Roma, 24 giugno 1935: al Teatro Capranica si svolge un concorso di canzoni in dialetto romanesco in occasione della festa di San Giovanni. Ottiene grande successo una canzone, “Faccetta nera”, inizialmente in dialetto, autore del testo Giuseppe Micheli.
La musica è del maestro Mario Ruccione ma la paternità è presto rivendicata da un comico, Gustavo Cacini, che ha portato sulla scena del varietà un personaggio smarg_iasso e fanfarone. La sigla musicale che accompagna la sua entrata in scena sarebbe identica al motivetto della canzone di Ruccione, che l’avrebbe copiato di sana pianta.
I giudici diedero torto a Cacini: sarebbe stato d’altra parte assurdo per quei tempi ed in quel clima politico affermare che una canzone che intendeva, sia pure a suo modo, celebrare la conquista italiana dell’Abissinia avesse radici in un mondo ritenuto moralmente equivoco come quello dell’avanspettacolo, certamente non da citare ad esempio di un impegno politico fascista.
La gioia di Micheli e Ruccione per la vittoria ottenuta e per il successo della canzone fu offuscata dall’obbligo imposto dalla censura fascista di eliminare dal testo le espressioni dialettali e di attenuare la simpatia per la “bella abissina”. Non bastò: non potendo vietare la canzone anche per il vasto successo che aveva
trovato tra gli italiani, che non avevano quei sentimenti razzisti che il regime avrebbe desiderato, si cercò di contrapporle “Faccetta bianca”, di Eugenio Grio e Nicola Macedonio, che non ebbe però successo e fu presto dimenticata.
* Quando possibile sono indicati i film interpretati in modo da facilitare la ricerca delle immagini.
Cacini tentò la rivincita: scrisse un copione teatrale che era la storia del plagio lamentato, ma non ebbe il visto della censura necessario per rappresentarlo. Continuò a recitare i suoi vecchi copioni nei cinema – teatri di second’ordine: unica sua traccia, oltre che nell’archivio di Stato, dove sono conservati i copioni da lui presentati per il visto di censura, è un modo di dire restato nel linguaggio dei vecchi romani (Ma chi sei? Cacini?) a ricordo del personaggio spaccone da lui interpretato.
Cacini non riuscì, come altri suoi compagni d’arte, ad oltrepassare i ristretti confini del mondo dell’avanspettacolo, erede insieme alla rivista di quel teatro di varietà che Filippo Tommaso Marinetti, il padre del futurismo italiano, aveva teorizzato nel Manifesto del Teatro di varietà, pubblicato sulla rivista “Lacerba” del 1° febbraio 1913, definendolo come “il teatro dello stupore, del record, della fisicofollia” … “crogiolo in cui ribollono gli elementi di una sensibilità nuova” “elaborazione astratta dei nuovi prototipi teatrali”.
Al di là delle molte parole usate, la definizione del nuovo genere teatrale restava molto vaga: l’unica certezza era che si trattava di un genere nuovo, che nulla avrebbe dovuto avere in comune né con il teatro della tradizione, quello della commedia e della tragedia classica, né con il cafè chantant, fatto di imitazioni, macchiette, cantanti che si esibivano in locali che nella scenografia imitavano quelli francesi della fine del ‘700 con alcune file di tavolini ed un piccolo palcoscenico in fondo alla sala. In Francia era stato un luogo di spettacoli intelligenti, frequentati da un pubblico colto ed elegante: in Italia il café chantant fu presto dominato da figure femminili talora “chiacchierate” che acquistarono grande popolarità come Cleo De Merode, Lina Cavalieri, Anna Fougez e Maria Campi, colei che perfezionò la celebre “mossa”, inventata da un’altra interprete ormai completamente dimenticata, Maria Borsa, che si esibiva in teatrini di infimo ordine frequentati da un pubblico con gusti molto semplici.
Il varietà era – o pretendeva di essere – diverso, un teatro vero, con precisi contenuti, per un pubblico più raffinato, stanco degli stereotipi del teatro borghese ereditato dal secolo precedente.
Non si trattava di una novità di poco conto e non tutto il pubblico del café chantant era disposto ad accettarla. Quando nel 1921, al teatro Mercadante di Napoli, Rodolfo De Angelis mise in scena con il “Teatro delle sorprese” una rappresentazione aderente in pieno ai principi enunciati da Marinetti, scoppiarono incidenti nella sala e la rappresentazione dovette essere sospesa per essere ripresa con alcune modifiche l’anno successivo, ma sempre con scarso successo. Tuttavia il Paese andava rapidamente mutando, la vita nelle città assumeva maggiore dinamismo, l’Italia si andava trasformando anche nei gusti e nei costumi.
Il cafe chantant, con i numeri un po’ ingenui dell’uomo donna, dell’incantatore di serpenti, delle belve ammaestrate e della lotta greco romana con un vincitore fisso era diventata una forma di spettacolo decisamente superata per una domanda di spettacolo sempre più diffusa in una società smaliziata in cui era cresciuta la ricchezza, che voleva dimenticare gli orrori di una guerra vissuta in casa e che chiedeva nuove forme di intrattenimento che segnassero anch’esse il distacco dal passato.
Il cinema andava diffondendosi rapidamente e attraeva un numero crescente di spettatori I proprietari di locali pubblici potevano trasformarli rapidamente in cinematografi, con la sicurezza di maggiori guadagni. La concorrenza del cinema fece sì che la vita del varietà come nuova forma teatrale fosse piuttosto breve. Ci furono artisti che si adeguarono alla nuova situazione accontentandosi di riempire gli spazi tra uno spettacolo cinematografico e l’altro nei cinema che disponevano di uno spazio da utilizzare come palcoscenico: fu l’avanspettacolo, cioè lo spettacolo avanti, che precedeva quello cinematografico, con il comico, la cantante, il fantasista, il balletto e una piccola, talvolta piccolissima, orchestra. Altri, più fortunati e con maggiori ambizioni, scelsero la strada dello spettacolo più ricco, con sontuosi costumi ed altrettanto sontuose scenografie, in locali sfarzosi o in antichi teatri abbandonati dal pubblico tradizionale: nacque la rivista, un genere destinato a grande fortuna, che nel corso degli anni riuscì a prevalere su un genere teatrale affine, l’operetta, che, a differenza della rivista, aveva un solido impianto narrativo.
Tra varietà, rivista e operetta vi fu tuttavia sempre continuità, sia a proposito degli artisti in scena sia per quanto riguarda gli autori dei testi, che erano spesso gli stessi che poi li interpretavano in palcoscenico. Il più famoso tra loro fu senza dubbio Ettore Petrolini, l’unico a raggiungere una fama internazionale.
Petrolini, dopo un’infanzia piuttosto burrascosa, iniziò a lavorare, come lasciò scritto nei suoi due libri di memorie, nei baracconi dei divertimenti che esistevano allora in Piazza Guglielmo Pepe, a Roma, travestito da sirena. Passò poi alla recitazione negli spettacoli – in genere duetti – nei caffè concerto dei piccoli paesi di provincia, faticando non poco per soprawivere. Ebbe l’intelligenza di capire subito le enormi possibilità che offriva il teatro di varietà proposto da Marinetti e prese a recitare monologhi che scriveva lui stesso, talvolta con la collaborazione di autori futuristi come Luciano Folgore. I testi erano sempre in netta contrapposizione con quelli del teatro tradizionale, che talvolta, come per
“Amleto”, erano l’occasione per una parodia che ne costituiva la voluta dissacrazione. Celebre fra tutti è il monologo “Gastone”, del 1924, che nel 1932 divenne una rappresentazione in due atti. Grande successo ottenne anche un altro monologo, “Nerone”, rappresentato per la prima volta nel 1917, da cui nel 1930 venne tratto un film diretto da Alessandro Blasetti ed interpretato tra gli altri dallo stesso Petrolini. Il rapporto tra il regime fascista e l’artista fu almeno apparentemente ottimo e Petrolini non lesinò nei suoi libri le lodi al regime ed ai suoi esponenti, specie a Galeazzo Ciano, sottosegretario per la stampa e la propaganda con competenza anche nel settore dello spettacolo, e a Dino Alfieri, Presidente della Società italiana Autori ed Editori. Si trattò solo di un ossequio formale o anche di una effettiva adesione al regime? E’ una domanda destinata a restare senza una risposta definitiva. Certo è che fino all’ultima apparizione sulla scena, nel 1935, al Teatro Quirino a Roma, Petrolini non esitò ad ironizzare sullo stesso Mussolini, forse irritato per non aver ricevuto una onorificenza in cui sperava (indicando una piccola spilla sul bavero della giacca, confidava al pubblico “Il duce me la data e io me ne fregio”, parodiando a suo modo il “me ne frego” motto del regime). Anche Marinetti, che in qualche modo era il suo padre spirituale, non si salvava dalla sua ironia, anche se bonaria e tutto sommato innocua (Marinetti è quella cosa – che facendo il futurista – ogni sera fa provvista – di carciofi e di patate).
Tuttavia, più che l’adesione, formale o meno che sia stata, al fascismo, di Petrolini, è da sottolineare che il suo “teatro nuovo” era sulla stessa linea del rinnovamento del teatro, così come di ogni altra espressione culturale, alla quale tendeva il regime. I testi di Petrolini, caso unico nella storia del cosiddetto “teatro leggero” di quegli anni, non ebbero infatti mai problemi con la censura, a differenza di quelli dei comici suoi colleghi. A testimoniare l’attenzione della censura fascista nei loro riguardi stanno i copioni dell’avanspettacolo e della rivista mutilati più o meno ampiamente dalla censura stessa o addirittura vietati in quanto in contrasto con le direttive del regime o perché ritenuti almeno potenzialmente denigratori di esso o del suo capo.
L’ufficio per la censura teatrale preventiva era stato istituito per dare applicazione alla legge 6 gennaio 1931, n. 599. Funzionava presso il Ministero degli interni (Mussolini in quegli anni era titolare del Ministero) ed il suo capo era il prefetto Leopoldo Zurzolo, entrato nell’amministrazione degli interni ai tempi di Giolitti e che non aveva grandi entusiasmi per il fascismo, almeno secondo le sue memorie (pubblicate peraltro nel 1952).
Il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1926 fu ritenuto chiaramente insufficente per reprimere manifestazioni di dissenso rispetto al fascismo: nel 1922 era andata in scena al teatro Fossati di Milano una rivista, “Manicomio”, in cui lino Medini, perfetto sosia di Mussolini, interpretava una singolare figura di pazzo, fuggito da un letto di ospedale dove era ricoverato tra un folle liberale, uno popolare, uno socialista e uno repubblicano. Quando nel mese di dicembre la rivista fu rappresentata al Teatro Costanzi di Roma, Mussolini, che due mesi prima era divenuto Presidente del Consiglio, salì in palcoscenico per congratularsi con il suo sosia, ma forse proprio in quel momento pensò ad una censura che guardasse non solo alla moralità dei testi destinati alla pubblica rappresentazione, ma anche alla linea politica espressa, anche se implicitamente, pur non dimenticando l’esigenza di salvaguardare la morale, specie dopo il Concordato del 1929, come accadde nel 1930 per Erminio Macario, richiamato all’ordine per il “carattere di oscena lubricità nelle parole e negli atti” del suo spettacolo “Fiammiferi di lusso”.
La emanazione delle nuove norme, per un errore di prospettiva, fu visto con favore dagli autori teatrali, costretti fino a quel momento a richiedere il visto per la rappresentazione del testo alle singole prefetture della provincia in cui essa doveva awenire. A quell’epoca non esisteva la possibilità di fotocopiare le pagine del testo: occorreva quindi riprodurlo nelle molte copie necessarie fin dove era possibile con la carta carbone e, quando la pagina diventava illeggibile, scrivendolo nuovamente a macchina con notevoli costi.
Meglio dunque un ufficio unico, le cui decisioni valevano in tutto il territorio del regno. Zurlo leggeva il copione, lo annotava e, sentita (in realtà solo formalmente) una apposita commissione per un parere, prendeva la sua decisione, talora sottoponendola preventivamente a Mussolini, che però, a quanto risulta dai documenti esistenti presso l’Archivio di Stato, si limitava a ratificare quanto proposto da Zurlo.
Di solito i copioni presentati dagli autori di varietà, si trattasse di avanspettacolo o di rivista, non davano luogo a particolari problemi: chi scriveva i testi si preoccupava di soddisfare le aspettative di un pubblico alla ricerca di evasione e di divertimento piuttosto che di fornire occasioni di impegno politico.
Fu la linea seguita, ad esempio, da Enzo Turco e da Guglielmo Inglese, attori essi stessi, ché scrissero numerosissimi testi per il teatro leggero e che nel dopoguerra parteciparono anche a numerosi film a fianco di Totò, che pure aveva iniziato la sua carriera teatrale nell’avansp_ettacolo. Nel film “Miseria e nobiltà”, che Mario Mattoli trasse dalla omonima commedia di Edoardo Scarpetta, Turco (che solitamente faceva “la spalla”, cioè colui che dava al comico l’occasione di far ridere il pubblico con la sua mimica o con te sue battute) è colui che manda Totò ad impegnare il cappello per acquistare il cibo necessario. Ne “Il turco napoletano” Turco invece è Carletto, il pretendente di Lisetta, figlia dell’uomo che assume Totò al suo servizio credendolo un eunuco.
Inglese invece, che aveva scritto numerosi testi con Totò, anche lui senza avere particolari problemi con la censura, ebbe scarso successo nel cinema. Tuttavia Totò, in nome dell’antica amicizia, lo volle con lui nel primo film italiano a colori (“Totò a colori”): impersona il giardiniere che non riesce a spiegare a Totò dove siano i suoi padroni.
Significativo è che l’unico intervento della censura su un testo di Guglielmo Inglese (“La vera fortuna” del 1939) è il taglio della scena in cui gli attori cantano il primo verso dell’”lnno a Roma” (“Sole che sorgi – libero e giocondo”) con la icastica motivazione che “L’Inno a Roma non va in una rivista”, invito implicito all’autore a non occuparsi di tutto ciò che potesse avere un qualche collegamento con la politica.
Gli autori erano ben consapevoli di questo limite e si adeguavano alla situazione: lo fece anche Totò, in un testo presentato alla censura nel 1938 con il titolo “Covo al Gallina”, parodia di Al Capone, il celebre gangster americano. E’ la storia di una rapina condotta da un bandito maldestro, ma è anche una vicenda di normale miseria che non fu censurata in quanto si svolgeva negli Stati Uniti: i riferimenti alla situazione italiana erano troppo remoti per destare qualche preoccupazione nel censore. Parlare di fame, di disoccupazione, di miseria non era possibile: Totò, Inglese, Turco talora lo fecero facendo svolgere le vicende dei loro copioni in paesi immaginari, senza nessun apparente rapporto con l’Italia, quasi a dire che essa era un’ isola felice in un mondo tanto disgraziato. Il censore avvertiva forse la malizia, ma l’abilità tecnica nel costruire la storia ed i trucchi, anche linguistici, usati dagli autori erano tali e tanti che veniva a mancargli anche l’appiglio per motivare un taglio o un divieto di rappresentazione.
Zurlo non capiva o, se capiva, lasciava correre: formalmente le norme, le direttive, la linea politica del regime erano rispettate e per il resto non erano problemi che potevano riguardare un prefetto che aveva appreso il mestiere con Giolitti e non con Mussolin.i
Naturalmente non sempre il gioco dello scarico di responsabilità riusciva. Nel 1935 Zurlo venne infatti pesantemente attaccato da due giornali (“Il Giornale d’Italia” e l’”Awenire d’Italia”): l’accusa era di essere troppo condiscendente nei confronti delle volgarità dei testi dei comici sottoposti al suo esame, ma il chiaro sottinteso era il dissenso per una (vera o pretesa) eccessiva tolleranza rispetto a testi sottilmente critici nei confronti del regime fascista.
Zurlo si rese subito conto della gravità del problema e delle sue implicazioni politiche: scrisse pertanto una lunga lettera a Mussolini, che riportò poi nelle sue memorie, in cui affermava l’impossibilità di eliminare totalmente la satira: compito del censore era di far sì che essa rimanesse “nei limiti della scalfittura superficiale, della punzecchiatura solleticante”, che era quanto lui stesso faceva. Mussolini lesse la lettera e la rispedì a Zurlo con la firma e senza osservazioni, segno inequivocabile di condivisione totale del suo contenuto.
Anche per il Duce quindi la linea seguita da Zurlo era la più opportuna: ciò significava che il dissenso, quello vero, quando c’era ed era evidente, andava stroncato con decisione. Fu il caso dei copioni presentati per il visto da Angelo Cecchelin, una singolare figura di comico, a metà tra l’artista e il militante politico, oggi totalmente dimenticato.
Cecchelin, nato a Trieste nel 1894, era profondamente radicato nella sua città. Il suo orizzonte era Cittavecchia, il quartiere popolare, fatto a quei tempi di osterie, vecchie case, artigiani, disoccupati, prostitute. Nel 1934, quando sembrò che la zona dovesse essere oggetto di un radicale risanamento edilizio, Cecchelin scrisse un testo, “Gli ultimi giorni di Zitavecchia”, che riproduceva la vita del quartiere e si scagliava contro le previste demolizioni. Il testo non ebbe il visto della censura. Zurlo si limitò a tracciare due righe rosse sulle due pagine del testo: non c’era nemmeno bisogno di motivare la negazione del visto ad un lavoro teatrale che eccitava alla ribellione contro l’autorità. Aggiunse infatti la raccomandazione alla Prefettura di Trieste di vigilare attentamente sulle rappresentazioni del comico ed eventualmente vietarle per garantire il mantenimento dell’ordine pubblico.
E’ probabile che Cecchelin fosse di idee vicine a quelle dei comunisti: è certo che era antifascista e che tendeva a manifestare la sua avversione al regime in tutti i copioni teatrali che scriveva e che la censura tagliava abbondantemente nella parte in cui si accennava troppo direttamente a situazioni di degrado e di miseria. Per reazione Cecchelin improvvisava le sue battute a spettacolo terminato, dopo la chiusura del sipario, provocando spesso l’intervento della polizia e la sua successiva denuncia alla magistratura. Un giudice, in uno dei tanti processi a suo carico, gli chiese perché non si fosse iscritto al partito nazionale fascista. Rapida la risposta di Cecchelin: “Perché non pensavo che durasse tanto”.
Nessuna meraviglia dunque se il copione “El negus in spirito” presentato da Cecchelin alla censura nel febbraio 1936, che pure nulla conteneva di antifascista e che anzi, pur con molta retorica, si collocava nel filone del teatro patriottico, non ebbe il visto necessario per essere rappresentato: era troppo il pericolo che, una volta sulla scena, Cecchelin non profittasse dell’occasione per volgere al ridicolo l’impresa abissina che all’apparenza intendeva celebrare.
Il comico triestino continuò a recitare nei teatri di infimo ordine con la “paglietta” e un grosso naso rosso, tratti caratteristici del suo personaggio. Dopo la guerra scontò una condanna a sette anni di carcere, accusato di essere stato un delatore dei partigiani jugoslavi, causa questa del rifiuto, negli anni successivi, di qualunque sowenzione statale alla sua compagnia. Morì nel 1964 a Torino: a Trieste non volle – o non poté – più tornare, anche se il suo ultimo spettacolo ebbe il titolo di “Trieste mia” ad indicare il suo immutato affetto per la città.
La posizione politica di Cecchelin nei confronti del regime fu tra i comici più unica che rara, anche se non fu il solo antifascista: lo furono infatti anche altri comici, come Renato Maddalena, che tennero però distinta la loro attività teatrale dalle proprie convinzioni politiche e che riuscirono a vivacchiare nell’avanspettacolo, quando il sogno di tutti era di passare alla rivista, dallo spettacolo povero a quello ricco.
Molti, come Totò, che debuttò nella rivista nel 1928, Nino Taranto e i fratelli De Rege, per citarne solo alcuni tra i più famosi, ci riuscirono ed acquistarono quella notorietà che i più sfortunati non riuscirono mai a raggiungere, come ad esempio Fanfulla, nome d’arte di Luigi Visconti che acquistò notorietà solo da vecchio, quando nel 1969 interpretò il personaggio di Vernacchio nel “Satyricon” di Federico Fellini.
Un caso a parte è quello di Aldo Fabrizi, l’attore romano divenuto noto nel dopoguerra per le sue interpretazioni cinematografiche, prima fra tutti quella in “Roma città aperta” in cui è Don Giuseppe Morosini. Grande successo ebbe anche “Guardie e ladri” con Totò.
Fabrizi, nato a Roma nel 1905, fu negli anni ’30 uno degli autori comici più bersagliato dalla censura fascista: i suoi testi, anticipando di almeno dieci anni il neorealismo, descrivevano una realtà triste e malinconica, ben diversa dall’Italia fascista che il regime avrebbe voluto vedere rappresentata sulle scene. “Un po’ di sole” nel 1935, “Su e giù per Roma” del 1939, “Ci avete fatto caso” del 1941, furono approvati con abbondanti tagli, mentre nel 1942 fu respinto un monologo, “Tessere a punti”, che conteneva una dura critica al regime. La stessa sorte ebbe l’anno successivo un atto unico, “I tranvieri della città”, uno dei temi prediletti da Fabrizi. E’ la storia di tre conduttori di tram che prendono in giro un passeggero che chiede la partenza del tram all’orario stabilito, storia in cui la censura vide la contrapposizione tra chi comanda e chi è costretto ad ubbidire. Il tema dei conduttori di tram venne ripreso nel film “”Avanti c’è posto”, diretto nel 1942 da Mario Bonnard e del quale l’attore romano fu il principale interprete. Quello di Fabrizi è forse, tra i molti, l’unico caso di una censura condotta più sul filo dell’ideologia che della politica. L’attore romano viene ritenuto uno dei precursori del neorealismo, con i suoi monologhi tratti dalla acuta osservazione della vita d’ogni giorno.
Nessun problema aveva invece la rivista priva di specifici contenuti, dove regnavano le belle donne, i cantanti melodici e le scenografie sfarzose. Regina incontrastata a partire dalla fine degli anni ’30 in questo genere di spettacolo fu una giovane romana, Anna Menzio, in arte Wanda Osiris, che aveva debuttato a Milano nel 1923, al teatro Eden, e che divenne presto quasi l’emblema del lusso e del kitsch. Nel 1937, nella rivista “Follie d’America”, scese per la prima volta una scala fra due file di boys, una scena che divenne poi un riferimento fisso nei suoi spettacoli. Le scenografie esotiche e il grande sfarzo dei costumi comportavano
costi elevati. L’impresario, colui che arrischiava il proprio denaro nell’impresa, divenne un personaggio chiave: da lui, dal suo senso della situazione nella scelta dei copioni, dalla sua abilità nell’ottenere i contributi statali ìnserendo tra gli attori anche un attore di prosa in modo da superare il divieto di sowenzioni per il varietà e l’avanspettacolo, dipendeva in pratica la riuscita commerciale dell’impresa.
Non era però facile trovare un impresario disposto a rischiare. La società Suvini – Zerbini, la più grande organizzazione teatrale degli anni ’30 che aveva finanziato anche alcune riviste, nel 1935 fu sottratta con le buone e con le cattive ai suoi proprietari e posta sotto il diretto controllo del regime: ciò costituì un’ ulteriore remora a copioni che fossero espressione di un qualunque dissenso nei confronti del fascismo.
Sorsero nuovi impresari di rivista, come gli austriaci fratelli Schwarz, che avevano già avuto grande successo come impresari di operette e che ne ebbero altrettanto con la rivista, a partire da “Donne all’inferno” che debuttò a Milano al Teatro Excelsior il 4 dicembre 1929 con lo slogan “Le 60 donne più belle d’Europa”, quasi a segnare il distacco da qualsiasi contaminazione politica.
Fu un’awentura che non durò a lungo: nel 1940 gli Schwarz, ebrei rifugiatisi in Italia per sfuggire alle leggi razziali in Austria, furono costretti ad abbandonare anche l’Italia, dove, dopo il 1938, era iniziata la campagna antiebraica.
I fratelli Schwarz avevano visto giusto quando avevano deciso di abbandonare l’operetta: anche i due divi incontrastati del genere, Guido Riccioli e Nanda Primavera passarono alla rivista e nel 1936 con “Gran Bazar” ottennero a Napoli grande successo. Anche loro però caddero nelle maglie della censura con il copione “Il turista in giro per l’Italia”, scritto per loro da due persone che si celavano dietro pseudonimi e fondate sull’assonanza delle parole turista – fascista. Il copione non ottenne il visto della censura per diretto intervento di Dino Alfieri, Ministro della cultura popolare, competente, a partire dalla sua istituzione (1935) anche per lo spettacolo. Alfieri aveva individuato dietro il turista che tutti critica e poi si comporta peggio il gerarca fascista solo formalmente irreprensibile. Migliore sorte ebbe il copione successivo, “Il pericolo numero 1”: la censura si limitò a qualche aggiustamento di tiro, imponendo che le parole “Tutto dipende da quello lì”, cioè da Mussolini, fossero cambiate in “Tutto dipende dall’ora”, oltre che il taglio della scena in cui in una osteria un gruppo di poveretti mangia accontentandosi degli avanzi di altri awentori mentre l’oste decanta la bontà dei cibi da lui preparati, chiaro riferimento alla situazione della grande maggioranza degli italiani rispetto ai discorsi di Mussolini a proposito dei loro destini.
Con la compagnia Riccioli – Primavera lavorò anche Alberto Sordi, allora agli inizi della carriera. Sordi restò sempre legato alla antica collega e, ormai anziana, la volle con sé nei film “Gastone” (1959), “Il vedovo” (1960) e “Il medico della mutua” {1967) in particine secondarie.
Accanto a comici che tentavano in qualche modo di forzare le maglie della censura con una critica sia pure molto blanda nei confronti del regime e del suo capo, ve ne erano altri dichiaratamente fascisti, come Nuto Navarrini, un “fine dicitore” nato a Milano all’inizio del secolo che aveva debuttato nell’operetta, legato al vecchio café chantant anche nella figura raffinata ed elegante, e che nel 1928 era passato alla rivista con Isa Bluette, nome d’arte di Teresa Ferrero, celebre diva del café chantant. Successivamente il posto di prima attrice fu preso dalla moglie di Navarrini, Vera Rol, una donna bellissima che otteneva sempre un successo personale.
Nel 1936 Navarrini mise in scena “Questa è la verità”, una rivista tanto protesa alla glorificazione del fascismo da apparire, a leggerne oggi il testo, addirittura grottesca, specie nella esaltazione della romanità, ma che tuttavia il regime si sforzò di sostenere in ogni modo. Forse per recuperare il successo di un tempo, nel 1944 il comico si trasferì a Milano, si schierò decisamente con i nazisti e mise in scena “Il diavolo nella giarrettiera”, seguito da “I cadetti di Guascogna”, dichiaratamente filonazista e da “La Gazzetta del sorriso”, una rivista che conteneva una severa condanna dei partigiani. I tedeschi furono entusiasti, Navarrini fu nominato capitano della “Ettore Muti”, una organizzazione militare tristemente nota per le sue atrocità. Arrivò il 25 aprile 1945 e Navarrini fu arrestato insieme al regista della rivista Dino Gelich. Vera Rol, rapata a zero, fu condotta in giro per Milano, esposta agli insulti ed al dileggio della folla scesa nelle strade. Navarrini, processato per collaborazionismo sette mesi più tardi, fu assolto per insufficienza di prove. Nel dicembre 1945 tentò di tornare a recitare ma scoppiarono in teatro incidenti già al momento del debutto. Lo spettacolo fu sospeso: Navarrini tornò sulle scene solo due anni più tardi con la rivista “L’imperatore si diverte” ma senza successo. Tentò con la moglie la strada dell’operetta, ma non riuscì ad avere successo. Negli ultimi anni della sua vita – morì a Roma nel 1973 – si adattò a fare la comparsa nelle commedie musicali di Garinei e Giovannini. Vera Rol invece scelse la strada del cinema ed ebbe grande successo nei film di Raffaele Matarazzo tratti dalle “sceneggiate” napoletane.
Un alone di mistero circonda invece le convinzioni politiche dei fratelli De Rege e la loro presenza nelle file degli antifascisti. Guido e Giorgio, detto Ciccio, De Rege di Donato San Raffaele erano nati a Caserta, Guido nel 1891 e Ciccio tre anni più tardi, eredi di una nobile famiglia piemontese che a Torino aveva frequentato la famiglia Savoia. Alcuni De Rege erano stati ambasciatori del Regno del Piemonte prima e di quello d’Italia poi e il padre dei comici era un alto ufficiale dell’Esercito. Guido, giovanissimo, fuggì di casa per fare l’attore e Ciccio, dopo aver tentato la carriera diplomatica, lo seguì. In breve Guido divenne un attore di successo nell’operetta per passare successivamente alla rivista. La sua spalla fu Ciccio, nel ruolo dell’interlocutore balbettante introdotto dalla celebre frase “Vieni avanti, cretino”, pronunciata da Guido. I due fratelli davano vita a duetti comici di grande successo, ripresi molti anni più tardi da Walter Chiari e Carlo Campanini.
Nel mese di aprile 1922 accadde una cosa strana: a far da guida a Georgij Vasil’evic Cicerin, ministro degli esteri della Russia sovietica giunto in Italia per partecipare alla conferenza economica di Genova per la ripresa dei rapporti russo
– germanici, fu Ciccio De Rege, che da quel momento fu chiamato scherzosamente Cicerin. Perché fu scelto proprio Ciccio De Rege per un incarico così importante? La missione di Cicerin in Italia era stata, secondo documenti sovietici, studiata nei particolari da Lenin: perché Lenin si fidò di De Rege, che certamente non conosceva?
La spiegazione è probabilmente nel fatto che a conoscere De Rege era proprio Cicerin, il cui padre era stato fino alla fine dell”800 ambasciatore russo in Italia: è possibile che ciò avesse costituito l’occasione per conoscenze familiari e quindi anche tra il ministro degli esteri sovietico ed il giovane comico.
Più problematica è la risposta a proposito di una continuazione dei rapporti tra i due dopo l’incontro di Genova e l’avvicinamento di De Rege al comunismo. Certo è che, secondo testimonianze dirette, sia Guido che Ciccio De Rege, rimasto solo dopo la morte di Guido avvenuta a Milano nel 1945, parteciparono attivamente alla resistenza milanese. Manca peraltro qualunque particolare su questa partecipazione e sui modi in cui essa awenne. Ciccio De Rege era stato per tanti anni un agente segreto russo in incognito? La sua partecipazione alla resistenza awenne sotto falso nome, così da rendere la sua vera identità tanto segreta da restare ancora oggi impossibile associare i due nomi? E’ un mistero destinato ancora oggi a restare tale. Ciccio De Rege morì sulla scena a Torino nel 1948: era tornato a recitare nella rivista “Ba bi bo” i famosi monologhi con una nuova “spalla”, Carlo Dapporto per guadagnare il necessario per soprawivere, ormai vecchio e molto malato.
Con la morte di Ciccio De Rege finiva un’epoca: il regime fascista era caduto e non esisteva più il problema della conformità dei testi alle direttive del regime, anche se la censura restava a tutela della moralità, talvolta intesa in senso molto ampio fino a lambire i confini dell’ideologia.
Nella Roma del 1944 ancora occupata dai tedeschi Michele Galdieri scrisse un copione per una rivista che già nel titolo – “Ma che si sono messi in testa?” – denunciava chiaramente · gli intenti satirici nei confronti delle truppe d’occupazione. La censura impose di modificare il titolo in “Che ti sei messo in testa?” ma non toccò il contenuto antinazista. Anna Magnani, interprete principale con Totò, cantava in una scena rimasta famosa una rielaborazione di “Come è bello fà l’amore quanno è sera”, scritta nel 1939 ma che in quei giorni acquistava il senso di un profondo rimpianto per un tempo diverso, quando non c’era la guerra in casa.
La censura quella volta aveva potuto fare molto poco: ormai il regime fascista era in via di sfaldamento e nessuno si sentiva in animo di vietare la protesta espressa in un testo teatrale nei confronti delle forze tedesche di occupazione, anche se c’era da temere il loro intervento repressivo al momento della rappresentazione.
L’intervento invece mancò, probabilmente per la scarsa importanza attribuita allo spettacolo. Nel 1944 cominciarono a correre voci a proposito della intenzione dei tedeschi di trasferire con la forza al nord alcuni tra gli attori più noti, che ritennero opportuno, come raccontò più tardi Peppino De Filippo, scomparire dalla circolazione rifugiandosi nelle case degli amici più fidati.
La paura passò presto: nel settembre 1944 Remigio Paone, il maggiore impresario del teatro di rivista già negli anni ’30, mandò in scena al Teatro Quattro Fontane “Cantachiaro”, rivista che aveva tra gli autori del testo Sandro Giovannini e Pietro Garinei, con la regia di Mario Mattoli e interprete principale Anna Magnani. Era uno spettacolo satirico in cui, oltre ai membri del Governo presieduto da lvanoe Bonomi, venivano bonariamente presi in giro il governatore militare americano Charles Poletti e perfino l’ex duce, interpretato da Luigi Pavese. L’anno dopo andò in scena un altro grande successo, “Soffia sò”, copione di Garinei e Giovannini, interprete ancora una volta Anna Magnani.
Era finita un’epoca e ne iniziava una nuova, con il trionfo della commedia musicale, che si pose almeno sullo stesso piano della rivista tradizionale, mentre l’avanspettacolo si avviava ad un rapido declino fino alla scomparsa totale. Gli attori, anche quelli compromessi con il fascismo come Navarrini e Valdemaro, un altro comico accusato di aver collaborato con i fascisti durante la Repubblica sociale, trovarono spazio in parti secondarie nei film comici o nella commedia musicale. Altri, più anziani, scomparvero dalle scene: a rammentare il vecchio mondo restò solo Nicola Maldacea, il cantante napoletano che aveva inventato la macchietta: per lui aveva scritto monologhi perfino Trilussa. Morì nel 1945, poverissimo, dopo aver guadagnato somme astronomiche, vittima della passione per il gioco del lotto.
Bibliografia
A.A V.V., Sentimental, Almanacco Bompiani, 1975.
Gianni Borgna, Storia della canzone italiana, Milano, 1992.
Felice Cappa – Piero Gelli, Dizionario dello spettacolo, Milano, 1998. Rodolfo De Angelis, Cafe Chantant, Milano, 1984.
Peppino De Filippo, Strette di mano, Napoli, 1974. Nicola Fano, Tessere o non tessere, Firenze, 1999.
Angelo Olivieri e Alberto Castellano, Stelle del varietà, Roma, 1989. Ettore Petrolini, Facezie, autobiografie e memorie, Roma, 1993.
Luciano Ramo, Storia del varietà, Milano, 1956.
Emanuela Scarpellini, Organizzazione teatrale e politica del teatro nell’Italia fascista, Firenze, 1989
Leopoldo Zurlo, Memorie inutili, Roma, 1952.
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