PARLIAMO DI CARCERE

… non solo quando ci sono le emergenze

Basta leggere i giornali ed ascoltare i vari programmi radio televisivi per comprendere che la politica, ma anche il mondo dell’informazione e persino la società nel suo insieme e le istituzioni pubbliche, si occupano di carceri solo quando si verificano episodi estremi: sovraffollamenti, suicidi dei reclusi, suicidi del personale penitenziario, proteste varie o altro.

Ogni volta che accadono episodi criminali, invece, si scatena la ridda di chi la spara più grossa: sbattiamoli dentro e gettiamo la chiave; aumentiamo le pene; ecc. come se non ci fosse un nesso ben preciso tra responsabilità e colpa, come se Napoleone Colajanni ed i suoi studi, sul ruolo del contesto nell’insorgere dei fenomeni criminali, fosse passato invano, come se le esperienze non siano servite a nulla.

O peggio, come se fossimo ancora alle oscurtantistiche teorie di Cesare Lombroso, secondo il quale delinquenti si nasce!!

Ebbene, questo è il primo errore: i fenomeni criminali ed il mondo delle carceri, se è vero che rappresenta un microcosmo con le sue origini e le sue specificità, costituisce anche un settore ordinario della Pubblica Amministrazione, dunque è necessario fare in modo che esso funzioni ordinariamente, cioè che ordinariamente vengano coperti i vuoti di personale, che ordinariamente vengano ristrutturati gli edifici, che ordinariamente vengano costruite nuove strutture se servono, che ordinariamente venga garantita l’assistenza sanitaria e psicologica necessaria, che ordinariamente venga assicurata la possibilità di studiare, di lavorare, di trascorrere il lungo, inoperoso e snervante “tempo libero”, che ordinariamente vengano fatti funzionare i servizi sociali dei comuni, e soprattutto, che ordinariamente venga assicurata la dignità di chi è recluso e di chi lavora nelle varie strutture, rispettando i parametri stabiliti anche in sede europea con più di una sentenza.

Migliorare la situazione carceraria, è bene che lo si ricordi, in particolare a chi si limita a guardarci dentro dal buco della serratura, senza sforzarsi di capire neanche ciò che vede, non significa soltanto far stare meglio le persone che, a vario titolo, vi sono presenti, da operatori o da reclusi, ma significa anche elevare il grado di sicurezza e di civiltà dello Stato e della società nel loro insieme.

D’altra parte, come diceva Fedor Dostoevskij nel suo “Delitto e castigo”: “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni.”

Purtroppo questa analisi non viene compiuta adeguatamente e per imporre una, sia pur minima, discussione su ciò che è ordinario, è necessario che vi siano oltre settanta suicidi l’anno tra i reclusi, sei o sette suicidi l’anno tra il personale penitenziario (78 negli ultimi dieci anni), 10 mila detenuti, con riferimento a quella che è la capienza complessiva massima delle carceri, e circa 10 mila agenti in meno, rispetto a quello che è l’organico stabilito.

A proposito di errori e di cifre, giusto per capire quale sia la dimensione di questo delicato ambito dello Stato, è bene riferire qualche dato.

Allo scorso mese di marzo, le carceri italiane erano 207, 190 per adulti e 17 per minorenni; i reclusi erano 61.049, 2.611 donne; la capienza regolamentare era di 51.178; gli accessi negli IPM di minorenni sono passati da circa 700 l’anno a 1143.

Un detenuto, mediamente, costa 138,7 euro al giorno, ma il vitto (colazione, pranzo e cena), costa solo tra i 3 ed i 4 euro al giorno. Il totale del costo giornaliero, per l’intera popolazione penitenziaria, è di circa 8 milioni, equivalente al costo di una scuola di medie dimensioni.

Ogni anno i reclusi sono sottoposti, nell’insieme, a circa 380 mila traduzioni (spostamenti di varia natura), a conferma che qualcosa si potrebbe fare anche per migliorare la logistica detentiva e l’organizzazione giudiziaria.

Il costo complessivo del sistema carcerario italiano è pari a quasi tre miliardi l’anno, una cifra non certo bassa, dato che costa quanto circa 1/3 del Ponte sullo stretto di Messina, completo di opere complementari.

Secondo i dati ufficiali i detenuti che lavorano sono meno del 30% del totale, solo il 4% lavora fuori dal carcere e circa 18.000 sono stranieri. Anche sull’aspetto del lavoro e degli stranieri si potrebbe fare più di qualcosa.

Sempre secondo i dati ufficiali, i detenuti che vengono sottoposti ad un corretto e adeguato trattamento penitenziario, nell’85% del casi, non reiterano il reato, mentre quelli che non vengono sottoposti ad un corretto regime detentivo, nell’85% del casi, reiterano il reato e tornano in cella. Non sfugga, in tal senso, la specularità delle due cifre citate.

Questi dati, infatti, dovrebbero rendere più semplice il senso degli sbagli ai quali si fa cenno più avanti, con lo scopo di essere realmente consapevoli della reale e complessa situazione del settore.

Il secondo errore lo commettono coloro i quali pensano che il carcere rappresenti l’unica pena possibile, mentre ve ne sono molte altre, già previste dalle leggi in vigore, e alcune facilmente disciplinabili, magari mutuando le esperienze di Stati diversi dal nostro.

Il terzo errore lo commettono coloro i quali pensano che i detenuti siano tutti uguali, che le pene siano tutte uguali, che i processi rieducativi siano, e debbano essere, tutti uguali, il che sarebbe come immaginare che tutti gli uomini e le donne abbiano la stessa corporatura, la stessa energia, pensino le stesse cose, abbiano la stessa cultura e la stessa educazione, insomma, siano cloni l’uno dell’altro, mentre non è assolutamente così ed in questo ambito le differenze sono particolarmente importanti ai fini del corretto trattamento detentivo.

Il quarto errore è quello che commettono coloro i quali ritengono che il carcere sia una discarica della società, poiché dimenticano che dalle discariche non si ritorna nelle case di chi ha prodotto i rifiuti, mentre dal carcere, salvo rarissimi casi, prima o poi, si ritorna nella società.

Poiché questo accade comunque, se il carcere è stato scontato in maniera proficua, cioè ha determinato il recupero ed il miglioramento del recluso, la società avrà riguadagnato un cittadino degno di questo nome, se invece il carcere sarà stato scontato in maniera irregolare e scorretta, sarà stata la criminalità che avrà riguadagnato un adepto, magari più agguerrito, delinquente e sanguinario di prima.

Il sesto errore lo commette la Pubblica Amministrazione se non è in grado di programmare le proprie azioni e le proprie misure in materia detentiva e preferisce farsi trascinare dalle emergenze contingenti o da chi governa senza competenza. Cioè da chi ne disciplina il funzionamento attraverso l’adozione di misure “contingibili e urgenti”, che tamponano ma non risolvono i mali di fondo che si manifestano e che sono ben più che noti.

Il mondo penitenziario non ha bisogno di nuove leggi, perché quelle che lo regolano, in particolare la legge 354/75, sono assolutamente valide, a condizione, però, che vangano applicate correttamente, non certo solo ipocritamente proclamate, come purtroppo, non bisogna negarlo, accade spesso.

C’è un ultimo errore che non va assolutamente commesso quando si affronta il tema carceri, mi riferisco a quella forte dose di autoreferenzialità che ne caratterizza l’amministrazione e chi ne fa parte a tutti i livelli, salvo le eccezioni statistiche.

Un’autoreferenzialità vergognosa e stucchevole, che nega l’evidenza dei fatti e delle situazioni, che nasconde i problemi, che li minimizza e che talvolta nasconde pure le prove di ciò che accade al di là delle mura, al di là delle inferriate, nella penombra umida delle celle di quella particolare società che si chiama carcere.


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