Il 2 settembre si è aperto il nuovo anno scolastico e tra il 5 e il 16 entreranno a scuola gli studenti di tutte le regioni italiane. Un esercito: 8 milioni di studenti, 860mila docenti di cui 250mila supplenti, 200mila ATA. Contrariamente a quanto ci si poteva attendere dalle vivaci discussioni svoltesi lungo il corso del precedente anno sugli argomenti che più appassionano l’opinione pubblica – il bullismo, le irriverenze e le violenze contro i professori, l’uso del cellulare in classe – sembra trattarsi di un inizio molto tranquillo.
Non è strano, perché in fondo l’andamento è quello di sempre, ciò che, mentre rende sicuro e irrinunciabile il sacrosanto diritto alla lamentela per ciò che non va e quello di fare il meno possibile, “tanto non cambia niente”, rende anche più pregevole e preziosa l’opera dei tanti, dirigenti e docenti, che sanno quello che fanno e lo fanno per questo con il massino di dedizione, salvando così alla fine i diritti sostanziali degli studenti e la stessa dignità della scuola pubblica. In fondo una sicurezza, l’impronta italiana (ahimè!) non viene scalfita: la scuola resta una non-priorità, per la società come per il governo.
Insomma, l’andamento è quello di sempre. E non solo perché – appunto come sempre – ci saranno tanti docenti precari e in tante scuole mancherà il dirigente titolare, ma perché le novità, che pure ci sono e alcune delle quali continueranno a far discutere come da consuetudine (come il divieto del cellulare nelle scuole del primo ciclo e il ritorno dell’amato diario) non incideranno sull’essenziale, che è e resta l’idea di scuola nell’era digitale e dell’IA, del mondo globalizzato e policentrico, dell’integrazione europea e della cittadinanza multipla. Non inciderà nemmeno quella, lo vedremo dopo, che sulla carta potrebbe sembrare piuttosto promettente.
Le 30 ore di formazione incentivata per i docenti che prestano opera di collaborazione e di supporto non hanno nemmeno il più leggero odore di una carriera che da sempre al personale della scuola è stata negata, forse l’esempio più fulgido di un sovietismo di sistema che stenta a morire. Qualcuno poi pensa davvero che il divieto di uso anche didattico degli smartphone in classe possa di per sé permettere di affrontare il problema dell’attenzione, della partecipazione e dell’interesse allo studio degli studenti più giovani senza ben altre necessarie condizioni relative alla qualità del corpo docente e al clima di scuola?
E quale effetto sostanziale di educazione alla complessità della cittadinanza contemporanea potrà mai avere la nuova educazione civica con al centro il concetto semplificato di patria, fatto salvo ovviamente il suo intrinseco valore, quando tutto il contesto recita improvvisazione, indeterminazione, materia e non strategia, peraltro frutto di ritagli di tempo sottratto ad altre materie?! A meno che non si voglia generare una tensione identitaria in senso sovranista. Ma, lo confesso, questo è sicuramente un cattivissimo ed esagerato retropensiero.
Tralascio la novità del cosiddetto “capolavoro”. Spero che la lettura giornalistica sia riduttiva e che l’idea abbia uno spessore educativo di un qualche valore, ma che bisogno c’era di introdurre un momento speciale di riflessione quando è il percorso stesso degli studi che dovrebbe tradursi alla fine in una dimostrabile capacità di riflessione da verificare appunto con l’esame in quanto tale? Risulta che l’idea sia venuta dall’INDIRE, istituto serio, per cui, al posto di un giudizio tranchant, per ora forse è il caso di tenersi al livello di perplessità in attesa di vedere come potrà funzionare nella pratica.
Altri cambiamenti sulla carta potrebbero essere visti, al contrario di quanto detto finora, come novità positive, capaci di incidere sul sistema, almeno in una sua parte importante, quella della formazione tecnica e professionale in rapporto al mondo della produzione e del lavoro. È l’entrata in vigore del 4+2 per i tecnici e i professionali che decidono di aderirvi: 4 anni invece di 5, per proseguire poi nei 2 anni degli ITS e diventare tecnico superiore, percorso alternativo a licei e università.
Riforma sulla carta appunto molto ambiziosa, invece nella realtà qualcosa che somiglia molto ad un’idea piuttosto vaga di nuovo percorso di studi e comunque un provvedimento per gran parte dell’Italia del tutto impraticabile. Come si può infatti fare obbligatoriamente in 4 anni quello che prima facevi in 5 anni?
Non si può: pretesa assurda, se non riorganizzi contenuti e metodi, ciò che appunto non è previsto se non, com’è ovvio, con l’arte di arrangiarsi (e che c’è di più italiano di affidare le riforme all’arte di arrangiarsi?!). Va anche aggiunto, ed è cosa di rilievo assoluto, che se non abiti nelle grandi città o nelle città capoluogo, come puoi proseguire gli studi, dopo i 4 anni di scuola superiore nei 2 anni degli ITS, se per raggiungere un ITS devi fare anche 80 o 100 chilometri?
Ma che la scuola nel breve/medio periodo non cambierà e probabilmente resterà ad impronta decisamente italiana (ahimè!) è assicurato da due questioni che ci dicono più di altre come la politica considera la scuola: la vicenda dello ius scholae/ius soli e l’istituzione di una commissione per la revisione delle “Indicazioni nazionali”.
La prima questione ha visto impegnata la politica per settimane durante quasi tutta l’estate e per un momento è sembrata potersi concludere positivamente la lunga vicenda della cittadinanza ai minori stranieri, vista anche l’apertura allo ius scholae del segretario nazionale di FI Antonio Tajani. Ma era solo una schermaglia, una folata estiva, una pizzicatura tra le forze di maggioranza e una riconferma, indiretta ma sicura, che alla prova di realtà non c’è argomento che possa sfuggire oggi alla logica della polarizzazione che tutto arrossa e tutto poi sbiadisce e immiserisce.
In verità, va detto con convinzione, quale percorso potrebbe essere migliore di quello scolastico per diventare cittadini italiani?! Perché la cittadinanza in una società democratica e aperta è un fattore dinamico, si può acquisire, è inclusione di culture diverse, è crescita. Per questo però la cosa grave, più che la riduzione di una battaglia seria, e addirittura con valore di destino nazionale, a schermaglia interpartitica agostana, è che nessuno si è chiesto in quale scuola dovrebbe svolgersi questo compito essenziale della formazione dei nuovi cittadini non italiani insieme a quelli italiani. Eppure già frequentano le nostre scuole più di 900mila bambini stranieri e molti altri ne arriveranno perché avremo bisogno di quote consistenti di immigrati regolari.
Qualcuno si è posto il problema (ce lo ha ricordato qualche giorno fa Angelo Panebianco) che a suo tempo si pose Giovanni Sartori (che aveva ben presente la problematicità sia dell’esperienza francese che di quella inglese) di che cosa significa pluralismo al posto di multiculturalismo nelle strategie di cittadinanza?
Come dire sale della democrazia (valori universali: uguaglianza di fronte alla legge, libertà individuali, ecc.) contro la sua negazione (sotto-società chiuse e non comunicanti)?
Non porsi il problema vuol dire anche non preoccuparsi di avere docenti (tutti) formati per gestire strategie educative di cittadinanza conformi alla cultura universalistica occidentale e alla nostra Costituzione, e non pare cosa di poco conto.
Veniamo brevemente ora alla seconda questione, la commissione per la revisione delle “Indicazioni nazionali”. Ecco, questa è una di quelle operazioni che potrebbero incidere profondamente non su aspetti marginali ma su quelli davvero importanti, di metodo e di contenuto, cioè sull’idea stessa di scuola. Ebbene, la decisione istitutiva è avvenuta alla chetichella e i lavori procedono senza che se ne sappia quasi nulla. Si sa solo che la commissione è composta quasi esclusivamente di pedagogisti e che ad essa sono affiancate altre commissioni di esperti per materia. Si sa anche che il riferimento culturale fondamentale è Ernesto Galli della Loggia.
Nulla quaestio su questo ovviamente. Ma se il tema è quello della revisione dei programmi (pare con particolare attenzione alla storia) per una loro intelligente attualizzazione e un adeguamento alle odierne esigenze formative, e non semplicemente una loro italianizzazione, allora sarà bene rendere da subito pubblica la discussione man mano che le cose vanno avanti. Se si vuole che la scuola sia davvero il rispecchiamento di una società aperta che sta costruendo il suo futuro. Sennò siamo alla solita e peggiorativa operazione di riforma all’italiana, quella che non riforma niente o che, peggio, peggiora tutto.
Considerazioni di un pessimista cosmico? No, esattamente il contrario, tenere vivo lo sguardo sulla realtà perché almeno una voce, anche se flebile, avvisi che nessuno spacci per cambiamento significativo all’altezza delle necessità alcuni pannicelli caldi e oscure intenzioni di riforma, e perché non muoia la speranza di avere una scuola che, lungi dal rinsecchirsi in chiusure sovraniste, assuma finalmente un ruolo strategico per il futuro dell’Italia in un’Europa consapevole a sua volta del suo compito storico nel mondo diventato multipolare.
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