OCCHIO PER OCCHIO

Sta avanzando, in modo preoccupantemente esponenziale, una diffusa tendenza a valutare soggettivamente le sanzioni irrogate, tramite i processi, dal sistema giudiziario.

Ciò avviene non sulla base della valutazione del percorso indagatorio e giudiziario (che, entrambi, possono essere certamente discussi e criticati) ma su quella della rispondenza della sentenza alle aspettative del singolo che sta all’esterno del percorso stesso.

Qui si manifestano normalmente due sindromi.

La prima consiste nel ritenere insufficiente la condanna rispetto alla gravità del reato commesso.

“Così pochi anni per un delitto così terribile!” si pensa e si dice.

La seconda, e più complessa, sindrome si fonda sul paragonare il dolore (o il danno) provocato con quello che effettivamente si troverà a subire il colpevole.

Questo atteggiamento è, spiegabilmente, più forte del precedente e trova più facilmente seguaci.

Si basa sulla idea che la sofferenza inflitta al colpevole debba tendenzialmente essere pari a quella che egli ha provocato.

È una filosofia giuridica presente con chiarezza nel mitico codice barbaricino che, pur nella sua trasmissione solamente orale, insiste costantemente sulla necessità della vendetta ma anche sulla proporzionalità tra il danno subito e quello inflitto al colpevole.

Naturalmente non ci si può stupire se quando questa normativa si applica non al danno patrimoniale (mi hai rubato un maiale e io ti tolgo un maiale) ma all’omicidio essa diventa drammaticamente pericolosa e può facilmente originare la faida.

Le pecore si possono contare e sostituire con altre.

Ma il dolore provocato con l’uccisione di un essere umano è tendenzialmente incalcolabile e non basta a giustificarlo che quell’uomo fosse a sua volta colpevole di omicidio.

Non avendo più una base economicamente riscontrabile ed essendo la vendetta comunque un dovere nessuno potrà sfuggire alla catena dell’odio che si genera successivamente.

Ce lo grida, piena di dolore, la madre dell’ucciso.

Nessuna pena, nessuna condanna potrà minimamente equipararsi a quello che essa sta in quel momento provando.

Inoltre pensa, e non può non pensarlo, che quel condannato otterrà certamente qualche sconto di pena.

Ed inoltre che avrà, pur in prigionia, qualche momento di serenità se non di gioia. Momenti che a lei sono, ormai per sempre, negati.

Invocherebbe, se potesse, la pena di morte.

Scoprirebbe, però, che neanche quella soluzione sarebbe certamente paritaria e parificante.

Sarebbe certamente “la norma di chiusura” ma non garantirebbe affatto che la madre dell’assassino si trovi a soffrire quanto lei.

E nemmeno, paradossalmente, che l’uccisore viva la pena con la stessa sofferenza con cui suo figlio ha vissuto l’uccisione.

Nel campo del dolore umano non vi è certezza di misura.

Ciò che è tuttavia veramente preoccupante è che oggi questo tipo di dolorosa riflessione viene paradossalmente richiesto dal sistema di comunicazione sia sul versante televisivo che su quello dei social.

Le persone escono dall’Aula di Giustizia per essere assalite da individui (che non chiamerò persone) che pretendono insistentemente da loro una valutazione soggettiva della sentenza o comunque una espressione di aspettative.

Inevitabilmente prevale la non commensurabilità tra il dolore vissuto personalmente e la pena che potrà essere effettivamente applicata al colpevole.

Si assiste dunque a manifestazioni di soddisfazione e gioia per ogni ergastolo irrogato e alla richiesta, sostenuta anche da qualche esponente politico, di “pene esemplari” che avrebbero lo scopo di indurre altri potenziali colpevoli a rinunciare alla loro futura azione delittuosa.

Di tutta evidenza si tratta di atteggiamenti ed espressioni che assumono un loro peso soltanto in virtù del sistema comunicativo che le richiede e le trasmette.

Questo tipo di reazioni vengono sollecitate perché si ritiene che, nella loro semplicità, saranno fortemente trasmettibili e condivisibili dai possibili spettatori.

Il dolore può essere profondissimo ma è sempre drammaticamente banale.

Nella loro potente cultura i Romani distinguevano tra “luctus iustus” e “luctus iniustus”.

Il primo è quello di chi soffre una perdita inserita comunque nel percorso naturale, come il figlio che vede morire il padre.

Il secondo appartiene a chi vive il cammino contrario.

Nessun padre potrà mai considerare iustus il dolore per la morte del figlio che sfugge persino alla legge di natura.

Ma la banalità è l’anima della comunicazione che oggi ci circonda.

Essa confonde deliberatamente la forza di un sentimento con i valori e i contenuti che esso trasmette.

Naturalmente tutto questo nulla ha a che fare con la Giustizia che può essere esplicata durante la vita terrena.

Essa deve essere il più estesa possibile e deve prendere in considerazione in ogni caso il maggior numero possibile di fattori.

Non può e non deve trarre piacere o soddisfazione dall’esercizio del potere che le abbiamo di comune accordo concesso.

Una punizione irrogata non è una vittoria.

Al contrario l’insieme complesso che contiene al suo interno sia il reato che la pena, è comunque una sconfitta.

Sarà difficile opporsi alla comunicazione isterizzante in cui siamo immersi.

Ma sarà anche bene ricordarsi che se ci facciamo sconfiggere ci resterà solo il vecchio codice barbaricino.

Dovremmo allora eleggere, comunità per comunità, un collegio dei balentes che sarà chiamato a valutare ogni caso di applicazione del codice.

E, sinceramente, non mi pare che oggi di balentes ce ne siano molti in giro.


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