IL CAPORALATO DIGITALE

Il nuovo caporalato è online. I rider irregolari sono le vittime principali del “caporalato digitale”, un sistema illecito di compravendita di account finti in costante crescita.

Più di 3 milioni sono i lavoratori irregolari in Italia. Tra loro c’è Khadim: ha 25 anni, la mia età, e si occupa di consegne a domicilio. Non possiede documenti, eppure fa il rider sotto una delle più note piattaforme di delivery. In che modo? Appoggiandosi ai “caporali digitali”.

A Torino ho incontrato Khadim (nome di fantasia, ndr) mentre era in attesa di ricevere la notifica di un nuovo ordine. “Quando sono arrivato in Italia avevo bisogno di un lavoro, non avevo i documenti e un amico mi ha suggerito di fare il rider”, racconta. Mediante il passaparola, Khadim si mette in contatto con una signora che vende account falsi. È grazie a lei che riesce a iscriversi a una famosa app di delivery. Da un paio di mesi lavora come rider cedendo a lei il 20% del guadagno delle consegne (ci sono caporali che trattengono addirittura il 50%). “Tu paghi le tasse allo Stato, io do una parte a lei”, aggiunge quasi a volersi giustificare, ma più con sé stesso che con me.

Questa nuova forma illegale di reclutamento e organizzazione delle consegne a domicilio si è sviluppata durante la pandemia e oggi un numero rilevante di rider lavora sotto un falso profilo virtuale, spesso con mezzi di trasporto modificati (tendenzialmente biciclette elettriche con batterie posticce). Insomma, dietro alle app di delivery si nasconde un vero e proprio sistema di cessione fittizia e a pagamento di account per fattorini.

Ma quali sono i requisiti per iscriversi alle piattaforme di delivery? Per lavorare come rider occorre essere maggiorenni, in possesso di un permesso di lavoro valido e di uno smartphone. A seconda del mezzo di consegna (auto, scooter, bicicletta o a piedi) vengono richiesti altri permessi o assicurazioni da caricare online. In meno di 30 minuti la registrazione è completata. Dopo la verifica dei documenti da parte della piattaforma (tempo che varia a seconda della nazionalità d’origine), si riceve il contratto via e-mail. Questa è la procedura per chi sa di avere tutte le carte in regola, e per gli altri? Per chi è da poco arrivato in Italia ed è in attesa di essere regolarizzato o ha il permesso di soggiorno scaduto e cerca rapidamente lavoro, il caporalato digitale è una facile soluzione (infatti non occorre CV, colloquio conoscitivo, titolo di studio, referenze o livello di lingua avanzato).

Questo fenomeno è piuttosto recente: come detto sopra, le origini del caporalato digitale risalgono agli anni del Covid. Prima di allora, la cessione degli account era semplicemente una volontaria e temporanea condivisione delle credenziali del rider a un collega per motivi fisiologici. Quando un ciclofattorino non poteva lavorare per un certo periodo (a causa di infortunio, malattia, ritorno in patria, ecc.; poiché non esisteva fino al 2020 l’assicurazione sanitaria obbligatoria per la mansione di rider), egli prestava volontariamente il proprio account a terzi senza richiedere alcun beneficio economico; ciò serviva per mantenere attivo il rapporto con la piattaforma ed evitare penalizzazioni nel “ranking prestazionale”. Insomma, dal momento che l’algoritmo dell’app privilegiava chi accettava di fare tante consegne in poco tempo, il mancato “ok” alla notifica dell’ordine avrebbe significato l’indebolimento del legame algoritmico del rider con la piattaforma stessa. Durante la pandemia, l’utilizzo dei servizi di delivery è cresciuto esponenzialmente, trasformando i rider in lavoratori attivi 24/7 e meglio tutelati.

È difficile oggi conoscere in maniera puntuale le norme contrattuali delle piattaforme di delivery poiché i contratti vengono aggiornati continuamente. Mentre all’inizio l’app assegnava bonus in base al numero di consegne effettuate e al tempo impiegato, oggi, cioè dopo diverse proteste, l’algoritmo non tiene più conto dei parametri legati alla persona (i rider non vengono più valutati sulla base della velocità, delle valutazioni dei clienti o di altri indicatori che possono causare discriminazioni). Inoltre, non viene più monitorata l’accettazione o il rifiuto dell’ordine e nemmeno lo storico delle consegne: oggi un rider appena assunto ha le stesse probabilità di ricevere una proposta di lavoro di un rider esperto.

Ma quanto è diffuso il caporalato digitale? A seguito delle indagini dei carabinieri del Nucleo Ispettorato del Lavoro di Milano, è emerso che, tra luglio e ottobre 2022, nel capoluogo lombardo su 823 ciclofattorini 92 lavoravano con cessione fittizia di un account, 23 con documenti irregolari e 22 con mezzi modificati. Stabilire con esattezza l’estensione del caporalato digitale è davvero difficile. Ancora oggi, a pandemia superata, la figura del rider è molto richiesta; di conseguenza, le piattaforme continuano a reclutare un numero considerevole di nuovi rider, anche rider non formalmente in regola.

Va detto inoltre che il fenomeno del caporalato digitale non si limita solo a rider e fattorini, che costituiscono rispettivamente il 36,2% e il 14% di questo nuovo settore. La restante parte dei “platform worker” si dedica a mansioni online: traduzioni, scrittura di testi, programmazione di software, creazione di siti web e molto altro.

Contratti a breve termine, orari flessibili e assenza di ammortizzatori sociali sono diventati tratti distintivi delle nuove forme di lavoro interinale legate al mondo virtuale. L’economia digitale ha assecondato un fenomeno senza volto che risponde a logiche algoritmiche e spesso discriminatorie. Il mercato del lavoro risulta pertanto polarizzato.

Contrastare il fenomeno del caporalato digitale deve dunque diventare una priorità, iniziando con la definizione delle tutele e dei diritti di tutti i lavoratori, specie dei lavoratori come Khadim.


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