Quanti hanno cercato di comprendere, storicizzandola, la «grande trasformazione» che ha cambiato il volto all’Italia nell’arco di tempo compreso tra i primi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta del secolo passato, alla fine, dopo accurate analisi economiche, sociologiche, antropologiche e ideologiche, hanno riassunto il tutto in una definizione: «miracolo». Lavoro, fatica, coraggio, spirito d’impresa, passione, razionalità, strategia politica nazionale e internazionale. Tutto spiegabile. Ma il «miracolo» del «decennio doro» rimanda a qualcosa di inspiegabile, sovrumano, appunto miracoloso. Nel 1945 la guerra finisce.
Parte la «ricostruzione». L’Italia si trova in una condizione davvero singolare, essendo uscita da una guerra drammatica. Le distruzioni materiali sono state significative, pur se non devastanti. Ad andare in frantumi è stata soprattutto l’identità nazionale. L’Italia fascista aveva perso la guerra. L’Italia antifascista l’aveva vinta. In realtà la futura «sovranità nazionale» era stata regolata al tavolino di Jalta nel febbraio 1945. I vincitori, tracciando le linee della spartizione, avevano collocato la penisola sotto il diretto controllo americano. L’Italia sarebbe diventata un paese a «sovranità limitata».
La Monarchia, attraverso un referendum, venne spodestata ed esiliata. Le subentrò la Repubblica. Il Nord votò a maggioranza repubblicana; il Sud a maggioranza monarchica. Ancora una volta le «due Italie» si contrapponevano. Storia vecchia, risalente sino a tempi dell’unificazione nazionale.
Gli strascichi della «guerra civile», archiviata anche per via giudiziaria con l’amnistia di Palmiro Togliatti nel 1946, continuavano a farsi sentire. Un futuro, dunque, gravido di incognite. La strada poteva condurre verso una democrazia zoppa, autoritaria, dominata da forze retrograde. Insomma, la «nuova Italia» muoveva i primi passi profondamente divisa. Frammentata. Amalgama di pezzi difficili, talvolta impossibili da riconciliare. Vivere nell’immediato dopoguerra non era certo semplice. Poi, gradualmente, gli italiani iniziarono a liberarsi delle ingombranti «paure», affidandosi con slancio e fiducia alla concreta possibilità, a portata di mano, delle «speranze».
Il «corpo» degli italiani nei primi anni del dopoguerra è dimesso. La «paura», l’incertezza e gli stenti si leggono nei loro occhi, nei modesti panni indossati, nella magrezza, nel cibo scarso quotidiano. Ma la povertà non è vergogna. Può anche diventare arte. Lo dimostra la cinematografia. Il neorealismo diffonde a livello planetario l’immagine della sofferenza. Vittorio De Sica nel 1948 realizza un capolavoro: Ladri di biciclette. Un disgraziato finalmente trova un lavoro. Modesta occupazione: attacchino. Per lavorare ha bisogno della bicicletta. Ma gliela rubano. Resterà, privato del modesto mezzo di locomozione, un disoccupato. Spende ore angosciate nella speranza di ritrovarla. Nella peregrinazione romana – moderna via crucis – ogni stazione è una caduta. Alla fine, persa ogni fiducia, il pover’uomo decide di rubarne una. Ma viene fermato.
Il tutto accade sotto gli occhi atterriti del figlio piccolo, che lo ha accompagnato nel viaggio della speranza. Il vestito del padre è liso, sgualcito, sporco. Le scarpe impolverate e sfibrate. Il cappello floscio. La magrezza quasi spettrale. Le unghie sporche. La barba di qualche giorno aggiunge dolore a dolore. Questo è il «corpo» angosciato dell’Italia del dopoguerra. Gli italiani non vogliono vederlo. Ombre funeste del passato allungate sul presente. All’estero invece i «corpi» e le immagini neorealiste sono amate. Il 7 maggio 1948 il padre del neorealismo, Roberto Rossellini, apre una lettera inviatagli dall’America. A scrivergli è Ingrid Bergman, all’apice della carriera, la stella più lucente del firmamento hollywoodiano. «Caro Signor Rossellini, ho visto i suoi film Roma città aperta e Paisà e li ho apprezzati moltissimo. Se ha bisogno di un’attrice svedese che parla inglese molto bene, che non ha dimenticato il suo tedesco, non si fa quasi capire in francese, e in italiano sa dire solo “ti amo”, sono pronta a venire in Italia per lavorare con lei». Lavoreranno insieme. Il regista dirigerà l’attrice in film belli, incompresi, sfortunati. Si ameranno. Avranno figli (tre, di cui due gemelle, Isotta e Isabella). La loro unione susciterà clamore mediatico. Il «ratto» della «svedese americanizzata» da parte di un regista italiano, non verrà digerito oltremare. La «purezza» di Giovanna d’Arco (la Bergman aveva interpretato la Pulzella in un filmone americano diretto da Victor Fleming nel 1948) «corrotta» da un geniale avventuriero affabulatore!
La produzione cinematografica è, in fin dei conti, l’«autobiografia della nazione». Nello specchio di celluloide della finzione troviamo riflesse, nell’estetica neorealista, le paure degli italiani. Poi, il quadro di fondo cambia. A dominare ora sono le speranze, la corsa a perdifiato di un paese impegnato nel tentativo di costruire un’antropologia non più legata alle ristrettezze materiali. Lo dimostra il «corpo» degli italiani, in totale mutazione. Lo scheletro del paese si andava progressivamente rimpolpando. Ed ecco arrivare sullo schermo un «corpo» nuovo, extra large: le «maggiorate». È questo il «corpo» messo in mostra del «miracolo economico», che rimpiazza il «corpo» ossuto e mal abbigliato dell’Italia neorealista.
Alla scuderia di attrici – la prima fila spetta di diritto a Gina Lollobrigida, Sophia Loren, Silvana Pampanini, Marisa Allasio, Silvana Mangano – ha dedicato una ricerca davvero eccellente Federico Vitella: Maggiorate. Divismo e celebrità nella nuova Italia (Marsilio, pagine 336, euro 32). L’autore è un universitario fortunatamente non contaminato dal morbo della scrittura specialistica. Detto in altre parole: il libro scorre veloce. La storia delle «maggiorate» è sin troppo ben ricostruita negli aspetti produttivi e nei rapporti con il pubblico. Il cinema delle «maggiorate» è un cuscinetto tra il neorealismo dell’immediato dopoguerra dominato dalle paure; e la commedia all’italiana, specchio delle speranze per una via italiana al benessere, materializzatasi nel «miracolo economico». Vitella aggiunge alcune osservazioni interessatissime. Il governo a guida democristiana, per volontà di Giulio Andreotti, al quale era demandata la responsabilità di occuparsi della cinematografia, si servì del «corpo» delle «maggiorate» come «corpo diplomatico». Nel senso che le «maggiorate» vennero utilizzate per propagandare all’estero – grazie alla loro prorompente e attrattiva esuberanza fisica – l’immagine di un’Italia nuova, lontana dal passato della virilità fascista e dal presente dei vestiti rivoltati e rattoppati neorealisti. Un’Italia giovane, dinamica, desiderosa di crescere ed emanciparsi, diventando finalmente moderna. L’Italia, appunto, del «miracolo economico».
Le «maggiorate» operano a vasto raggio. Incontrano la regina d’Inghilterra Elisabetta II e Juan Domingo Perón in Argentina. Naturalmente approdano anche nel tempio della celluloide, ad Hollywood. Talvolta le ragazze si dimostrarono indisciplinate. Sophia Loren, con regale indifferenza, disertò un evento a Oslo, scatenando il risentimento norvegese. Piccoli inciampi. Trascurabili. Il paese correva. Correva. Correva. Quello che sarebbe diventato il «divo Giulio» odorava certo di sacrestia. Ma se c’era da chiudere un occhio sulle gonnelle corte della Lollo Bersagliera, o sulle scollature mozzafiato della Loren, lo chiudeva. Anzi, li chiudeva entrambi. Subito dopo pronto a profumarsi d’incenso. Sull’altare del bene della cinematografia in particolare, e del paese in generale, si poteva pur tollerare un po’ di nudità! E se Oscar Luigi Scalfaro dava in escandescenza, in nome della moralità ferita, un’alzata di spalle regolava tutto.
La fortuna internazionale della cinematografia italiana è una delle tante sfaccettature che aiutano a comprendere il «miracolo economico». I fattori sono molteplici. L’aiuto americano attraverso il piano Marshall. La vittoria alle elezioni del 18 aprile del 1948 della Democrazia cristiana. Il prestigio e le capacità operative di Alcide De Gasperi. Gli italiani pronti a rimboccarsi le maniche. La spiegazione dei processi storici, come è noto, non è mai riconducibile ad una sola causa. I fattori che concorrono a cambiare gli eventi sono sempre molteplici. Fra essi, troppo spesso, viene sottovalutato il ruolo determinante degli uomini d’ingegno. Tornando al tema del «miracolo economico», salta agli occhi un elemento: il ruolo ricoperto dagli uomini di ingegno quali Amintore Fanfani, Felice Ippolito, Enrico Mattei, Donato Menichella, Adriano Olivetti. Imprenditori geniali quanto visionari. Studiosi ferrati quanto preveggenti. Tecnici e politici di altissima levatura.
Riuscirono a dosare, ciascuno ricorrendo al proprio spirito e impegno, una miscela straordinaria che, una volta versata nel motore pulsante dell’industria, consentì all’economia italiana di decollare e porre su solide basi, peraltro durature, il progresso e il benessere diffuso. Fanfani, geniale studioso delle dottrine economiche, mostrò come la politica poteva orientare, nel miglior modo possibile, il proprio ruolo determinante, garantendo un equilibrio tra forze del lavoro e della produzione. Ippolito seppe leggere il futuro. Purtroppo, con largo anticipo. Il futuro ai suoi occhi preveggenti era la scelta del nucleare. Ma non riuscì a portare a termine l’impresa, come avrebbe voluto e meritato. Mattei operò, attraverso l’AGIP prima (dove era stato chiamato per liquidarla), e successivamente l’ENI (società pubblica che i potentati privati volevano sterilizzare), per dotare l’Italia della preziosa materia prima, il petrolio.
Previde il superamento del colonialismo in Africa e in Medio Oriente. All’Italia si sarebbero spalancate le porte della «via al petrolio». Menichella orientò l’IRI e la Banca d’Italia a sostegno dello sviluppo. Olivetti, l’imprenditore più visionario dell’Italia contemporanea, un umanista antesignano del computer, volle saldare la cultura al territorio e alla innovazione.
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