POLIS NAPOLI
Napoli. Il Comune ha adottato una misura che prevede che tutte le aziende che hanno rapporti di fornitura di beni, di servizi o di lavoro con l’amministrazione comunale dovranno corrispondere ai loro dipendenti un trattamento salariale minimo di 9 euro all’ora. Come già accaduto a Livorno, anche Napoli, primo Comune nel Sud Italia, introduce un provvedimento che va contro gli orientamenti del legislatore nazionale.
Questa iniziativa sia politica che amministrativa coincide con le linee di programma del sindaco Manfredi, ovvero dare maggiori garanzie ai lavoratori migliorando le condizioni di lavoro e il potere d’acquisto dei lavoratori presso aziende che operano in collaborazione con l’amministrazione comunale.
Controcorrente e contrarissima al provvedimento è la CISL partenopea, la cui posizione ricalca quella dei vertici nazionali: il salario minimo è un provvedimento inefficace e controproducente, perché schiaccia le retribuzioni verso il basso. Nel caso specifico napoletano, inoltre, secondo la CISL questo atto segue un metodo sbagliato, perché non deriva dal coinvolgimento dei lavoratori e non promuove la partecipazione delle parti sociali. Tradotto: più che di una soglia retributiva minima oraria, c’è bisogno di riconoscere ai lavoratori il trattamento economico previsto dai contratti collettivi nazionali, i CCNL più applicati e sottoscritti dalle associazioni datoriali e sindacali più rappresentative a livello nazionale.
La posizione del sindacato sul tema è nota e dibattuta. L’Italia non ha un reddito minimo orario, ma ha un mercato del lavoro strutturato su un sistema di concertazione che copre una quota molto rilevante di lavoratori. In un contesto del genere si presuppone che sia sufficiente applicare i CCNL contrattando a livello nazionale il reddito orario. Sembra quindi che le iniziative dei comuni equivalgono per il sindacato ad una invasione di campo, un’iniziativa esclusivamente politica che va contro l’intero impianto concertativo su cui si basa la giurisdizione del mercato del lavoro.
L’azione della politica è fuori da questo impianto, quindi inutile e dannosa. Di diverso parere ovviamente la politica, che considera necessario riprendere un ruolo (posizione a nostro parere del tutto legittima) nell’indirizzare alcune dinamiche che spingono verso la ridistribuzione delle risorse e delle ricchezze.
Certamente la politica ha bisogno delle parti sociali, ma non ci si dovrebbe stupire se un consigliere comunale propone una mozione per chiedere al consiglio del Comune di cui fa parte che l’amministrazione pubblica imponga ai propri fornitori un trattamento dignitoso ai lavoratori.
Ci sono poi altre questioni di cui varrebbe la pena ragionare. La prima è la pratica del massimo ribasso che per anni ha depresso il mercato del lavoro nel nostro Paese, una partita per anni lasciata in sospeso perché consentiva sostanzialmente alla pubblica amministrazione di gestire il sociale e una parte sostanziale del welfare. La seconda questione, ormai sul tavolo da anni, consiste nel fatto che gli stipendi in Italia non crescono da 30 anni, e che da 20 diminuisce il potere d’acquisto dei lavoratori, in particolare quelli del pubblico impiego, dei servizi e del commercio.
Gli scienziati politici classici dicono che esiste un contratto, ma che prima del contratto esiste un patto tra lavoratore e datore di lavoro, così come cittadino e amministrazione. Nessuno contesta l’utilità di un contratto collettivo, ma in un contesto in cui il lavoro vale sempre meno il tema del salario è sicuramente un tema politico, su cui la politica DEVE intervenire.
E dopo anni di dumping al ribasso dei salari, anche causato dagli appalti pubblici, l’iniziativa della politica è sicuramente necessaria nel dare indirizzi e regole nuove.
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