Sul palcoscenico mediatico i giovani non sono rappresentati come portatori di valori, di speranze, di legittima proiezione verso il futuro; né come espressione di rifiuto di una società globale in cui il profitto e gli interessi di pochi sono anteposti alla giustizia sociale, alla salvaguardia dell’ambiente, al rispetto dei diritti universali.
Le loro apparizioni sui media vengono svuotate di contenuto e di significato politico fino a essere rappresentate come elemento di folklore, di déjà vu archiviato nella storia come lo strappo generazionale del 1968 al grido di “Yankee go home” contro la guerra del Vietnam con manifestazioni, assemblee studentesche, fiaccolate, veglie di protesta contro i consolati, roghi di bandiere americane.
Noam Chomsky sulla rivista “New York Rewiew of Books” scriveva allora: “occorre prendere misure illegali per opporsi a un governo indecente”.
Oggi, dopo sessant’anni, i giovani del mondo occidentale si battono per i diritti umani violati dal governo israeliano attraverso la strage di più di 30.000 innocenti palestinesi “imprigionati” nella Striscia di Gaza. Anche in Italia gli studenti, di cui molti minorenni, sfilano in cortei di protesta generalmente con modalità pacifiche per perorare la stessa causa.
Ma i motivi della protesta sono molteplici, da quello iniziato con la svedese Greta Thunberg, che con lo slogam Skolstrejk for Klimatet (sciopero scolastico per il clima) ha acceso l’attenzione a favore dello sviluppo sostenibile e sulle cause del cambiamento climatico; a quello di un collettivo di studenti che di fronte all’intervento della ministra Roccella agli “Stati generali della natività” del 9 maggio ‘24 hanno rivendicato rumorosamente il diritto delle donne all’autodeterminazione della propria maternità.
La protesta si ripete secondo lo stesso copione: il corpo a corpo con poliziotti armati di scudo e manganelli, le tendopoli dentro i recinti delle università, gli imbrattamenti dell’arredo urbano, la contestazione di rappresentanti del governo come nel caso della ministra “per le pari opportunità e la famiglia” Eugenia Maria Roccella, in ambienti ufficiali, sigillati e protetti. In quest’ultimo caso la contestazione si è mossa secondo il presupposto per cui, se i giovani sono sistematicamente inascoltati e viene negata loro la parola, diventa legittimo impedire al potere di sostenere, senza contraddittorio, la propria visione della società.
Le immagini della protesta alimentano i dibattiti televisivi che si dividono in visioni di destra e di sinistra secondo canovacci preconfezionati: “se i cortei di protesta non sono autorizzati, è legittimo l’uso dei manganelli contro i giovani contestatori, anche se a mani nude, perché c’è sempre qualche elemento violento!” A questa tesi si risponde ribadendo l’art. 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione…”
“Si è impedito al ministro di parlare, non attraverso una contestazione, ma attraverso un atto di censura, di coercizione”. “No, La Roccella è stata contestata per le sue opinioni sull’aborto ritenute estreme e associate a una visione fondamentalista cattolica che contrasta con il principio dell’autodeterminazione della donna. La censura si esercita dal potere, la contestazione avviene dal basso”. E ancora: “No, solo un ministro ha in mano gli strumenti della coercizione!”
A questa stucchevole contrapposizione ideologica partecipano giornalisti, politici, politologi, sociologhi… sempre calibrati secondo la regola della par condicio, che si ergono a sostenitori o detrattori dei giovani facendosi interpreti del loro pensiero e delle loro azioni. Ma i protagonisti, oggetto del contendere, sono gli unici a non salire mai sul palcoscenico. L’unica voce costantemente assente e solo raccontata in modo paternalistico è la loro. Va da sé che l’unico modo di farsi sentire e notare è sfilare in massa per le vie e i luoghi “sensibili” delle città; infiltrarsi nei consessi istituzionali e nelle platee mediatiche su cui sono concentrati i riflettori.
Si direbbe che la società ignori le istanze dei giovani, i più legittimati invece a far sentire la loro voce sulle scelte economiche, ambientali, geopolitiche di cui dovranno essere i beneficiari o le vittime nel prossimo futuro. Prima accusati di “fannullonismo”, ora di troppo attivismo, atteggiamenti entrambi “fastidiosi” e “censurabili”, da decenni sono trascurati dai ministri dell’Istruzione, che non mettono in atto nuovi programmi veramente formativi al passo con i tempi, con le istanze del mondo del lavoro e delle tecnologie sempre più avveniristiche. A una parte della popolazione giovanile viene precluso il diritto allo studio.
Di fronte alla prospettiva di non trovare, al termine della loro carriera studentesca, un lavoro degnamente retribuito e la possibilità di costruirsi un futuro attraverso un welfare che li tuteli, l’unica via d’uscita per i nostri cervelli è quella di lasciare l’Italia per emigrare all’estero. Secondo quanto riportato dall’ISTAT, nel periodo compreso tra il 2011 e il 2021 sono stati 377.000 gli Italiani tra i 20 e i 34 anni che sono emigrati verso i principali paesi europei economicamente avanzati. Ma secondo uno studio realizzato dalla “Fondazione nord est” insieme all’associazione “Talented Italians in the UK”, sulla base di dati statistici, i numeri reali di chi espatria è il triplo di quello stimato dall’Istituto Nazionle di Statistica.
La sfiducia dei giovani nei confronti della politica, più attenta a tutelare malfattori, evasori, faccendieri, piuttosto che, in un’ottica di giustizia sociale, promuovere la parte sana e onesta del paese e le nuove generazioni, si sta manifestando nella diserzione dalle urne elettorali. La partecipazione alla vita politica del paese, anche futura, si può recuperare solo riconoscendo ai giovani un ruolo primario e dando loro, senza strumentalizzazioni partitiche e mediatiche, visibilità e voce.
Il rischio di una rappresentazione strumentale del mondo giovanile da parte della politica e dei media mi è apparso improvvisamente evidente, quando, nella puntata di Tagadà del 15 maggio, una studentessa, partecipante a un’assemblea di collettivo, si è negata all’intervista richiesta dell’inviata del programma e al relativo dibattito nello studio televisivo.
Il presidente Mattarella, intervenuto il 16 maggio all’Università La Sapienza di Roma in occasione della “XI edizione della giornata del laureato” e alla premiazione dei Laureati eccellenti, si è subito dichiarato al di fuori di quella che è stata definita dagli universitari la “Torre d’avorio del Rettorato” e, vorremmo aggiungere noi, del chiacchiericcio politico-mediatico. Come in altre occasioni, rispetto ai giovani, il presidente ha centrato l’approccio più pacato, aperto, disponibile. Rispondendo a una lettera degli “universitari pro Gaza” nella quale gli veniva chiesto “da che parte stesse” sulla questione palestinese, Mattarella, in un discorso commosso, perché “non voleva lasciare gli studenti senza una risposta”, ha citato la lettera inviata due giorni prima al presidente della Repubblica di Israele al quale chiedeva l’immediato cessate il fuoco. Ha ricordato inoltre il suo intervento all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite svoltosi il 7 maggio, nel quale ha affermato il ripudio verso “ogni violazione dei diritti umani” e ribadito “la determinazione dell’Italia a collaborare alla costituzione di un mondo più giusto, sicuro e sostenibile in cui ogni popolo e ogni persona possano ottenere pieno riconoscimento dei propri diritti”.
Mattarella ha inoltre sottolineato che “le università sono la sede del libero dibattito, della libertà di critica, talvolta anche del dissenso dal potere; che nel peggiore dei casi desidera che le università del proprio paese siano isolate, senza rapporti e collaborazioni con gli atenei degli altri paesi perché questa condizione consente al peggiore dei poteri di controllare le università, di comprimere la cultura e di impedire la sua spinta di libertà”. Mattarella ha auspicato “un dialogo nel reciproco rispetto, con un’attenzione particolare a tutto ciò che attiene all’effettività del diritto allo studio, senza che alcuno ritenga di poter esigere di imporre valutazioni o decisioni, ma nel rispetto delle altrui opinioni perché in questo rispetto risiede la libertà“.
L’atteggiamento democratico e dialogante del presidente Mattarella non si è rivelato sufficiente a evitare aspre voci di dissenso anche nei suoi confronti, forse perché l’ateneo era blindato dalla polizia in assetto di guerra.
Al termine della “cerimonia” secondo un copione ormai consolidato, gli studenti, al grido di “via via la polizia e vergogna” hanno iniziato a seguire il manipolo di poliziotti nei viali della città universitaria, intonando cori e seguendo di corsa le camionette della celere. All’ingresso di viale Regina Elena i giovani hanno incontrato gli agenti in tenuta antisommossa pronti a respingerli con gli scudi all’interno della città universitaria. Dopo aver protestato contro le forze dell’ordine, gli studenti sono tornati alle loro tende sul “pratone” ed hanno chiuso i cancelli del varco 3 dell’ateneo, per rimarcare simbolicamente la rottura nei confronti della polizia e del potere coercitivo del governo.
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Commenti
Una risposta a “GIOVANI: PROTAGONISTI INASCOLTATI?”
Anche questo numero della rivista è molto interessante,temi centrati e articolati, stimolo alla riflessione e confronto pacato
Grazie
Silvia