Da secoli, anzi da millenni, la specie umana è stata abituata a pensare che qualunque aumento di conoscenza, di sapere o di consapevolezza personale o di gruppo sia necessariamente il frutto di un lavorio lungo e di un processo di appropriazione progressiva.
Che si tratti di studio della fisica come di un approfondimento di carattere mistico – religioso la strada è sempre quella.
Vale a dire un percorso fatto di tappe, di successivi aggiustamenti, di errori e correzioni intravvedendo, e spesso modificando, lo stesso obiettivo finale.
Naturalmente, essendo noi dei poveri uomini, tentiamo a volte di consolarci.
Così fingiamo di credere davvero che Newton abbia intuito la legge della gravitazione universale osservando la caduta di una mela dall’albero.
Meno banale, ed anche più consolante, è l’osservazione in merito di Blaise Pascal “Tu non mi cercheresti se non mi avessi già trovato”, riferita ovviamente al rapporto con Dio.
Implica e rafforza l’idea che l’attribuzione di valore va riferita alla ricerca in sé stessa, prescindendo in qualche modo dallo stesso raggiungimento dell’obiettivo.
Insomma, il cammino deve comunque non smettere e proseguire ma trova il suo primo premio nel suo stesso compiersi.
Questo tipo di approccio porta con sé una conseguenza importantissima.
Presuppone che l’oggetto della ricerca di conoscenza sia, soprattutto all’inizio, totalmente esterno a chi intraprende il cammino.
È, ancora nelle parole di Pascal, il dramma della profonda e diffusa lontananza da quel che si vorrebbe raggiungere e conoscere.
E, stavolta, Pascal è meno tenero.
“Ma, sventurati come siamo … abbiamo un’idea della felicità e non possiamo raggiungerla, percepiamo un’immagine della verità e possediamo solo la menzogna, incapaci di ignorare del tutto e di sapere con certezza, tanto è evidente che eravamo un tempo a un grado di perfezione dal quale siamo sventuratamente caduti,”
Se abbandoniamo per un momento la grandezza del pensiero che andiamo evocando, ci appare una conseguenza ulteriore peraltro facilmente verificabile.
Per il singolo essere umano che non abbia ancora iniziato il cammino di una ricerca (qualunque ne sia il livello e il tema) quell’oggetto, che diverrà poi importantissimo, semplicemente “non esiste”.
Soltanto una volta iniziato a studiare ed approfondire quel possibile oggetto di conoscenza inizierà a essere presente e ad agire sui percorsi e passaggi successivi.
Per dirla meglio: l’inizio di un percorso di studio e di approfondimento modifica con il suo stesso esistere la percezione del mondo e delle cose.
L’applicazione e la analisi determinano (o determinavano, come presto si vedrà) un susseguirsi di parziali modificazioni della persona impegnata.
Da queste deriva la sua concezione del mondo che cambia, si arricchisce e si adegua nel corso del percorso.
Del resto, è quel che ognuno ha potuto verificare anche nel corso del cammino formativo in sede scolastica.
Ogni apprendimento creava nella mente del soggetto impegnato un nuovo pezzo di realtà che modificava il ricercatore anche in minuscoli e successivi passaggi.
Il non conosciuto (o il non ancora conosciuto) costituiva una sorta di area comune con gli altri esseri umani.
Territorio da esplorare se si voleva o da lasciare lontano ed intatto se ci si voleva arrestare.
Comprendeva tutto, anche sul piano della esistenza materiale.
Non vi era bisogno di imparare a guidare un tram, posto che alla guida sedeva già un altro essere umano.
Non vi era bisogno di indagare il mondo della medicina né imparare a tagliare bene i capelli.
Una immensa quantità di saperi parziali viveva tranquilla in un’area che potremmo definire come un condominio: un servizio collettivo di conoscenze essenziali al cui interno ciascuno poteva vivere con la propria e ristretta personalità.
La conoscenza personalmente posseduta corrispondeva al proprio “dominio” sul mondo.
Tutto il resto, ed era un’infinita maggioranza, era affidato (nel bene e nel male) alla gestione dell’intera società umana.
Adesso, però, sembra che tutti abbiamo la chiave di quell’area comune.
La teniamo sempre in tasca e la ricarichiamo pazientemente ogni sera.
Il nostro personale telefonino sembra contenere tutto, pronto a consegnarci qualunque conoscenza su un piatto d’argento.
Esso è la chiave del nostro condominio, anche nelle zone da noi sino a quel momento inesplorate.
Si infrange, apparentemente, uno dei dogmi dolorosi della esistenza umana.
Tutto, di colpo, sembra avere guadagnato il diritto a una piena esistenza con il semplice passare di un attimo e il suono di un click.
La risposta eccola. Stava lì pronta per noi.
Chi ci fermerà, ora che abbiamo la chiave del condominio?
Nasce così, quasi per gioco, il mondo in cui “uno vale uno”. In cui è possibile, se non addirittura giusto, aggredire un professore che ha dato un brutto voto al figlio.
Non lo sa, il professore, che quel che insegna è già tutto presente e a portata di mano? Già. Forse è per quello che è così mal pagato.
Non lo sa il medico che mi fa una diagnosi che ora io posso verificarne in tempo reale la validità? Forse, se lo sapesse, sarebbe più prudente nel dirmi che ho qualcosa di grave.
Quel senso di distanza dal mondo che sino a ieri mi ha fatto soffrire e spingere ad agitarmi si dissolve ora in una nuova e pigra consapevolezza.
Ho la possibilità di sapere e conoscere tutto.
La cultura, l’informazione e la consapevolezza che, nel loro distribuirsi fra gli uomini, prima sembravano la chiave che giustificava anche la autorità e la autorevolezza ora non segnano alcun confine.
Alcuni anni fa io, da bravo Libero Muratore, andai a Lavorare in un’altra Loggia diversa dalla mia.
Una giovane Apprendista (che poi scoprii appartenere a Casa Pound) ci spiegò che Benito Mussolini era un Massone.
Ascoltò con pazienza e rispetto la mia “lezione” sulla guerra alla Massoneria condotta da Mussolini già da quand’era socialista e concretata con lo scioglimento coatto nel 1925.
Alla fine mi sorrise (del resto in quella Tornata fungevo da Oratore) e mi spiegò che aveva “visto le fotografie”.
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