Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.
Al ristorante di Campello sul Clitunno
L’oste era naturalmente un amico di Arduino, gli altri lo capirono dalla familiarità affettuosa con cui li accolse. Si sedettero sul tavolo che preparò loro sul piccolo terrazzino che dava sull’acqua. Si sentirono a disagio, non erano turisti, erano in viaggio per raggiungere casa con tratti di clandestinità, quel pranzo in quella località amena era fuori posto. Però non potevano essere scortesi con il ritrovato amico di Silvio. Pensarono che dovevano trovare il modo per non farla durare più del dovuto la sosta. Quel giorno l’oste aveva preparato polenta con salsicce e un dolce fatto con farina di castagne che chiamavano il castagnaccio. Portò tutto, insieme ad una caraffa di vino rosso locale. Presero a mangiare quel ben di Dio inaspettato, non avevano messo in conto una cosa del genere all’inizio del viaggio. La gavetta dei soldati e dei muratori era stato il loro orizzonte alimentare, e ora lì in quell’ambiente, con lo sciabordio dell’acqua sotto di loro, provocato dal moto dalle zampe delle anatre che, per antico costume, nel vedere la terrazza occupata da umani intenti a banchettare, si facevano sotto per reclamare democraticamente una parte del cibo. Si, Arduino aveva proprio esagerato a portarli in quel posto. Lui si avvide del loro stato d’animo e per mitigare la cosa disse ridendo: “che vi credete? Questo pranzo oggi qui è un’eccezione fortuita, perché non abbiamo trovato in casa mia moglie Rosa, ché altrimenti il pasto vi sarebbe costato alcune ore di lavoro nei campi”. Rise ma tanto bastò a rendere l’atmosfera meno ingessata. Parole ancora tra loro, di un tempo che volgeva al termine e preludeva al commiato. Da dove erano, la strada accanto era al di fuori della vista, ma si sentiva il transito discreto di mezzi e persone. Qualcuno entrò nella locanda, per un ristoro, un boccone, un bicchiere e via. Nessun altro oltre loro a desinare comodamente seduti. Arduino, rivolto a Silvio, ragionò sul modo migliore per riprendere il viaggio.
Campello aveva una stazione ferroviaria, ma secondaria, ci si fermavano pochi treni, soprattutto merci. Per quelli per viaggiatori si trattava di mettersi ad aspettare, anche ore. Poi gli venne in mente che lì accanto, a circa un chilometro, nel paese di Pissignano, si teneva quel giorno come ogni mese, un mercatino. Un tempo, appuntamento frequentato da tanta gente della vallata intorno e delle città fino a Perugia. Ora ridottosi molto per la guerra, ma comunque presente. Esponevano la merce, gente locale ma anche di fuori, forse non sarebbe stato difficile trovare un passaggio alla volta di Foligno su uno dei camioncini con cui quelli portavano la merce, alcuni anche dalle Marche. Probabilmente a breve quell’appuntamento mensile si sarebbe interrotto per gli sviluppi della guerra sul suolo nazionale, ma intanto per quel mese di ottobre ancora c’era. Saluti, promesse di non perdersi tra Silvio e Arduino e andarono.
Davide gettò un ultimo sguardo a quel luogo incantato, uno stato d’animo di languore lo pervase, un’emozione forte che cercava un riferimento, una condivisione. Arrivò, con l’immagine fugace della ragazza del casolare. L’aveva intravista solo un attimo dietro i vetri della finestra, prima che si ritraesse nel buio della camera, ne sentiva ancora il sapore delle labbra sulle sue. Era bastato per risentirla ora accanto a sé. Si vide nel tepore di una sera d’estate, scendere con lei dalla scaletta che conduceva alla barca, ormeggiata sotto la locanda. Da lì, remando, su un isolotto poco prima del termine del lago e l’inizio del fiume, sotto le fronde di un salice. Tenerezze, parole, trasalimenti, per poi, dopo un tempo infinito, tornare. Ma la barca non ne volle sapere e prese a seguire il corso del Clitunno, per non tornare indietro, per non far finire il sogno.
Si scosse e si chiese quasi con rabbia cosa fosse quella fantasia assurda che gli era piombata addosso! Che c’entrava dopo l’incontro notturno con Lisa? Aveva già dimenticato tutto? Non era più vero niente di quanto si era detto? La riflessione gli rovinò l’emozione nella quale era in procinto di crogiolarsi per gli attimi che sarebbero intercorsi prima di riprendere il viaggio: “era bene così” si disse. Cos’era quella melensaggine da libro cuore? Assurdo, da cancellare! Però pervicacemente l’immagine della ragazza tornava. Non era dunque vero che l’incontro di Strettura lo aveva fatto incamminare sulla strada della maturità? Quella percezione che aveva elaborato di un rapporto d’amore dove la corporeità e l’anima si amalgamavano in qualcosa di nuovo e definitivo, non più emozione di un momento. Quale la molla che faceva scivolare la mente in quelle fantasie puerili? Ancora la tempesta ormonale dell’adolescenza? L’avvenenza della lei di turno? Un gioco, la fugacità dell’incontro, che altro? Impossibile saperlo, ma il non comprendere, aumentava la fascinazione del sogno. Forse le cose comprese, svelate, entrando nel dominio della ragione, diventano qualcosa di definito, di immutabile. Quella fantasia, le fantasie, appartengono all’indefinito, al possibile, mai raggiungibile: per questo ci seducono. Diventiamo grandi, maturi, responsabili. Facciamo incontri e scelte costruttive, sapienziali, ma rimane la voglia di perdersi nell’indefinito, nel caso, sino alla rovina.
Pissignano era lì accanto, nemmeno un chilometro. Ai lati della strada, camioncini e carri, da cui i commercianti avevano tirato giù la mercanzia. Pochi i mezzi di trasporto e scarsa la mercanzia, i tempi non prevedevano grande concorso di gente. Era già un miracolo che si potesse continuare ad aprire il mercato. Dunque gente, non molta, a girare davanti all’offerta di cose e attrezzi per la campagna, scale, zappe, falci, segacci, fiscoli per il trattamento delle olive. Era stagione di raccolta dei frutti e di lavoro sulla terra prima del riposo invernale. Esposte anche cianfrusaglie varie, qualche capo di abbigliamento usato e riciclato, qualche derrata alimentare. Una pattuglia di carabinieri, tre in tutto, giravano tra i banchi per controllare ed esigere la tassa che il comune metteva per l’occupazione del suolo. Era una funzione che avevano sempre svolto i vigili urbani, ma di costoro non c’era più traccia, forse arruolati nei vari fronti di guerra. Per l’ordine pubblico e altre funzioni rimanevano i carabinieri, l’unico presidio certo nel volgere degli avvenimenti della storia. I nostri, discreti, guardinghi, giravano, per individuare dal dialetto e dalle targhe, il mezzo che verosimilmente, a fiera finita, si sarebbe diretto verso Foligno. Sembrò loro di averlo individuato in un autocarro con targa MC che stava per Macerata, la provincia marchigiana, il cui territorio confinava con la zona montana di Foligno. D’altra parte il commerciante, nel parlare con i rari clienti, pronunciava l’immancabile g al posto della c di quel dialetto. Era anche solo, se avesse acconsentito, ci sarebbero entrati tutti nel camioncino. Rinfrancati dalla possibilità di un passaggio per andare avanti nel viaggio, contenti e pieni di speranza nell’assenso del commerciante alla loro richiesta, aspettavano il momento opportuno per poterci parlare, magari dopo avergli acquistato qualcosa.
D’improvviso si sentì un rumore di scarponi che impetuosamente scendevano dalla montagna soprastante, incombente sul paese.
Il rumore dei passi si accompagnò ad un crescendo di un vociare come di gente che si dava la carica per la cosa che si accingevano a compiere. Comparvero una ventina di uomini con le armi in pugno. Costoro, rivolti ai carabinieri, intimarono loro di deporre le armi e consegnarle. Uno di questi abbozzò la mossa di sfilare il moschetto dalla spalla per imbracciarlo contro coloro che apparivano banditi, così una circolare delle autorità aveva definito i gruppi di uomini che si andavano raccogliendo sulle montagne, nelle settimane successive all’armistizio. Erano renitenti alla leva, reduci e sbandati dai fronti di guerra, impossibilitati a tornare a casa, c’erano appartenenti ai partiti anti-regime che passavano alla lotta armata, oltre a idealisti e avventurieri sedotti dal desiderio di esserci nella rivoluzione sociale e politica che si annunciava.
Su quelle montagne, in particolare nel folignate c’erano anche slavi, fuggiti dai campi di concentramento di Colfiorito dopo l’otto settembre, più usi alle armi e alle azioni di guerra, con tratti di giustizia sommaria negli scontri a loro favore.
Ma queste cose si sarebbero viste nei mesi successivi, per intanto era un procacciarsi le armi, magari con assalti alle stazioni dei carabinieri, per poi nascondersi in montagna in attesa del coordinamento da parte del comitato nazionale di liberazione, che si era formato dopo l’otto settembre, in sinergia con il governo monarchico di Badoglio e con gli alleati. Movimento per una lotta armata contro i tedeschi e le forze armate della Repubblica di Salò. Nell’ambito del conflitto mondiale scoppiava così anche la guerra civile in Italia tra opposte fazioni, nel solco della tradizione nazionale. Uno dei carabinieri dunque, prendendo il moschetto che teneva sulla spalla, abbozzò un tentativo di reazione, subito abortito per la determinazione di uno di quelli. Colui, che appariva il capo del gruppo, sparò in alto come intimidazione e il carabiniere desistette.
Furono circondati, spogliati delle armi e accompagnati nella vicina caserma per prelevare munizioni e altre armi se le avessero trovate. La gente e i nostri rimasero immobili e non successe niente a nessuno. Solo l’ultimo banco che ospitava tra le cianfrusaglie una testa di Mussolini fu attenzionato con il sequestro dei pochi guadagni della giornata. Poco dopo, si vide la banda riprendere i sentieri della montagna con il bottino. Passato il momento di sorpresa e timore la gente dileguò e i banchi furono ritirati. Il mercato per quella mattina terminava, era prudente per tutti allontanarsi di lì.
Chi poteva sapere se sarebbero venuti altri militi per un’azione di rappresaglia? Anche i nostri pensarono di allontanarsi, misero da parte il progetto di un passaggio a bordo di un autocarro.
Gli espositori stavano tutti smobilitando, mostravano di aver fretta di andarsene, per il timore di sviluppi pericolosi. Loro andarono verso il fiume che scorreva sotto la strada. Vi si arrivava, scendendo un sentiero che passava nei pressi di un tempietto antico, grande poco più di una cappella, perfetto in ogni sua parte. Si presentava come un tempio romano in miniatura con colonne in stile corinzio.
Di fatto un sacello romano trasformato in chiesa nel periodo paleocristiano intorno al V secolo d.C. Il materiale da precedenti costruzioni pagane. Poggiava su un basamento preesistente, sopra al quale era stato eretto un portale, da cui il passaggio alla cella, chiusa dietro dall’abside. Le colonne che formavano il pronao, scanalate e a spirale, sorreggevano la trabeazione e il frontone con, in caratteri quadrati, citazioni del Vangelo. Il Dio cristiano sostituiva il dio Clitunno, nume tutelare del fiume che scorreva in quel tratto di campagna.
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Commenti
2 risposte a “IL VIAGGIO, 28esima puntata”
Il 27 capitolo è dominato soprattutto dalla descrizione della bellezza della natura.
Infonde pace tanto da far dimenticare ai viandanti tutto ciò che di brutto sta accadendo.
Dolci pensieri rapiscono i tre uomini…….
In questo 28 racconto del viaggio, ritorna la paura del momento che si sta vivendo.
L 8 settembre con l’armistizio, inizia a dare uno scenario diverso.
All’improvviso lo scenario cambia e la paura incombe suo personaggi del racconto.