CONTRO IL CRIMINE …

LA PENA NON È TUTTO 

Mi preoccupa molto l’idea secondo la quale, attraverso la pena, intendo dire attraverso la sua graduazione ed il suo inasprimento, si possano combattere i fenomeni criminali. 

Gli assertori di una simile teoria mi fanno tenerezza, ma mi fanno paura, perché sono palesemente delle “pericolose anime semplici”, secondo le quali la vita sarebbe fatta soltanto da posizioni nette: il bianco ed il nero, il buono ed il cattivo, il delinquete e la persona perbene, i colpevolisti e gli innocentisti, ecc. 

In realtà la situazione è molto più complessa e per dimostrare che non è affatto vero che per ridurre la criminalità sia sufficiente “inasprire le pene”, ovvero, come amano dire alcuni, “sbatterli dentro e gettare la chiave”, basta ricordare che, purtroppo, nel mondo, sono diversi i Paesi nei quali si pratica la pena capitale. 

Tra questi ne cito solo due: i “civilissimi” Stati Uniti, e “l’autoritaria ed antidemocratica” Cina, due nazioni molto diverse tra loro, nelle quali si pratica la pena di morte, ma nelle quali i delitti continuano ad essere parecchi. 

Insomma, non è la pena che demotiva l’autore dello delitto, se non altro che per un motivo: egli, nel momento in cui lo compie, è convinto di farla franca e dal momento in cui lo compie, salvo che non venga assalito da una rara crisi di coscienza, dedica tutto il suo tempo a trovare le prove per dimostrare la sua falsa innocenza. 

E poi c’è il tema della recidiva. Se bastasse inasprire le pene, com’è accaduto e come accade in Italia sempre più spesso, non dovrebbero presentarsi fenomeni di recidiva, che invece si presentano molto frequentemente.  

A conferma della inefficacia del semplice inasprimento della pena, cito un dato ufficiale, rinvenibile negli atti del Ministero della Giustizia e dell’Amministrazione Penitenziaria. 

Ebbene, l’85% dei casi di recidiva si verificano da parte di quei reclusi che non sono stati sottoposti ad una adeguata e corretta pena rieducativa, a prescindere dalla durata o dalla durezza della piena stessa. 

Esattamente il contrario accade ai reclusi che sono sottoposti ad un regolare trattamento rieducativo, prevalentemente fondato sullo studio, sul lavoro e sulle relazioni sociali.

Per questi ultimi, infatti, il fenomeno della recidiva si riduce al 15%, ed anche in questo caso, a prescindere dalla durata e dalla durezza della pena prevista. 

Insomma, il semplice inasprimento delle pene non costituisce affatto una deterrente, nonostante le recenti politiche di settore sembrino testardamente sostenere il contrario. 

Allora come e cosa bisogna fare per ridurre la pressione criminale, posto che, fortunatamente, ormai è acclarato che criminali non si nasce, come sosteneva Cesare Lombroso, ma si diventa, come sostenevano, tra gli altri, Napoleone Colajanni e Filippo Turati?

La risposta è ovvia ed è anche nota alle autorità preposte: i fenomeni criminali si riducono costruendo una società giusta, che dispone di una scuola giusta, di famiglie presenti nell’educazione dei figli, ma anche di un’economia che offre alternative lavorative rispetto ai guadagni facili promessi dal crimine. 

Ma se la soluzione è nota, se è citata in tutti gli atti ufficiali più importanti, perché non viene praticata? Insomma, perché, se è noto il fatto che i fenomeni criminali hanno a che fare, anche se non solo, con la cultura, con l’istruzione, con l’educazione, con il lavoro, non si fa in modo di organizzare sia la libertà, sia la reclusione, in maniera tale da incrementare questi elementi?

Nelle carceri sono pochi i reclusi che studiano, sono pochi i detenuti che lavorano e sono pochi coloro i quali vengono sostenuti da misure di natura psicologica.

Azzardo alcune ipotesi per comprendere il perché di una tale situazione. Forse perché la giustizia, la sicurezza e la pena, com’è palesemente dimostrato da quello che accade ogni volta che se ne propone una riforma, presentano elementi di radicata autoreferenzialità? 

O forse accade perché minacciare l’aumento o la maggiore durezza della pena è la cosa più facile da dare in pasto all’opinione pubblica, soprattutto se l’opinione pubblica vive una condizione di reale paura e non conosce i fatti?

Ai convinti assertori della pena intesa come panacea contro il crimine propongo un gioco di ruolo: immaginate di essere amico o familiare di un criminale, immaginate di evitare di guardare il carcere dal buco della serratura e soprattutto rispondete ad alcune semplici domande che potrebbero riguardare chiunque. 

Oggi che presumibilmente siete adulti, ritenete di essere uguali a come eravate quando attraversavate il periodo dell’adolescenza? Se la risposta è sì avete bisogno di un bravo psicanalista che vi aiuti a recuperare il tempo perduto. 

Se la risposta è no, chiedetevi pure quale sia stata l’incidenza della cultura, dell’educazione, dell’istruzione e del lavoro nel vostro cambiamento e nella vostra maturazione civile. Certo ho molto semplificato, ma questa è la strada.


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