In greco il termine che definisce colui che giunge dall’esterno è “xenos”e, sebbene, come sovente accade, la traduzione in italiano risulti ardua( perchè il campo semantico definito dal greco è molto ampio e complesso), nel tentativo di semplificare ,possiamo renderlo con il termine ospite che è colui che beneficia delle leggi dell’ospitalità, inclusive di una serie di attenzioni e di cure che caratterizzano la socialità democratica dell’antica Grecia. Nulla in comune con l’altra traduzione di “ straniero” di accezione moderna e che apre una dissertazione di natura umanitaria e insieme politica.
Al centro del concetto di xenos c’è il valore che i Greci davano all’ospitalità, tanto che la non osservanza metteva l’uomo al di fuori della civiltà e dell’umanità. Tale concetto, insito nella loro lontana ed irripetibile etica, non era solo una questione di usi ,ma richiedeva un’attenzione particolare verso lo straniero, che, indipendentemente dal censo e dalla fama, era accolto, lavato, rivestito di nuovi abiti e ospitato alla tavola che veniva imbandita , non per sfamare in senso francescano , ma per accogliere con cura e ricercatezza. Questo rito, che si consumava attraverso le offerte e la condivisione del cibo e delle bevande era uno dei gesti fondamentali dell’ospitalità e qualificava gli esseri umani.
Tutti noi, anche senza fare ricorso ad un meticoloso e professionale studio della letteratura greca, conosciamo Ulisse, il viaggiatore per eccellenza, l’astuto, il curioso,il creatore del cavallo ,senza il quale i Greci non avrebbero saputo abbattere i Troiani..l’uom di multiforme ingegno che molto errò …che città vide molte.”
Tutto il suo viaggio di ritorno alla natia Itaca, è un vagare di terra in terra, di popolo in popolo, che abita in luoghi che, pur bagnati dall’ azzurro mediterraneo, sono così diversi tra loro. Può sembrare quasi assurdo come poche miglia possano caratterizzare usi e costumi tanto opposti! Ulisse intuirà, sempre e velocemente, il popolo che ha di fronte proprio dal cibo che gli viene offerto e che subito firma ed esprime il carattere e la civiltà di chi lo ospita.
Popoli, ricchi e raffinati, poveri e rispettosi, mostruosi e dotati di forza inumana, tanto diversi fra loro, presenteranno allo straniero Ulisse che approda alle loro coste,attraverso il cibo, il loro biglietto da visita . Sarà un popolo rispettoso dell’altro o un popolo che esalterà la forza bruta? Conosce la panificazione, utilizza cibo così come glielo offre la natura? o ama trattarlo e, così,renderlo meno primitivo? Alleggerisce il vino “annacquandolo” e speziandolo?
Sono queste le prime domande che Ulisse farà a se stesso.
Senza voler fare dissertazioni sull’opera di Omero, sono portata a pensare quanto ,fin dall’antichità, il rispetto per l’Altro fosse coltivato fin nei più piccoli particolari.
Il vino nell’antica Grecia, diluito, mescolato con il miele o con l’acqua, è un segno distintivo di civiltà, perchè non serve a obnupilare la mente, ma a dargli il miglior carattere, ad esaltarne il gusto, a renderlo piacevole al palato.
Oggi come ieri, i Greci bevono il vino resinato che è tradizionalmente, e non a caso, parte della cultura culinaria greca. Per loro il cibo è convivialità, intorno alla tavola si può stare per ore: si parla, si gioca, si ride, si pettegola. In Grecia il mangiare , ancora oggi, non segue la sequenza della cucina italiana con piatti di portata ben definiti, ma, piuttosto, tende a mischiare più sapori con piccoli assaggi delle varie pietanze che vengono offerti contemporaneamente sulla tavola. A ciò aggiungiamo che la cucina greca fa uso abbondante di spezie ed erbe per aromatizzare ed insaporire i vari piatti: ne consegue che il nostro palato è sì soddisfatto, ma anche “saturo” di sapori diversi.
Ecco, a questo serve la Retsina ( nata inizialmente per il mantenimento nel trasporto del vino), soprattutto quando è buona: è aggiunta al vino per “pulire” il palato dai tanti sapori e , con il suo effetto balsamico, a predisporlo e rinfrescarlo per i nuovi bocconi. Tutto ha un suo perché e , seppur nato dal caso, se ha effetti benefici , diventa habitus.
Pochi giorni fa mi è capitato di vedere “La Passion de Dodin Bouffant” film del regista franco- vietnamita Trần Anh Hùng, che sebbene si caratterizzi da subito e facilmente come il food-porn movie ad alto contenuto artistico e non sia timido nell’accompagnare al lato sensoriale quello sensuale , è soprattutto un film sull’amore nei confronti dell’arte “culinaria”.
Tra preziose pentole di rame e raffinate porcellane, lo sfrigolare dei grassi e il gorgogliare di brodi, pollame, carré di agnello, succhi, salse, sformati di verdure, ostriche, uova, legumi, consommé, vol-au-vent, frutta e omelette norvegesi, Benoît Magimel e Juliette Binoche sono un vero e proprio meccanismo a orologeria che non necessita di parole. La prima, lunga sequenza del film, priva di dialoghi, si affida infatti alla visione dei preparativi di un imponente menu.
Il film usa il cibo come metafora smaccata di una forma di altruismo, di accudimento, di realizzazione personale; ma il suo incedere reiterato, il suo sguardo estatico sanno catturare un senso del cibo quasi mistico, mai legato a un piacere solamente terreno.
Non c’è una colonna sonora che stimoli le nostre reazioni emotive, ma semplicemente un tappeto di rumori naturali – gli uccelli, i grilli, il vento, il suono della cucina – che sottolineno i legami del cibo con il suo punto di origine e con il mondo che ci circonda. Il gusto delle cose, appunto!
Quanto verrà di buono socialmente da una conviviale arricchita da bei piatti che rispettano democraticamente il gusto dei commensali?
Penso che questo sia l’elemento motivante e primario di una buona conviviale e, spesso, si dice che gli accordi, anche di politica internazionale si risolvono più facilmente intorno ad una tavola imbandita.
Più volte ho dichiarato una certa diffidenza sui prodotti lavorati con alchimia da laboratorio. Sono per i sapori genuini, naturali, privi di manipolazioni che, spesso , penalizzano e neutralizzano i sapori.
In effetti, poi , le ricette più semplici, sono le più difficili da eseguire.
Che dire della difficoltà di una pasta cacio e pepe? E di una salsa estiva con olio pomodoro e basilico?
Quanto incide il tipo di pasta, la qualità, il formato e la cottura?
Il pomodoro, quale pomodoro? San Marzano, Regina di Canne, Prunil , Pachino? Sono tanti e ognuno ha un suo perché confinato nella sua terra di origine, nelle mani ossute di chi lo ha raccolto, al sole e con sudore…come una volta!
E…poi l’olio, incontrastato Re delle nostre Tavole e delle nostre preparazioni.
Ecco io punterei più su prodotti di qualità e di pregio che vengono esaltati nel loro sapore e gusto da un ottimo artigiano della cucina.
A proposito che ne dite di un bucatino all’aglione?
La qualità prima di tutto dei 3 elementi fondamentali:
1)uno spicchio di aglione (ormai facile da trovare nei supermercati)
2) olio evo di ottima qualità
3) 4 pomodori rossi di ottima qualità ( io opterei per i San Marzano precedentemente sbollentati e pelati) ridotti a dadini
4)pomodori rossi da sugo
5) bucatini di ottima qualità
Ricetta semplicissima, veloce e molto gradevole.
Per prima cosa si deve preparare la passata di pomodoro. Una volta pronta, in una padella mettete qb di olio evo, lo spicchio di aglione e i San Marzano a dadini, regolate il tutto con la giusta quantità di sale e un po’ di zucchero per contrastare l’acidità. Quando i dadini di pomodoro sono ammorbiditi , versate la passata e regolate ancora il sale e lo zucchero. Qualcuno aggiunge anche un pizzico di peperoncino. La cottura dovrà procedere per altri 6/7 min.
Intanto avrete messo i bucatini nella pentola con l’acqua bollente e 2 minuti prima che giungano al dente come cottura, scolateli non troppo bene e versateli nella padella dove avrete tolto lo spicchio di aglione. I 2 minuti rimanti serviranno al sugo di penetrare al meglio nei bucatini, mentre l’amido rilasciato dalla pasta farà il suo lavoro di amalgama .
Impiattate e gustatene la bontà.
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