Sciuscià di Bruno Maida (Torino, Einaudi, 2024, 320 p.)
Tredici/D Lexicon Fresco di stampa
Sara Carbone, storica e critica letteraria
Per la rubrica Fresco di stampa ne “L’infanzia come punto di osservazione dei fenomeni storici contemporanei” Sara Carbone recensisce il saggio Sciuscià di Bruno Maida (Torino, Einaudi, 2024, 320 p.). “Gli sciuscià quali soggetto storico esclusivo diventano, in questo caso, innanzitutto un mezzo efficace per sottrarre la Storia dai luoghi comuni e dalle continue semplificazioni concettuali di cui essa spesso è vittima” – scrive la storica e critica letteraria campana – “In secondo luogo, gli sciuscià […] diventano, poi, strumento attraverso cui indagare molteplici aspetti della storia novecentesca […]. Ognuno dei sei capitoli in cui è organizzato il libro, che procede per trattazione di temi e questioni, rifiutando ogni impianto cronologico, è introdotto da un film che ha per protagonista lo sciuscià così come tutto il dettato è farcito di rimandi cinematografici abbondanti e vari” […]. Secondo Sara Carbone “Gli Sciuscià, infine, si rivelano preziosi all’autore per portare avanti l’istanza secondo cui la Storia autentica è quella utile ossia quella un po’ “politica” in quanto getta luce sul presente, sposta i riflettori da ciò che è accaduto a ciò che accade e ne aumenta la visione”.
25 giugno 2024
Sciuscià non è solo una parola ma un concetto, una sineddoche, scrive Bruno Maida, docente di Storia contemporanea e di Storia dell’Infanzia presso l’Università degli Studi di Torino, nella prefazione al suo ultimo libro dal titolo omonimo, edito da Einaudi nell’aprile 2024. Lo storico, persuaso del fatto che, fino a ora,
«il racconto dei bambini non è quasi mai stato considerato una fonte a sé, una traccia del passato da ascoltare e registrare, un documento necessario per ricostruire trasformazioni della società»,
ha pubblicato, negli anni, una serie di studi in cui ha eletto l’infanzia a punto di osservazione dal quale analizzare i fenomeni storici dell’Età contemporanea. Da L’infanzia nelle guerre del Novecento (2017), a La Shoah dei bambini (2019) ai I treni dell’accoglienza (2020) fino, appunto a Sciuscià, l’infanzia ha cominciato a vantare una sua “cittadinanza” nel discorso storico e il bambino, così come l’adolescente – perché la parola “infanzia” va specificata e va tenuto conto delle diverse fasce d’età – è stato finalmente considerato, al pari del resto degli uomini, «vittima, attore e spettatore» dei fatti che occorrono.
Gli sciuscià quali soggetto storico esclusivo diventano, in questo caso, innanzitutto un mezzo efficace per sottrarre la Storia dai luoghi comuni e dalle continue semplificazioni concettuali di cui essa spesso è vittima e, contemporaneamente, un altrettanto efficace strumento cui fare riferimento mentre si racconta, per avallare l’idea secondo cui il compito della Storia sia quello di rimescolare continuamente le carte, di diversificare, di ampliare l’orizzonte, di moltiplicare la visione, di problematizzare e, soprattutto, di scardinare i luoghi comuni. Insomma, come in ogni libro di Maida, anche in questo il soggetto e l’oggetto dell’indagine diventano strumenti per lezioni di metodo.
Lo sciuscià non è, prima di ogni cosa, l’erede esclusivo dello scugnizzo napoletano che, stavolta, si trova a battere le strade della vecchia capitale del regno borbonico a causa della povertà generata dalla guerra e che spera nell’atto caritatevole del ricco signore o soldato americano al quale sono state lucidate le scarpe.
Come “lustrascarpe”, egli ha già fatto la sua apparizione tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento e lo scenario entro il quale si è mosso è la strada delle grandi metropoli statunitensi, dove egli ha incarnato non solo l’immagine della povertà ma anche quella della marginalità in quanto immigrato e, dunque, straniero.
Dagli States della Great Migration si è spostato all’Unione Sovietica dei primi anni del secolo scorso, assumendo le sembianze dell’orfano di guerra e dell’affamato per la carestia provocata dal conflitto civile, che tenta di sopravvivere vendendo sigarette o che viene sacrificato con l’internamento nei gulag per il mantenimento dell’ordine pubblico.
Come vittima del secondo conflitto mondiale e della miseria da esso scaturita, lo sciuscià non è una creatura squisitamente napoletana bensì il campione, che si è materializzato con maggior successo nell’immaginario collettivo, di tutti quei
«bambini decisi a non morire con la vitalità dei dannati»
che hanno popolato le vie delle maggiori città italiane, da Roma a Genova, da Torino a Milano, a Trieste.
Non è detto che lo sciuscià sia uno shoes shine: può essere un “ciccarolo” – facendo la sua comparsa, magari, anche nelle città tedesche -, un “sigarettaio” o un “borsaro” del mercato nero. E potrebbe anche essere uno che non lavora e, dunque, un “vagabondo”, un “accattone”, un “ladro”. Così come non è detto che i luoghi che frequenta siano per forza quelli della strada. Sale d’attesa, vagoni di treni fermi e sale di cinema sono alcuni dei posti che queste categorie interpretative del reale scelgono di abitare anche quando, talvolta, una casa ce l’hanno ma il contesto morale che questa offre è degradante a tal punto che essi gli preferiscono lo spazio pubblico. E non si dia per assodato che lo sciuscià sia maschio perché la «società degli adulti» ha violentato anche l’«innocenza infantile» delle bambine producendo, parallelamente, una “fenomenologia della scugnizza”. E così continua il discorso di Maida che, agendo come un caleidoscopio, moltiplica gli sguardi su una figura diventata fortunato luogo letterario, teatrale ma soprattutto cinematografico, la quale, in definitiva,
«aggruma l’idea di tutte le infanzie vissute ai margini della società nel corso del Novecento».
In secondo luogo, gli sciuscià – che assorbono anche le categorie dei “figli della guerra” così come quella dei “figli del nemico” e “dell’alleato” – diventano, poi, strumento attraverso cui indagare molteplici aspetti della storia novecentesca. L’attenzione riservata all’infanzia, il modo di esaminare le problematiche a essa legate e di proporre soluzioni diventano, a esempio, il mezzo per inquadrare, raccontare e distinguere i due maggiori schieramenti politici delineatisi alla fine del secondo conflitto mondiale e operanti nel nostro Paese negli anni a seguire, ossia quello di orientamento cattolico e quello, invece, di orientamento social – comunista.
Nel campo dell’assistenza – nello specifico dell’assistenza all’infanzia – essi si fronteggiarono rimarcando distinzioni di approccio e differenti strategie di conquista del consenso. Quegli sciuscià che avevano deciso di vivere altrove anche quando una casa ce l’avevano, del resto, consentono allo storico di aprire a valutazioni di ordine etico e di concepire i danni provocati dal conflitto non solo in termini materiali: quando crolla un edificio e gli spazi da condividere diventano sempre più ristretti, a pagarne è la morale in favore della promiscuità e del degrado. Se lo storico, per delinearne la fenomenologia, icasticamente osserva che
«gli sciuscià a scuola non vanno»,
coglie, immediatamente, l’occasione per portare il suo sguardo attento sullo stato dell’edilizia scolastica e sull’intero sistema dell’istruzione in Italia negli anni dell’immediato dopoguerra; sul tasso di analfabetismo della neonata Repubblica e sul divario socio-culturale fra Nord e Sud del Paese.
Nel passare in rassegna tutti i tipi di furto di questi «minori delinquenti» – da reati contro la persona, la moralità pubblica e il buon costume fino a quelli contro il patrimonio -, il luogo è favorevole per indugiare in un’analisi che tenga conto dell’invenzione della categoria della «pericolosità sociale» nonché un momento propizio in cui può insinuarsi un excursus giuridico sulla perseguibilità penale del minore. Come pure è circostanza appropriata per affrontare la questione delle carceri e per approfondire le soluzioni proposte nei confronti della delinquenza giovanile dal codice Rocco che introdusse l’ambiguo istituto giuridico del «perdono giudiziale» a cui si poteva ricorrere, al fine di
«salvare i più giovani dalla delinquenza e da una vita perduta»,
in caso di non recidività e non gravità del reato commesso. Stavolta, Maida sembra suggerire che se si cambia il soggetto storico, i fatti che si danno alla narrazione possono diventare altri rispetto a quelli generalmente presi in esame o anche gli stessi ma arricchiti di considerazioni nuove. I modi in cui questi bambini hanno
«vissuto, rubato, subito violenza, giocato, ricordato, dimenticato»
li rendono soggetti storici a pieno titolo e, in quanto tali, produttori di fonti esclusive: disegni, temi scolastici, giochi che li hanno visti attori, luoghi che hanno frequentato, prodotti culturali – opere letterarie, cinematografiche, teatrali, musicali, reportage e inchieste giornalistiche – di cui sono stati protagonisti.
I temi svolti dagli alunni della scuola elementare «Guacci Nobile» di Napoli, messi a disposizione dall’Archivio Storico Indire diventano testimonianza autorevole per scrivere la storia di questi «incorreggibili sciuscià» al pari dell’Inchiesta sulla povertà condotta da Indro Montanelli e pubblicata nel gennaio del 1946, in tre puntate, sul Corriere d’Informazione». Una relazione scolastica assume, nei libri di Maida, la dignità di fonte storica al pari di un documentario.
Uno stesso fatto viene raccontato prendendo in esame articoli di testate giornalistiche di orientamenti politici e ideologici differenti, da L’Osservatore Romano a l’Unità, così come ogni pezzo, dopo essere stato analizzato singolarmente, viene preso in esame all’interno dell’intera inchiesta. Tutto è fonte e ogni lascito viene vivisezionato e osservato da tutte le prospettive possibili. Insomma, non è l’esclusività e la verginità della fonte a contare ma il metodo di indagine che restituisce considerazioni inedite e funzionali volte a nutrire e vivacizzare il racconto della Storia.
Lo spazio riservato dalla cinematografia
Quasi totalmente assente nel mondo della canzone come “sciuscià”, il bambino di strada vittima della povertà abita i testi del repertorio musicale italiano come “scugnizzo”; poi c’è la letteratura e il teatro ma lo spazio culturale per eccellenza riservato allo sciuscià è la cinematografia. Ognuno dei sei capitoli in cui è organizzato il libro, che procede per trattazione di temi e questioni, rifiutando ogni impianto cronologico, è introdotto da un film che ha per protagonista lo sciuscià così come tutto il dettato è farcito di rimandi cinematografici abbondanti e vari. Con il film che apre il secondo capitolo – Proibito rubare di Luigi Comencini, iniziato a girare nel 1947 -, Maida riesce a restituire non solo una Fenomenologia degli sciuscià – questo il titolo del capito, appunto – ma anche una “fenomenologia del cinema”, una lezione di cinema nel suo farsi. Con quella storia dei dodici sciuscià che vengono presi dalla strada per partecipare alle riprese e delle vicissitudini che il regista deve affrontare mentre gira il film – gli sciuscià vengono arrestati per alcuni reati commessi in quel periodo e tenuti in riformatorio; si abbandonano a frequenti risse e piccoli crimini sul set – Maida racconta della fantasmagoria della Storia che entra nel Cinema e gli dà nutrimento e del Cinema che immortala la Storia facendo fronte e attenuando i tiri mancini che essa gli gioca.
Interessante è l’analisi, nell’ultimo capitolo, intitolato Non dite più sciuscià, che lo storico fa di un lungometraggio uscito nello stesso anno in cui si giravano le riprese di Proibito rubare e che avrebbe dovuto intitolarsi Sciuscià in Paradiso ma che è stato distribuito, alla fine, come O Key John! Si tratta dal punto di vista cinematografico di
«Un brutto film [in cui manca] l’impostazione concettuale ed espressiva del Neorealismo [e] la macchina da presa non si colloca ad altezza di bambino»,
diretto dal napoletano Ugo Fasano che, allora, non vantava una solida carriera cinematografica alle spalle. Per quanto, cinematograficamente, non vi sia nulla da salvare – racconto che non ha nulla di realistico sia nella descrizione dei fatti sia nel modo in cui essi sono narrati; poco convincenti le riprese realizzate in campagna -, O Key John! si rivela una preziosa fonte storica per delineare comportamenti, atteggiamenti e gesti degli sciuscià soprattutto all’interno dei luoghi in cui essi agiscono, in particolare nel compartimento ferroviario di Roma dove essi vanno a dormire nei vagoni dei treni abbandonati e nell’oratorio di via Marsala che, nota Maida,
«diventa, gradualmente, il vero scenario del film».
E documenti che nel loro raggio d’azione specifico sono poco più che “aborti” – Okay John! è una pessima prova cinematografica – possono rivelarsi un’impareggiabile fonte storica.
Gli Sciuscià, infine, si rivelano preziosi all’autore per portare avanti l’istanza secondo cui la Storia autentica è quella utile ossia quella un po’ “politica” in quanto getta luce sul presente, sposta i riflettori da ciò che è accaduto a ciò che accade e ne aumenta la visione. Non si può fare a meno di notare quanto lo storico, nel passare in rassegna tutte le iniziative che, nel Secondo dopoguerra, sono state portate avanti per “risollevare” le sorti dell’infanzia, ne valorizzi e ne apprezzi, al di là delle differenze nelle modalità, nei mezzi e nei risultati ottenuti, la visione d’insieme, la progettualità che era sottesa a ognuna di esse. Chi agiva sapeva “il perché”. Dai “treni dell’accoglienza” a quelli “dell’amicizia”, dalle iniziative dell’Unione Donne Italiane (UDI) a quelle dei Salesiani, tutto era mosso da un disegno complessivo entro il quale si agiva in modo consapevole; si conosceva il fine ultimo verso cui tendeva la singola iniziativa, in armonia con tutte le altre che l’avevano preceduta e con quelle che l’avrebbero seguita.
Oggi, invece – ha ribadito in qualche occasione Maida -, le iniziative che pure non mancano, anzi abbondano e sono inevitabilmente più “generose” nei mezzi disponibili, rispecchiano un più generale sentire sociale all’insegna del solipsismo per cui è tutto un gran da fare che manca, però, del piano di lavoro generale così come della visione d’insieme che dovrebbe ispirare la progettazione dell’intero studio sulla materia. Non è certo una riflessione confortante questa dello storico dell’ateneo torinese per chi, come lui, resta convinto che
«se l’umanità ha una possibilità di redenzione dopo aver provocato guerre e distruzioni, il riscatto dell’infanzia ne costituisce un passaggio determinante».
E non vi può essere alcuna possibilità di riscatto nella quantità delle cose che si fanno. L’unica speranza dimora nella qualità e nella progettualità.
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