Un effetto collaterale ma nient’affatto secondario della guerra fredda fu il successo dei romanzi di spionaggio. Non succedeva per la prima volta. Già agli inizi del Novecento se ne pubblicarono tantissimi, perché anche allora si profilava il pericolo di un conflitto catastrofico, che poi effettivamente scoppiò nel 1914. E, come negli anni ’50 e ’60, gli scrittori più numerosi e popolari erano inglesi. Trionfarono John Buchan, con “I 39 scalini”, Erskine Childers, con “L’enigma delle sabbie”, e William Le Queux, che, pur di origini francesi, paventava complotti parigini contro il Regno Unito. Fin da quell’epoca, perciò, si profilava per il romanzo di spionaggio “un quasi monopolio anglo-sassone a prevalenza britannica”, nelle parole dello studioso Gabriel Veraldi.
Era inevitabile. L’impero di Sua Maestà dominava lo scenario geopolitico con una responsabilità globale che necessitava di diplomazia occulta. Di fatto, c’era un “Secret Service Fund” che risaliva alla Restaurazione e dal 1797, ogni anno e fino ad oggi, il parlamento di Londra effettua il “Secret Service Vote”. Del resto, Rudyard Kipling aveva svelato il “Grande Gioco” degli inglesi nel subcontinente indiano fra le pagine impareggiabili di “Kim”.
Ma si trattava di una cornice elegante e raffinata, perfino tra le impervie gole dell’Afghanistan, dove si rischiavano pugnalate e colpi di moschetto. Gli agenti segreti a cavallo fra l’Ottocento ed il Novecento furono infatti definiti “Clubland Heroes”, eroi della zona londinese dei club, nel saggio che dedicò loro Richard Usborne.
La guerra fredda elevò questi precedenti alla misura dell’apocalisse. Il 29 agosto 1969 l’Unione Sovietica fa esplodere la sua prima bomba atomica, mettendosi alla pari con gli americani. È l’equilibrio del terrore. Se una delle due grandi potenze lancia le testate, l’altra contrattacca e il mondo finisce in cenere radioattiva. Dunque, non si può più combattere una guerra “normale”. Le azioni passano alla clandestinità ed il campo si apre a quelli che, decenni dopo, il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan avrebbe definito “twilight warriors”, guerrieri del crepuscolo, l’ora delle ombre indistinguibili.
Ian Fleming, classe 1908, aveva in mente da tempo di scrivere “the spy story to end the spy story”, la storia di spionaggio più grande di tutte. Lui era un addetto ai lavori, Durante la seconda guerra mondiale lavorava come assistente dell’Ammiraglio Godfrey, capo della NID, “Naval Intelligence Division”, il servizio segreto della marina militare inglese. Non compiva spettacolari missioni all’estero. Si limitava a dirigerle dalla Stanza 39 dell’Ammiragliato, nei pressi di Trafalgar Square. Eppure, le sue mansioni erano tali da coinvolgerlo in operazioni che sconfinavano dalla storia alla leggenda. Per esempio l’assalto dei commandos ad una postazione radar tedesca, compiuta dall’Unità 30, soprannominata quella dei “Red Indians” di Fleming.
In realtà, il retroterra avventuroso del candidato autore risaliva a molto più indietro nella sua vita, agli anni della gioventù dorata fra le due guerre, con inverni sugli sci a Kitzbühel ed estati sulla costa azzurra. Poi, da inviato dell’agenzia di stampa Reuters, nella Mosca di Stalin, dove i sovietici processavano per spionaggio gli ingegneri della Vickers. Il tutto condito da reminiscenze di “The Boy’s Own”, un periodico per i ragazzi inglesi paragonabile al “Corriere dei Piccoli”.
Così, nell’inventare James Bond, Ian Fleming mise la foga di un entusiasta che voleva tutto tranne la verosimiglianza ed il realismo. Certo, i romanzi del ciclo non sono esagerati quanto i film. Pure, vi si ritrovano elementi di esotismo quasi fantastico ed una tecnologia avvenirista, spesso improbabile. In “Il Dottor No”, quest’ultimo ha costruito un rifugio sottomarino che costa un milione di dollari. Goldfinger viaggia su una Rolls Royce dalla carrozzeria di oro massiccio e l’arcinemico di sempre, Ernst Stavro Blofeld, capo della SPECTRE, attrezza un centro per la guerra batteriologica sulle vette alpine della Svizzera. Il primo romanzo di 007 è “Casinò Royale”, del 1952. Il primo film, “Licenza di uccidere”, esce nell’ottobre del 1962.
L’anno dopo, viene pubblicato un romanzo del tutto diverso, “La spia che venne dal freddo”. Lo firma John Le Carré, nominativo talmente improbabile da odorare parecchio di pseudonimo. È vero. Dietro quell’identità fittizia si nasconde il trentaduenne David Cornwell, funzionario del MI6, il servizio segreto britannico con delega agli affari esteri. Alle spie non è permesso apparire con i loro nomi autentici sulle copertine dei libri, di qui la necessità di quel “Le Carré”, che in francese significa “lo squadrato”.
Il giovane funzionario dell’intelligence ha già scritto due romanzi, “Chiamata per il morto”, nel 1961 e “Delitto di classe”, nel 1962. Vicende grevi e cupe quanto complesse. La prima, è quella di un’amicizia che nasconde il tradimento. La seconda denuncia l’ipocrisia criminale di una prestigiosa università. Protagonista, l’anziano e sfuggente, George Smiley, esperto di filologia romanza tedesca in carico al servizio segreto britannico, denominato “Circus”, dall’ubicazione della sua sede, in Cambridge Circus.
Si parla subito di anti-Bond. L’universo narrativo di Le Carré esclude ogni sensazionalismo. Niente belle donne, a parte Ann, la moglie di Smiley, che lo tradisce di continuo. Un parco macchine di taxi londinesi ed auto civetta. Squallide, noiose e fredde serate a pedinare qualcuno nel West End, anziché i Caraibi o la Giamaica di 007. Soprattutto, nessun agente imbattibile, con una sigla a contraddistinguerlo, bensì una commedia umana, o disumana, di personaggi che sfuggono, eludono, nascondono e si nascondono. In “La spia che venne dal freddo”, Smiley è solo il manovratore. La via crucis spetta ad Alec Leamas, veterano dello spionaggio che vuole ritirarsi e invece viene costretto a fingersi disertore per attirare i sovietici in una trappola per smascherare chi ha smantellato la rete inglese di Berlino. Nel 1965, Martin Ritt ne trae un film altrettanto spoglio di effetti speciali, per giunta in bianco e nero.
Lo stesso Le Carré rinfocola la polemica e l’anno dopo, intervistato per la BBC dichiara che James Bond non va considerato un agente segreto quanto “un pirata”.
Ciononostante, il dualismo tra lui e Fleming è più dichiarato che reale. Sia Le Carré che il creatore di 007 provengono dai veri ambienti dell’intelligence. Ambedue conoscono di prima mano i trucchi del mestiere. E si guardano bene dal riportarli in chiaro quando passano alla narrativa.
Nessuno può affermare che le vere spie non si comportino come James Bond. Anzi. Tra i modelli che ispirarono Ian Fleming vi fu Dusko Popov, uno jugoslavo che nel corso della seconda guerra mondiale fece il doppio gioco per gli inglesi ed i tedeschi, muovendosi a bordo di fuoriserie e giocando forte ai casinò. Anche se poi, nella sua autobiografia avrebbe preso le distanze da 007 scrivendo che uno come Bond nel vero mondo delle spie non sarebbe durato granché perché troppo appariscente.
Le Carré, a sua volta, aveva in mente l’imprendibile direttore del servizio segreto della Germania comunista per la figura di Karla, del Centro di Mosca, il nemico giurato di George Smiley.
L’equivalenza del sensazionalismo e dell’iperrealismo sta nell’uguale improbabilità di fondo. Che ne definisce l’elevazione finale alla qualità dei classici. Tanto che James Bond e George Smiley si ritrovano sullo stesso podio di icone della guerra fredda, sebbene con caratteri, metodi e stili differenti.
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