Nino Bixio di MarioPacelli
2 giugno 1860: Garibaldi con un decreto promette, in qualità di dittatore per la Sicilia, mentre è ancora in corso l’occupazione dell’isola da parte delle camicie rosse, la divisione a favore dei contadini delle terre un tempo appartenenti al demanio regio e successivamente occupate dai nobili locali. A Brente, un grosso centro agricolo in provincia di Catania, la “Ducea”, una vastissima estensione di territorio, è di proprietà (ed è un particolare importante) di Charlotte Nelson-Bridport, nipote di Horatio Nelson, l’ammiragio inglese che l’aveva avuta in dono dal re di Napoli: comandava la squadra navale inglese che aveva fatto fallire la rivolta napoletana del 1799.
A Bronte una causa per la proprietà della terra “usurpata” era iniziata addirittura nel 1554, ben prima che arrivasse la nobildonna inglese: i contadini attendevano da secoli di poter disporre di quelle terre e l’editto di Garibaldi sembrava dare una solida base alle loro richieste. Tutto però restò come prima: il 2 agosto 1860 scoppiò a Brente una insurrezione contadina con 46 case incendiate e 16 notabili locali uccisi dalla folla.
Il 5 agosto arrivò una compagnia della Guardia nazionale, costituita da Garibaldi con funzioni di ordine pubblico, ma la situazione mutò poco. Il 6 agosto giunse Nino Bixio con due dei suoi battaglioni: gli inglesi, attraverso il loro console, avevano fatto pressioni su Garibaldi affinchè ad una loro cittadina fossero restituiti i suoi beni e, al tempo stesso, la dura realtà della guerra in corso non consentiva alle truppe garibaldine che stavano per sbarcare in Calabria di lasciarsi alle spalle situazioni come quella che si era creata a Brente.
La repressione fu durissima: al termine di un processo sommano un tribunale speciale emise cinque condanne a morte (9 agosto) eseguite il 1O agosto successivo contro coloro che furono ritenuti i capi della rivolta. Nel processo che seguì presso la Corte di Assise di Catania furono comminiate moltissime condanne (tra cui 25 ergastoli) ai partecipanti alla sommossa.
Quanto accaduto a Brente continuò a restare nella memoria di Nino Bixio come una “missione maledetta” (lettera alla moglie) alla quale un uomo della sua natura non avrebbe dovuto partecipare.
Indubbiamente Nino Bixio era tutt’altro che un sanguinario: uomo d’azione, autodidatta, ottimo marinaio, tendenzialmente conservatore in politica e talvolta abile mediatore, prima di prendere parte all’impresa dei “Mille” aveva avuto una vita piuttosto movimentata.
Nato a Genova il 2 ottobre 1821, battezzato col nome di Girolamo, poi abbreviato in Nino, restato presto orfano della madre, a soli 13 anni fu imbarcato come mozzo su una nave mercantile per passare tre anni più tardi nella marina sarda, dove restò fino al 1844, per poi imbarcarsi di nuovo su una nave mercantile. Dopo alcune avventure nel mar di Sumatra, tornò nel 1846 in Europa e si recò a Parigi dove si trovava il fratello Alessandro, che gli fece conoscere coloro che si battevano in Francia contro la monarchia orleanista (Luigi Filippo d’Orleans era divenuto Re con il nome di Luigi Filippo 1°).
Fu l’occasione per entrare in contatto con i mazziniani e conoscere Mazzini. Bixio aderì con entusiasmo al loro progetto politico e, tornato in Italia, si impegnò nella propaganda mazziniana e divenne fraterno amico di Goffredo Mameli. Prese parte come sottotenente alla 1a guerra di indipendenza: dopo la sua fine tornò a Genova dove si impegnò nel Circolo italiano, del quale facevano parte democratici di tutte le tendenze, favorevoli alla ripresa della guerra per una iniziativa del popolo. Nel 1849 è a Roma a combattere per la difesa della repubblica romana. Si allontanò con Mameli per recarsi a Genova, dove pure era scoppiata la rivolta, in tempo per assistere alle ultime trattative di resa degli insorti. Con Mameli tornò allora a Roma, dove combattè il 30 aprile a Villa Corsini contro i francesi.
Il 9 maggio fu a Palestrina contro i borbonici ed il 3 giugno sulle mura di Roma per l’estrema difesa della città Ferito, curato in un ospedale romano, alla metà del novembre successivo lasciò Roma occupata dai francesi. Un anno dopo incontrò nuovamente Mazzini a Londra per poi tornare in Italia dove continuò a diffonderne le idee.
Nel 1853, raccolti i capitali necessari, si fece costruire una nave, la “Goffredo Mameli”, e riprese a navigare ma con scarsa fortuna: nel 1857 la nave venne sequestrata per debiti.
Tornò alla vita politica e con Bertani e Medici abbandonò Mazzini, di cui non condivideva più la pregiudiziale repubblicana, per avvicinarsi a coloro che erano favorevoli alla collaborazione con la monarchia nella prospettiva di una guerra contro l’Austria.
Malgrado la giovane età (aveva solo 36 anni) guardava più avanti dei suoi amici politici più anziani, fino a valutare positivamente il tentativo di Cavour di agganciare alla sua politica la parte più moderata dei rivoluzionari italiani.
Nel 1859 partecipò alla I1a guerra di indipendenza nei Cacciatori delle Alpi con Garibaldi e fu in Toscana nella Lega dell’Italia centrale al comando di una legione di garibaldini. lnsistè l’anno successivo con Garibaldi per una azione in Sicilia, sollecitata dai rivoluzionari siciliani di Rosolino Pilo: riuscì alla fine ad ottenere l’assenso tacito del governo piemontese , l’adesione di Garibaldi ed il denaro necessario per l’impresa. La rivolta di Palermo del 4 aprile fu l’occasione a lungo cercata: il 5 maggio i Mille si imbarcarono a Quarto su due piroscafi, il Piemonte e il Lombardo, per la grande avventura siciliana.
Al comando del Lombardo era Bixio, che diveniva così il “secondo” nell’impresa: presto si parlò di lui e del suo valore in battaglia (famosissima la frase “Bixio, qui si fa l’Italia o si muore” rivoltagli da Garibaldi durante la dura battaglia per la presa del colle di Calatafimi). Quando il 28 luglio passò con Garibaldi lo stretto di Messina per sbarcare in Calabria era divenuto maggiore generale e comandava la 18a divisione garibaldina.
Nella battaglia del Volturno, al comando di 6.000 uomini, conseguì il 1° Ottobre un grosso successo tattico, evitando un aggiramento a tenaglia dei borbonici. Poco tempo dopo si ruppe una gamba: fu curata in un ospedale napoletano e nel dicembre 1860 tornò alla sua Genova con il grado di luogotenente generale.
Fu uno dei pochi provenienti dall’esercito garibaldino che riuscì ad inserirsi nel mondo politico italiano alla vigilia dell’unificazione nazionale: ricevette dal Re la croce di San Maurizio e Lazzaro, collaborò alla organizzazione dei plebisciti che si svolsero nell’Italia centro-meridionale per l’adesione al nuovo regno d’Italia, nelle prime elezioni dopo l’unificazione fu eletto deputato a Genova, sembra con l’appoggio di Cavour, che proseguiva nella strada dell’attrazione a sé dei democratici moderati.
Alla Camera dei deputati Bixio, una volta eletto, andò a sedere nei banchi della Sinistra, ma al tempo stesso si proclamò al di fuori di qualunque schieramento, fautore di “un’Italia al di sopra dei partiti”: a suo avviso il nodo del problema era il completamento, con Roma ed il Veneto, della unificazione nazionale.
Fece opera di mediazione fra Garibaldi e Cavour, quando esplose alla Camera dei deputati (1861) un aspro contrasto fra loro a proposito della sorte degli appartenenti all’ex esercito garibaldino, tra i quali, specie tra gli ufficiali, non pochi erano coloro che provenivano dall’ex esercito borbonico. Il Governo, e con esso l’esercito piemontese e coloro che avevano visto con una certa diffidenza l’ingresso nel Regno d’Italia dell’ex Regno delle due Sicilie, ritenevano che non fosse possibile accogliere nell’esercito della nuova Italia gli ex appartenenti all’esercito meridionale, sia per la scarsa considerazione dell’ex esercito borbonico, sia per una diffidenza pregiudiziale nei riguardi dei garibaldini, ritenuti “rivoluzionari” difficilmente inquadrabili in un esercito regolare nel quale una notevole percentuale degli ufficiali (ed in specie di quelli di grado elevato) aveva un titolo nobiliare.
Di tutt’altro parere era la Sinistra, convinta che solo un esercito di popolo avrebbe potuto vincere una nuova guerra per l’unità nazionale.
Bixio si schierò tra i sostenitori della integrazione, disponibile però a quei compromessi che si fossero dimostrati necessari per giungere ad una soluzione. Alla fine fu lasciato ai soldati scegliere fra il congedo con sei mesi di paga o l’arruolamento per due anni nella Guardia Nazionale, con funzioni di ordine pubblico: trentamila su cinquantamila scelsero il congedo.
Per gli ufficiali fu stabilito un esame per il riconoscimento del grado avuto nell’esercito garibaldino, con la possibilità di far valere eventualmente quello precedentemente ricoperto in quello borbonico: di 7.300 ufficiali che ne fecero domanda solo 2.000 furono ammessi a far parte dell’esercito italiano, in genere con gradi inferiori a quello già ricoperto. Bixio fu uno dei pochissimi ai quali fu riconosciuto il grado già avuto di generale.
Oltre che a proposito dell’esercito meridionale, Bixio intervenne spesso nei dibattiti che si svolgevano alla Camera dei deputati, visto con sospetto sia dalla Sinistra che aveva abbandonato, sia dalla Destra, che lo considerava per il suo passato politico un estraneo, mentre il Governo non gli lesinava segni di apprezzamento (nel 1862 fu inviato come commissario all’esposizione universale di Londra, l’anno successivo entrò a far parte della Commissione parlamentare d’inchiesta sul brigantaggio meridionale di cui però non condivise totalmente le conclusioni).
I suoi rapporti con Garibaldi e con il Partito d’azione, che continuava ad essere una forza di tendenza rivoluzionaria, si incrinarono: divenuto uomo d’ordine e, al tempo stesso, legato al suo passato rivoluzionario, Bixio continuò, anche attraverso il giornale, fondato a Genova nel 1848 (Il “San Giorgio”, poi “La nazione”) a tentare una opera di mediazione fra i due fronti che all’atto pratico aveva scarso successo per difficoltà obiettive legate alla netta contrapposizione tra Governo ed opposizione.
“L’Italia è fatta e la rivoluzione è finita” affermò alla Camera dei deputati rivendicando la funzione del Parlamento come unico rappresentante della volontà popolare ma al tempo stesso non cessò mai di esaltare l’idea della “nazione armata”. Quando però Garibaldi lo designò come suo rappresentante alla Presidenza dei Comitati di coordinamento che collegavano tutte le società democratiche che avevano come obiettivo una soluzione radicale (se necessario rivoluzionaria) del problema del Veneto e di Roma, Bixio rifiutò l’incarico, così come non rispose all’appello di Garibaldi dalla Sicilia per la liberazione di Roma, un’impresa che ebbe fine con la battaglia di Aspromonte (1862) tra garibaldini ed esercito italiano ed il ferimento dello stesso Garibaldi.
Nel 1866 quando Garibaldi organizzò nuovamente i suoi volontari per la guerra contro l’Austria Bixio non fu tra loro: partecipò infatti alla guerra al comando di una divisione dell’esercito piemontese che, dopo aver respinto il nemico dinanzi alla fortezza di Villafranca, restò fermo per rispettare gli ordini ricevuti da La Marmora, malgrado le insistenze del re Vittorio Emanuele 11° per un contrattacco.
Finita la guerra fu di nuovo con Garibaldi nel tentativo (1867) di occupare Roma: era a Mentana quando i garibaldini furono sconfitti dagli zuavi con l’aiuto determinante dei francesi. Ferito, fu fatto prigioniero ma riuscì a fuggire.
Fu a quel momento che Bixio si rese probabilmente conto che la sua esperienza politica era terminata, anche se fu rieletto alla Camera dei deputati nel 1867 con il sostegno di Depretis.
Scelse di ritornare a navigare: pur tra mille difficoltà finanziarie, iniziò la costruzione a Newcastle di una grande nave a vela e a vapore di 3.000 tonnellate, il “Maddaloni”. Nel 1870 l’esercito lo mise in disponibilità (l’anticamera del congedo). Il 6 febbraio 1870 il re lo nominò senatore, ma di fatto Bixio era sempre più lontano dalla vita politica. Nell’agosto dello stesso anno fu richiamato in servizio e destinato al comando di Bologna, nella prospettiva di un attacco militare allo stato pontificio, ciò che fu motivo per Bixio di grande soddisfazione.
Nel settembre 1870 fu a Roma con le truppe italiane che misero fine allo Stato pontificio. L’anno successivo l’esercito lo pose nuovamente in disponibilità e ad aprile fu collocato a riposo: aveva solo cinquanta anni.
Tornò alla sua nave: il 6 luglio 1873 partì da Messina per Batavia e Singapore. Nel mare di Sumatra fu colpito da febbre gialla.
Morì il 16 dicembre 1873: la sua tomba provvisoria fu collocata in un isolotto e solo alcuni anni più tardi i suoi resti furono trasportati e sepolti a Genova nel cimitero di Stagliene.
Bibliografia
Enciclopedia italiana, alla voce.
Dizionario biografico degli italiani, alla voce. Marcello Stagliene, Nino Bizio, Milano, 1973.
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