismo e si conclude che il tratto dominante è una “violenza politica, omicida e stragista”, trasversale al Ventennio;
- nella seconda Scurati si chiede se “gli eredi di quella storia” siano capaci di riconoscerlo.
Una sintesi storica del periodo e, a partire da questa, una richiesta diretta di una presa di distanza etico-politica.
Una parola (im)pronunciabile
Il testo di Scurati è clamorosamente antifascista.
È questa la parola-chiave, la parola che discrimina, traccia un solco, certifica un atteggiamento nei confronti di un periodo fondamentale della storia italiana del Novecento, iniziato nel 1922 e finito nel 1945.
Scurati la usa come un guanto di sfida e una provocazione che alla fine interpella direttamente la Presidente del Consiglio.
Il Testo dopo aver definito il fascismo, va a concludersi nel pubblico gesto di un’accusa che riguarda la mancata pronuncia di una parola, di cui viene fatto carico alla Presidente che rappresenta
“il gruppo dirigente post-fascista che ha vinto le elezioni nel 2022”.
Lo Scrittore ingaggia quindi un Duello e ne elegge la controparte. La Presidente del Consiglio.
Non è, va detto, una novità, semmai è il climax di una lunga storia.
È da quando il governo presieduto da Giorgia Meloni è uscito dalle elezioni che assistiamo a un acceso contenzioso attorno a quel termine.
Da una parte, chi si professa antifascista e si rifà alla Resistenza che elegge a fondamento della Costituzione, e chiede alla controparte di fare altrettanto, dall’altra, chi respinge la richiesta e comunque non accetta una domanda percepita come un’imputazione che rovescia sull’attualità un passato inespiabile e perciò non pronuncia quella parola.
È il caso di ricordare, in questo senso, un percorso politico che inizia con l’esperienza del Movimento Sociale di Giorgio Almirante, che fu a Salò, e poi si sposta in Alleanza Nazionale che con Gianfranco Fini arriva a svincolare l’identità della nuova formazione dal fascismo storico e a rivendicare l’appartenenza a una linea conservatrice che gli preesisteva.
Quel progetto non raccolse i risultati sperati e via via, eleggendo a testimonial Giorgia Meloni, si alimentò l’idea di un’opposizione da destra che portò alla nascita di Fratelli d’Italia, una simbolica Fiamma – che dice di qualcosa che continua ad ardere – nello stemma del partito, e alla scelta di non entrare nell’area di governo, con Conte e poi con Draghi.
Da sottolineare come il gioco delle collocazioni politiche sia preso, come si vede, in un movimento oscillatorio, che se per un verso spinge verso posizioni conservatrici moderate, per l’altro e proprio per questo suscita radicalizzazioni e richiami identitari. Accade lo stesso nel contesto, forse ancora più problematico, della sinistra.
Nel caso di Fratelli d’Italia questa operazione s’intreccia con un’intuizione politica volta a lavorare sul malcontento diffuso, sul discredito della politica imputato a una sinistra élitaria e a vocazione egemonica – a cominciare dalla cultura – e su un elettorato che frammentandosi si deideologizza e diventa sempre più sensibile alla rassicurazione in un tempo sovraffollato di emergenze, tanto più se rappresentata da una trinità valoriale fortemente tradizionale come Dio, Patria e Famiglia e/o dal binomio Popolo/Nazione, che alla fine più che nel loro contenuto valoriale, s’impongono a logo semplificante in quella che viene percepita come la confusione del presente.
D’altronde, è proprio questa l’operazione politica messa in campo del partito e dalla sua leader, ergersi a punto di riferimento popolare per gli Italiani – un destinatario-popolo sempre evocato – in un esercizio di equilibrismo che non chiuda in modo tranchant con una storia che resta lì, anche quando si dice che sia finita.
Questo spiega quello che mi pare un concomitante e doppio comportamento di Meloni che, per un verso, si muove nel solco dell’Europa e della Nato senza esasperazioni sovraniste, per l’altro mantiene un buon vicinato con il premier ungherese Orbán, si fa punto di riferimento dei conservatori in Europa e tende con cura a non enfatizzare, anzi li allontana da sé con malcelato fastidio, episodi e uscite che si manifestano nel suo partito e riconducono a una mentalità e a un passato.
Il Testo di Scurati, da questo punto di vista, chiama in causa la Presidente e crea di per sé un problema. Irrompe infatti con un potere che può essere destabilizzante rispetto alla strategia meloniana per il contenuto, per il clamore delle discussioni che ha sollevato e per l’interlocuzione diretta nei confronti della Presidente.
Quello che lo Scrittore ha redatto è infatti un monologo che nasce dalla ricorrenza del 25 aprile, data oltremodo simbolica che dovrebbe essere di tutti e che invece proprio per quel carico storico che porta con sé estremizza un contenzioso che divide la destra dalla sinistra e riguarda il modo stesso d’intendere, come vedremo fra poco, il rapporto tra fascismo e antifascismo.
È il testo che segna una linea di discrimine: una parola – antifascismo – diventa la posta del contendere e viene a sintetizzare l’asprezza non certo recente di un dibattito politico, e purtroppo non solo, che continua a riguardare la stessa Costituzione e cioè la Carta che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, ha sancito i principi fondanti della democrazia repubblicana.
Alla Costituzione tutti dovrebbero rifarsi. Su di essa giurano i membri del governo, quale che sia lo schieramento che vince le elezioni. Il fatto è che nel testo non compare mai la parola “antifascista”, e ci potremmo anche chiedere perché i padri costituenti non la inserirono e se questo accadde per una questione di opportunità e prudenza nel clima nascente della Repubblica ma ancora lacerato profondamente e drammaticamente da quanto era successo.
Ovviamente, è una costatazione di fatto, basta leggerla la Costituzione per rendersi conto che dentro ci stanno tutta una serie di cose che nei vent’anni precedenti non c’erano: la Repubblica fondata sul lavoro, il parlamento, i partiti, la divisione dei poteri, i diritti e le libertà inalienabili dei cittadini, l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, il rifiuto di qualunque discriminazione, il rispetto delle minoranze, il ripudio della guerra…
C’è una lettera del testo, certo, e insieme c’è un senso che marca una discontinuità radicale rispetto al prima della Repubblica. Nessuna citazione diretta se non l’esplicita affermazione nelle Disposizioni transitorie del divieto di ricostituzione del partito fascista. La Costituzione esibisce in positivo i tratti che identificano la Repubblica e, implicitamente, la negazione del regime precedente.
Allora, proprio a partire da questo divieto, ancora una considerazione che potremmo chiamare il paradosso della democrazia e la fragilità della Costituzione. Può succedere – ed è successo – che in uno stato democratico libere elezioni eleggano forze politiche che possono avere posizioni radicalmente diverse da quelle che caratterizzano una Costituzione democratica.
Dunque, può accadere che i cittadini con libero voto democratico mandino al governo dei rappresentanti che non si riconoscono nei principi di una Costituzione e comunque possono darne un’interpretazione restrittiva e che tende ad esempio a enfatizzare il ruolo dell’esecutivo fino a mettere in discussione l’equilibrio stesso dei rapporti con il potere legislativo e il potere giudiziario.
Può trattarsi di un processo graduale e non è detto che sia chiaro il punto in cui si oltrepassa il punto oltre il quale non si è più all’interno della cornice costituzionale. E comunque non sto dicendo che stia accadendo, sia chiaro, sto dicendo che la democrazia è l’unico sistema che consentendo la propria modificazione – la stessa carta costituzionale ne definisce le procedure e i passaggi – può anche mettere in moto uno spostamento negli equilibri tra i poteri che fanno parte di una democrazia coerente peraltro con un programma che i cittadini hanno votato.
Dico di una possibilità e di una contraddizione: tra la forma e il contenuto che può metterla in discussione, tra il consenso e il valore della democrazia in quanto tale. Da un lato, una Costituzione può e deve contenere garanzie democratiche che, però, le fondamentali procedure che consente – le elezioni – possono mettere in discussione. Un paletto non oltrepassabile per quanto riguarda la nostra è costituito dall’articolo 139: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”.
È in questo quadro che, come abbiamo visto, lo Scrittore e il Testo individuano un Antagonista.
Atto II
Un passo indietro. Come si è comportata la Presidente Giorgia Meloni sul nodo dell’antifascismo? Ha pronunciato quella parola? O non l’ha fatto? O l’ha fatto in un modo che non è servito a chiudere la questione?
Azzardo un’ipotesi, e se fosse impossibile arrivare a una qualche sintesi che consenta di uscire finalmente dalla ritualità pregiudiziale della polemica? Se cioè ci fosse una contraddizione di fondo che resta aldilà di una rappresentazione fatta di richieste e dinieghi, di rivendicazioni e silenzi?
Meloni e il 25 aprile
Partiamo dalla strategia discorsiva della Presidente del Consiglio, che si è articolata secondo un gioco di equilibrio di cui abbiamo già avuto occasione di parlare:
- Meloni ha rivendicato l’indiscutibile forza elettorale e democratica da cui è nato il governo, in sintesi “gli Italiani ci hanno votato e noi governiamo per cinque anni”;
- si è fatta paravento carismatico rispetto a tutte le polemiche nate da atteggiamenti che nel suo schieramento rivelassero una consonanza o una tentazione nostalgica rispetto al regime;
- ha sottolineato l’avvenuta elaborazione rispetto al passato respingendo quindi la reiterata richiesta di una patente di antifascismo.
A una settimana dal 25 aprile, rispondendo a un giornalista, puntualizza:
“Sono stata come lo scorso anno a deporre una corona di fiori con il Presidente della Repubblica, come faccio sempre per le celebrazioni di questa nazione, e lo faccio col massimo rispetto del mio ruolo. Quello che avevo da dire sul fascismo l’ho detto cento volte e non ritengo di doverlo ulteriormente ripetere, poi così voi potrete continuare a riempire i titoli dei vostri giornali sostenendo che sono una pericolosa fascista perché mi aiutate anche, vi ringrazio, perché penso che la gente che da un anno e mezzo vede questo e si renda conto che gli estremisti stanno da un’altra parte”.
Meloni ribatte perfino con sarcasmo a quella che considera una trappola provocatoria. Non ha nulla da aggiungere altro a quanto non abbia già detto, rifiuta una risposta a una domanda che ritiene pretestuosa.
Certamente, più argomentata era stata nella lettera inviata al direttore del Corriere della Sera in occasione del 25 aprile del 2023.
Vi parla della ricorrenza come “un momento di ritrovata concordia nazionale”, ricorda un processo trentennale di riflessione da parte della destra e che
“Da molti anni infatti, e come ogni osservatore onesto riconosce, i partiti che rappresentano la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo”.
Dopo di che avanza due rilievi che allungano ombre sulla festa. La prima è la guerra civile che continua anche dopo il 25 aprile. E qui sarà il caso di ricordare riflessione storica di Claudio Pavone che ebbe il merito di proporre da sinistra una visione che comunque la formula rendeva onore sia alla Resistenza, sia a chi combatté nelle file avverse della Repubblica di Salò.
Dunque Meloni fa sua quella visione e poi aggiunge un’altra notazione critica che riguarda
“una seconda ondata di eccidi e il dramma dell’esodo dalle loro terre” che colpirono “i nostri connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia”.
Come a dire che ci furono degli antifascisti che si comportarono brutalmente anche dopo la fine della guerra…
Con queste riserve, il 25 aprile resta
“uno spartiacque per l’Italia” che significò “la fine della Seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del Ventennio fascista, delle persecuzioni anti ebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e privazioni che hanno afflitto per lungo tempo la nostra comunità nazionale”.
A quel punto, una professione di democrazia:
“Il frutto fondamentale del 25 Aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana”.
Dunque, per Meloni il 25 aprile celebra valori, la libertà e la democrazia, in cui tutti si riconoscono e a supporto ricorda lo sforzo dei Costituenti ispirato ad una pacificazione post-bellica, a “includere chi era stato sconfitto” e anche i tanti italiani che erano rimasti passivi durante il ventennio, proprio mentre da lì partiva la rigenerazione democratica della destra. Insomma, una visione in base alla quale non ci sarebbe più questione di fascismo/antifascismo.
E tuttavia, rimane un vulnus che la Presidente addebita alla sinistra quando s’intesta quella che Luciano Violante aveva definito “una concezione proprietaria della Liberazione”, generando
“una sorta di immaginaria divisione tra italiani compiutamente democratici e altri — presumibilmente la maggioranza a giudicare dai risultati elettorali — che pur non dichiarandolo sognerebbero in segreto un ritorno a quel passato di mancate libertà”.
Non pronuncia quella parola, non si richiama alla lotta partigiana e alla Resistenza. Le bypassa con un ragionamento per cui la destra e la sinistra hanno la stessa legittimazione democratica e nessuno deve chiedere all’altro un certificato a denominazione di origine controllata.
È importante tornare a quelle affermazioni perché aiutano a capire anche l’atteggiamento che la Presidente assume nei confronti del Testo, quando arriva sulla sua scrivania.
La risposta allo Scrittore
Scurati punta l’indice direttamente su di lei e sul nodo di un antifascismo rispetto al quale richiede un’assunzione di responsabilità. Che la Presidente pronunci quella parola! Lei interviene, ma non risponde direttamente allo Scrittore, tanto meno alla interlocuzione diretta sulla parola che le viene chiesto di pronunciare. E tuttavia sente la necessità di intervenire e di affrontare il tema della censura che sarebbe stata esercitata sul Testo. Non interviene in televisione sulla Rai? Sarebbe un boomerang in tempi di polemiche sull’occupazione delle testate, non scrive ai giornali, ma preferisce un post Facebook, dunque lo spazio social della rete che consente di rivolgersi direttamente a un destinatario largo, senza bisogno di intermediazioni e con la quotidianità informale di un messaggio:
“In un’Italia piena di problemi, anche oggi la sinistra sta montando un caso. Stavolta è per una presunta censura a un monologo di Scurati per celebrare il 25 Aprile.
La sinistra grida al regime, la Rai risponde di essersi semplicemente rifiutata di pagare 1800 euro (lo stipendio mensile di molti dipendenti) per un minuto di monologo.
Non so quale sia la verità, ma pubblico tranquillamente io il testo del monologo (che spero di non dover pagare) per due ragioni:
Uno, perché chi è sempre stato ostracizzato e censurato dal servizio pubblico non chiederà mai la censura di nessuno. Neanche di chi pensa che si debba pagare la propria propaganda contro il governo con i soldi dei cittadini.
Due perché gli italiani possano giudicarne liberamente il contenuto.
Buona lettura”.
Come si vede, è una dichiarazione articolata che mette in gioco piani diversi:
- Meloni sottolinea il rilievo sproporzionato assunto dalla vicenda rispetto a “un’Italia piena di problemi”;
- ne rovescia la responsabilità sull’antagonista politico, un caso montato dalla sinistra nonostante una censura che si dice “presunta”;
- entrando nel merito, prende atto del rifiuto della Rai dovuto a un compenso sproporzionato rispetto alla prestazione dello Scrittore, inaccettabile se paragonato allo stipendio medio di molti dipendenti della Rai, quindi nega una decisione censoria;
- infine spariglia: censure? “Lo pubblico tranquillamente io”, dice, e porta due ragioni, perché chi è sempre stato censurato dal servizio pubblico è ostile a qualunque censura e perché così gli Italiani potranno verificare da soli.
Conclusione spiazzante e che vorrebbe essere clamorosa come lo è stato il Testo. Quale modo migliore di negare la censura che pubblicare il Testo di cui si dice che sia stato censurato!? Tanto più se lo fa la stessa Presidente del Consiglio!
Meloni sa benissimo che il monologo di Scurati già circola abbondantemente e chiunque ha la possibilità di leggerlo. Quindi non è questo l’obiettivo, ancorché dichiarato, piuttosto le interessa compiere un gesto paradossale e simbolico che smentisca qualunque intento censorio e cancelli la motivazione stessa di ogni polemica.
Tutto questo con un tono perfino spavaldo che non fa riferimento alcuno alla richiesta perentoria che le arriva dal testo di Scurati. Deve essere ormai diventato un punto d’onore non pronunciarla quella parola perché dirla significherebbe sia rinnegare un percorso di revisione politica verso una destra conservatrice, sia accettare il punto di vista da cui le viene quella richiesta.
Dire antifascista significa accettare una visione del 25 aprile conflittuale che divide perché ripropone l’antitesi tra gli antifascisti e i fascisti che, sotto mentite spoglie, non avrebbero segnato una discontinuità con il passato, pur essendo al governo della Repubblica. Quando invece per lei in quella festa devono riconoscersi tutti i sostenitori della democrazia e della libertà, compresi anche quelli che rinnegano un intento nostalgico rispetto a un regime consegnato alla storia. Per gli uni, il fascismo è un fantasma latente pronto a materializzarsi, per lei è un capitolo chiuso e la destra persegue un conservatorismo forte di una tradizione e nel quadro della democrazia e della libertà. Due visioni inevitabilmente e profondamente diverse.
La storia, il fascismo e… oggi
Entra in questo dibattito, tra le altre, la riflessione di Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati sulla democrazia afascista.1 Una lettura di quanto sta avvenendo non solo in Italia, anzi in un contesto sostanzialmente globale, e per cui sarebbe in corso una svolta autoritaria che mette al centro la governabilità e l’efficienza del sistema, arretrando la sensibilità per i diritti e per l’equilibrio fra i poteri. È un punto di vista che parte dalla constatazione di un cambiamento che non riguarda soltanto il nostro Paese e sullo sfondo del quale è il caso allora di collocare anche queste due figure, lo Scrittore e la Presidente.
Cerchiamo di toglierle per quanto possibile all’urgenza dell’attualità di vederle in una prospettiva più larga come le figure in cui si condensa un movimento storico. Potremmo anche chiederci dove starebbero Antonio Scurati e Giorgia Meloni se regredissimo al 1924 o al 1944?
Ma potremmo chiedercelo anche per noi che viviamo in questo tempo e che potremmo anche uscirne per un attimo e domandarci quale sarebbe stata la nostra posizione di fronte a quello che accadeva nel tempo in cui il fascismo andò al potere o in quello in cui nell’imbuto di una guerra persa i partigiani combattevano contro ciò che restava del fascismo a Salò.
È una domanda senza risposta ovviamente ma che sul piano soggettivo non può essere del tutto elusa. Anzi, è una provocazione che ognuno, guardandovi senza veli, può rivolgere a se stesso nel segreto della propria coscienza.
Come non può essere del tutto elusa la questione della nascita del fascismo e della sua durata nel nostro paese, perché la storia non è un dato di fatto incontrovertibile, è il campo aperto e in divenire del giudizio che se ne dà, in cui l’obiettività dello storico è inseparabile da metodi di ricerca, punti di vista e appartenenze culturali e politiche.
La storia è fatta della composizione di interessi e di poteri che in determinati contesti possono essere fortemente antagonisti e portare ad assetti autoritari, addirittura totalitari come si verificò in Europa tra gli anni Venti e Trenta, avendo il corrispettivo largo di un consenso che nel caso italiano vide insieme la piccola borghesia e lo strato profondo di una società contadina, la grande proprietà terriera e le famiglie del capitale. Di contro lo strato sostanzialmente esile di una borghesia liberale e intellettuale e l’opposizione politica in cui si rappresentava il proletariato, sia quello industriale che quello contadino.
E il confronto non poté essere contenuto nel fragile alveo di una consorteria politica che si consumò in se stessa incapace di affrontare le contraddizioni, nel chiuso di una classe politica ritualizzata e autoreferenziale e di un’opposizione che prima si autoemarginò e poi non poté altro che soccombere alla violenza di un regime che vinse per la stanchezza inefficiente di un sistema e anche per l’energia di un cambiamento che s’impose certo per la violenza ma anche per il cortocircuito insostenibile di un sistema politico.
Il paradosso è che in quei venti anni non si poteva essere antifascisti e che nel Repubblica che ne è seguita quella parola continua ad essere controversa e conflittuale. E le due situazioni si rimandano l’una all’altra, proprio a partire da quella linea di discrimine che interviene con il 25 aprile.
Come nasce la Repubblica? Certo, dalle ceneri e dalle macerie della guerra di cui il Fascismo fu responsabile senza dimenticare però la Piazza Venezia stracolma e il Duce sul balcone! Retorica certo ci fu anche in quella, immagini funzionali anche a un consenso certamente.
Come restano nella memoria le immagini di Piazzale Loreto e dell’esposizione brutale dei cadaveri di Mussolini e dei suoi ultimi compagni tre giorni dopo il 25 aprile. Una data che anche per questo resta nella memoria storica di chi fu sconfitto nella guerra e che inevitabilmente ne condiziona il giudizio su quella giornata.
In ogni caso, la guerra esattamente come la prima agì da reagente decisivo, se la prima cambiò lo spirito di tanti nel Paese e produsse un’accelerazione, la seconda portò alla fine del Fascismo e alla Repubblica, in un’ambigua unanimità tra forze resistenziali, una parte sensibile alle sirene sovietiche, che fu rotta quando prevalse la ragione politica legata alla divisione in blocchi dell’Europa e di lì alla Guerra Fredda e dunque all’impenetrabile blocco che avrebbe impedito l’accesso nell’area del governo del Partito Comunista.
La Repubblica nasce sostanzialmente con una pacificazione (l’amnistia di Togliatti…) che metabolizza i fascisti nella società e li estromette dall’area del governo. Estromessi dal cosiddetto “arco costituzionale”, è difficile pensare che allora possano dirsi antifascisti e riconoscersi nel 25 aprile.
Ma sono lì, ce lo ricorda il governo Tambroni con gli incidenti drammatici che innesca e anche un collateralismo sullo sfondo oscuro che accompagna gli anni – Sessanta e Settanta – della Guerra Fredda, con estremismi sanguinari da una parte e dall’altra, in nome di una rivoluzione da fare e di uno statu quo da mantenere a qualunque costo, bombe e stragi incluse.
Intanto, insieme al reducismo parte un processo di revisione che per un verso prende via via una distanza dal passato, per l’altro lavora nella prospettiva di una destra conservatrice che non a caso si incontra con il progetto berlusconiano che nel 1994 porta gli eredi riconvertiti nell’area del governo.
E siamo all’attualità, dove il rapporto tra il centro e la destra si è invertito per un concorso di situazioni:
- è scomparso Silvio Berlusconi e con lui la capacità larga e generalista di attrarre consenso a Forza Italia ed equilibrare rispetto a uno schieramento di destra-destra, così come è uscita di scena una figura in condizione di raccogliere un consenso nell’arcipelago riottoso del centro-sinistra;
- si è via via accentuata la capacità di rappresentanza della politica e l’anomalia di governi non usciti dalla fisiologia elettorale;
- si è stabilito un clima emergenziale dalla lunga onda partita con il crack Lehman Brothers con il Covid, il climate change, le guerre di Ucraina e Israele/Hamas.
Questa combinatoria di motivazioni ha ulteriormente alimentato e rafforzato fenomeni di antipolitica, nuove formazioni anti-Palazzo e governi formati più per assemblaggi che per coerenza interna e trasversale alle forze componenti. Ciò spiega anche una crescente e diffusa domanda di leaderismo che da Berlusconi approda a Monti a Renzi a Conte, Draghi e arriva a Giorgia Meloni.
È lei che con le elezioni del 2022 si ritrova a capo del governo, forte di una spinta in cui la domanda di leaderiship si incrocia con la vocazione nazionale e popolare e le oscillazioni deideologizzate di una società frammentata in cui il ceto medio ha perso le certezze di un tempo.
Un paese che si atomizza ed è percorso da disuguaglianze crescenti chiede alla politica rassicurazione e sicurezza. E questo prima ancora forse della garanzia sui diritti inalienabili e sulle libertà indiscutibili sancite dalla Costituzione.
E di passaggio viene da pensare che è l’intensità di questa domanda che può portare una democrazia verso un’evoluzione autoritaria, così come – almeno in parte – l’autoritarismo di Paesi che non hanno conosciuto la democrazia.
Governabilità ed efficienza sono le bussole del governo Meloni, pragmatismo senza la rigidità come il cielo delle stesse fisse delle coordinate ideologiche, e un nemico, un Antagonista su cui scaricare la responsabilità della condizione del Paese, la Sinistra. Gli Italiani al primo posto, la nazione tutta, gli interessi forti e deboli tenuti insieme da uno Stato forte (che tenta la capriola-compromesso con la Lega dell’autonomia differenziata, mentre punta al premierato).
Sull’altro versante, la sinistra è alle prese con il fantasma, la retorica e la tradizione di se stessa, non riesce – è la sua storia – a trovare una sintesi tra riformismo e massimalismo in un contesto frantumato e appartenenze di classe saltate o ridimensionate , rivendica e consuma al tempo stesso una differenza che mentre rischia di tradursi nell’orgoglio di una superiorità morale – e quindi divide e colpevolizza gli avversari – si rivela anche un boomerang quando i magistrati mandano avvisi di garanzia a chi dovrebbe essere pregiudizialmente innocente, con l’effetto perverso di generare la percezione diffusa che “tutti sono uguali”.
Giorgia.0
Potrebbe essere un Giorgia.0, in nuovo Inizio come gli Italiani – almeno quelli che l’hanno mandata al governo – si aspettano, poi però c’è la storia che ritorna e ritorna, volente o nolente, anche per lei, perché Giorgia non è solo Giorgia e, anche se volesse cancellare eredità ingombranti, non può perché stanno lì incise nelle contraddizioni della storia, appunto, che il 25 aprile ha – come diceva Hegel della dialettica dello Spirito – “tolto e conservato”.
Così si spiega il riconoscimento della festa di tutti e la concomitante impossibilità di dire quella parola. Antifascista.
E così anche, sul versante opposto, ecco la rivendicazione di un evento che invece viene identificato con l’antifascismo e che quindi non può essere di tutti perché nasce dalla contrapposizione tra chi combatté nella Resistenza/Liberazione e chi nelle file del Fascismo della Repubblica di Salò.
Per i primi, quando vanno al governo, forti di una maggioranza diventa essenziale bypassare quella contrapposizione e pensarsi in un’attualità che non ha nostalgie e che in ogni caso va a ricontrattare il perimetro della democrazia con le istanze del sovranismo e del populismo.
Per gli altri, quel governo resta inseparabile dal riflesso condizionato di vederlo preso nel rimando con un passato, quel Ventennio in cui si estremizzavano le pulsioni nazionaliste e sovraniste, il leaderismo iper-personalizzato nella figura del Duce, e nel quale la dissidenza era perseguita come le differenze, da quelle sessuali a quelle razziali.
L’oscillazione e la combinatoria del potere
Non si esce da questa trappola reciproca sulla quale forse vale la pena di fare un ragionamento in più, che meriterebbe un approfondimento come tale, ma che anche in questa sede deve trovare spazio perché definisce un contesto sistematico.
E se nella politica – nel senso dei comportamenti e dei valori che hanno a che fare con la polis – ci fosse un’oscillazione di fondo nel modo di intendere l’aristotelico zoòn politikòn e cioè il rapporto con gli altri, quello tra l’individuo e la società, fra la libertà di ciascuno e il rispetto di quella degli altri, e dunque l’uguaglianza nei diritti e nelle condizioni di vita, da proteggere con lo Stato oppure da lasciare alla libera composizione delle forze?
Nulla di nuovo, sono secoli che si dibatte su questo, non a caso con un’oscillazione che va dal Leviatano di Thomas Hobbes che nasce dal bellum omnium contra omnes al contrattualismo liberale di John Locke, il primo che fa coincidere pactum unionis con pactum subiectionis, il secondo che li separa.
Il Novecento ci ha messo di fronte sia al modello del Welfare State, sia a sintesi estreme e totalitarie, con consensi plebiscitari e lager, regimi costruiti sulla negazione e l’eliminazione della differenza e su pulsioni belliche difese con motivazioni di iper-sovranismo.
Insomma, si potrebbe immaginare una diagramma di forze che, secondo la loro intensità, si compongono variamente e generano un arco di combinatorie.
E allora oggi? La democrazia nasce dalla negazione degli estremi… antidemocratici e però nel suo cammino, guardo a quello italiano, ma non solo, si sono palesati due modelli:
- una rincorsa al centro su cui raccogliere le ali degli schieramenti sociali;
- l’evaporazione del centro sostituito da una radicalizzazione a destra e a sinistra.
Questo spostamento si accompagna a un’antropologia composita che si può leggere anche in controluce alla contrapposizione tra fascismo e antifascismo e che forse la precede, nel senso che vi esprime un’alternativa comportamentale tra:
- apertura e chiusura, disponibilità all’altro e presidio di un perimetro;
- ripiegamento nel privato e accoglienza;
- l’altro come perturbante o come possibilità e ricchezza.
Vogliamo aggiungere, per essere nel clima dell’attualità, la contrapposizione tra due campi:
- il primo contrassegnato dal cosiddetto “politicamente corretto”, da una visione aperta e fluida delle relazioni e anche dalla pulsione dell’antipolitica;
- il secondo che mette insieme la liberta individualista, la rivendicazione delle radici e dei territori e una sovrapposizione fra Stato-Popolo-Nazione, dall’altra.
Mentre sul primo versante si posizionano Elly Schlein e Giuseppe Conte, Giorgia.0 si pone a punto di mediazione rispetto al variegato e – va detto – contraddittorio campo di forze che ne riconosce la leadership – centro-destra liberale, destra populista sovranista e nazional-territoriale – su un punto spostato verso destra rispetto al cammino repubblicano del Paese e nella combinatoria di cui abbiamo parlato.
Nelle intestazioni dei ministeri del suo governo compaiono parole che nell’attualità risuonano di echi passati: natalità, sovranità alimentare, merito, famiglia. Possono stare lì per assecondare un codice condiviso, come etichette esibite per marcare una differenza.
Però, le parole dicono anche di un sistema di valori: una cosa è dire “crisi demografica” un’altra “natalità”, e così anche “scuola per tutti “e “merito”, “difesa del prodotto nazionale” o “sovranità alimentare”… Chi parla di “Paese” e chi invece di “Patria”, con il carico evocativo di radici, di bozzolo amato e rassicurante, che porta con sé rispetto al globalismo liquido e all’universalismo.
C’è anche la nostalgia? C’è un modo di pensare nell’attualità che rimanda a un passato che quel modo di pensare ha portato all’estremo del totalitarismo, con forme, riti di partecipazioni, simboli necessariamente da contestualizzare, e che nelle condizioni presenti non può essere ripristinato, non per questo eliminando di per sé quel modo di pensare.
Ecco allora lei stessa Giorgia che, fra le tante che poteva usare, non trova altra metafora per dire della sua determinazione e della tenacia che non molla, che quella dell’elmetto. Metafora ripetuta più volte – “Si mette l’elmetto e si combatte”, “L’elmetto? Ce l’ho, ci dormo anche”… – un riflesso condizionato bellicista e anche avanguardista, ancorché forse con ironia (perché Giorgia, sotto l’elmetto, ce l’ha, come certe ruvidezze da parlata popolare a connotarne l’autenticità di un’immagine e di un modo di porsi).
Ecco l’ossimoro compresente del Presidente del Senato che a non ha remore a ricordare il busto del Duce che tiene a casa, e il rigore non contrattabile dell’ANPI che il 25 aprile lo esalta a patrimonio dei partigiani e della Resistenza.
Ecco il ministro della cultura che parla dei comunisti come parte minoritaria della Resistenza e chi, il giornalista Francesco Borgonovo, sostiene – che
“l’antifascismo in assenza del fascismo è un’ideologia”.
Ecco chi parla, come abbiamo visto, di afascismo e chi, in Fratelli d’Italia, spiega che se fosse stato nel Ventennio sarebbe stato antifascista e chiosa sulla retorica dell’antifascismo di contro ai problemi degli Italiani di oggi…
Osservo, e vado a una sintesi provvisoria e conclusiva, che la storia non si ripete, non si è mai ripetuta, se non altro perché la linea del tempo è molto meno lineare di quello che si pensa ed è irreversibile. E tuttavia e allo stesso tempo, quella combinatoria oscillante con contrapposizioni politico-antropo-psicologiche è sempre in opera con le inevitabili metamorfosi che intervengono nella diacronia e il punto equilibrio che il contesto consente.
Anche quello di un Paese dall’unità “recente”, con diseguaglianze profonde, la politica presa tra clientelismi e corruzione, l’esposizione ai flussi dei migranti, il debito pubblico che non smette di crescere, l’interesse generale che confligge con quello individuale, la crescente astensione dal voto… e, traversale, la penetrazione capillare delle nuove tecnologie della comunicazione che retroagisce sulle contraddizioni accennate.
Così il 25 aprile unisce e divide e il rischio è che la retorica svuoti il passato e diventi una strumentale opportunità per la destra come la sinistra. Mentre ciascuno è condannato a fare il suo gioco. Nell’incompatibilità dei giocatori.
Dunque, l’ultima parola non può essere che dello Scrittore antifascista e della Presidente che non pronuncia quella parola. Con l’avvertenza di leggerla nel contesto di una reciprocità dell’incomunicabilità.
Lo Scrittore
“L’unico modo per fugare il fantasma del fascismo è, diceva un grande filosofo e psicanalista del secolo scorso, attraversarlo. Il che significava secondo me riconoscere di essere stati fascisti in un senso antitetico a quello che sostiene la seconda carica dello Stato, il presidente del Senato: esserlo stato significa non esserlo più, mentre invece la seconda carica dello Stato più volte dice noi siamo gli eredi del fascismo, intendendo che in qualche misura c’è ancora del fascismo in noi.
Io credo che l’Italia non abbia mai fatto questi conti, non abbia mai attraversato il fantasma, non lo abbia mai fugato e che quel fantasma abiti ancora il nostro presente.
Già, qualcuno forse ha voluto presentarmi come l’eroe di qualcosa. Io non sono l’eroe di niente e di nessuno, però quello che mi era parso di vedere cominciando a scrivere più di dieci anni fa una biografia di Mussolini e due anni fa a stabilire questo parallelo tra una deriva fascistoide e non fascista, quello non torna più. Non vi aspettate le camicie nere che vengono a bussare col manganello alla vostra porta, spero che non lo facciano, non alla mia almeno […], ma non ve lo aspettate dal domani, quello che doveva tornare è già tornato, sta già qui e sono tutte quelle caratteristiche, non la violenza squadrista omicida e stragista per le strade, non lo aspettate dal domani la verifica di ciò che è ancora vivo del fascismo con cui noi non abbiamo mai fatto i conti perché non abbiamo mai attraversato e fugato il suo fantasma.
È già qui ieri oggi in tante piccole cose comprese quelle che mi hanno riguardato, e allora il bilancio dello scrittore dell’intellettuale è positivo perché forse non ero completamente fuori strada, il bilancio dell’uomo, del cittadino, dell’italiano è pessimo perché evidentemente non ero fuori strada”.
La Presidente
Nel giorno in cui l’Italia celebra la Liberazione, che con la fine del fascismo pose le basi per il ritorno della democrazia, ribadiamo la nostra avversione a tutti i regimi totalitari e autoritari. Quelli di ieri, che hanno oppresso i popoli in Europa e nel mondo, e quelli di oggi, che siamo determinati a contrastare con impegno e coraggio. Continueremo a lavorare per difendere la democrazia e per un’Italia finalmente capace di unirsi sul valore della libertà. Viva la libertà.
Orvieto, 13 maggio 2024
- Giuseppe Berto, indica un atteggiamento di chi non prende posizione nei confronti del fascismo né in un senso né in un altro, forse perché lo sente lontano nel tempo e nello spazio. Uomini indifferenti ad un fenomeno storico superato e consegnato ai libri e alle speculazioni dei dotti. Scriveva Berto nella sua relazione al Congresso internazionale per la difesa della Cultura, a Torino nel 1973 organizzato dal Centro italiano documentazione azione studi (Cidas),
“Io non sono fascista, ma non sono nemmeno antifascista. Sono venuto qui appunto per difendere il mio diritto di non esser perseguitato come fascista soltanto perché non voglio dichiararmi antifascista.
Dico di non essere né fascista né antifascista. Allora, cosa sono? Da anni ormai io amo definirmi afascista, fascista con un’alfa privativa davanti. Lo faccio non per lo snobismo d’introdurre una parola nuova, ma perché questa parola, afascista, secondo me esprime qualcosa di nuovo, e cioè un’avversione al fascismo così intima e completa da non poter tollerare l’antifascismo, il quale, almeno così come viene praticato dagli intellettuali italiani, è terribilmente vicino al fascismo. Il fascismo, dicono, è autoritarismo violento, coercitivo, retorico, stupido. D’accordo: il fascismo è violento, coercitivo, retorico, stupido. Però, come lo vedo io, l’antifascismo è del pari, se non di più, violento, coercitivo, retorico, stupido”. ↩︎
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