Sulla sede dell’Onu a New York sono scolpiti questi versi: “Oh, tu che non ti curi del dolore altrui, certo non meriti di essere chiamato uomo”. Li ha scritti nel 1200 il grande poeta persiano Saadi nel poema Glestan.
Perché la cultura persiana è antica, antichissima. Come la sua storia.
Una storia dove la poesia è sempre stata vita quotidiana e collante di tutti gli strati sociali. Una poesia che oggi si recita col sangue. La repressione e la brutalità del regime di Khamenei sono aberranti. Quelle impiccagioni a noi occidentali sembra di tornare nel Medioevo, ma i proiettili sparati dalla polizia per reprimere le manifestazioni che si susseguono da 5 mesi a questa parte, sono moderni, modernissimi.
Farian Sabahi, scrittrice, giornalista e docente universitaria, nel suo libro “Noi donne di Teheran” ci racconta questi mesi di martirio che hanno i giovani protagonisti e vittime. Sappiamo che la miccia è il 16 settembre di quest’anno quando Mahsa Amini viene arrestata Teheran e poi uccisa perché una ciocca di capelli usciva dal velo. Scoppiano le proteste nella capitale, sappiamo che muoiono altre ragazze. Farian Sabahi ci racconta di Nika Shakarami e Sarina Esmailzadeh.
A Karaj , a est della capitale, le forze di sicurezza uccidono la sedicenne Sarina Esmailzadeh. Gli arresti non si contano.
Il 7 febbraio una coppia iranianaè stata condannata a 10 anni di carcere dopo aver pubblicato un video in cui i due ballano per strada. Astiazh Haqiqi, 21 anni, e il suo fidanzato, Amir Mohammad Ahmadi, 22 anni, sono accusati di “promozione della corruzione e della prostituzione, collusione contro la sicurezza nazionale e propaganda contro il sistema”.
La coppia non ha indicato un collegamento tra il ballo e le proteste in corso in Iran, ma il regime considera comunque il video una sfida alle sue rigide regole.
Secondo Human Rights Activists News Agency negli ultimi 4 mesi sono stati messi in carcere più di 20 mila persone. Alle donne infatti si sono aggiunti i ragazzi, poi le madri, i padri perché i contestatori, tutti giovanissimi, vengono impiccati “per aver offeso Hallah”, come se chiedere la libertà fosse un insulto al dio islamico che i musulmani stessi chiamano “il misericordioso”.
I giovani iraniani vogliono libertà, ma contestano anche la mala gestione della cosa pubblica e sono preoccupati per la disoccupazione e l’inflazione galoppante.
Adesso il leader supremo dell’Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, ha promulgato un decreto per liberarne decine di migliaia per commemorare la rivoluzione del 1979. Ma anche perché – scrive Sabahi – quelle di questi mesi sono state “le manifestazioni più importanti dall’istituzione della repubblica islamica all’indomani della rivoluzione del 1979, diverse da quelle degli anni scorsi per portata, significato, istanze”.
La causa del risentimento di tanti iraniani non è solo l’obbligo del velo (“il foulard che copre i capelli è la punta dell’iceberg di un sistema che maltratta le donne”) quanto “l’approccio violento delle autorità – nelle loro diverse declinazioni – nei confronti dei cittadini che vorrebbero poter scegliere liberamente”.
Farian ci spiega che “la violenza sistematica delle forze dell’ordine è la prova della perdita di legittimità di un sistema politico corrotto , che non ha altra scelta se non la repressione che l’allontana sempre più dai suoi giovani e dal suo popolo”.
Il velo è un simbolo, ma in Iran è soprattutto un obbligo imposto dall’Aytollah Khomeini all’indomani dell’istituzione della repubblica islamica del 1979. “Insieme allo slogan <morte all’America> – spiega Sabahi – è uno dei pilastri ideologici del sistema politico. Abolirne l’obbligo vorrebbe dire togliere una colonna portante di tutta la costruzione ideologica su cui si regge il potere degli ayatollah, e di questi tempi soprattutto dei pasdaran”, la guardia rivoluzionaria arricchita e corrotta, che di fatto ha preso le redini del potere.
“L’obbligo del velo – continua Farian Sabahi – sta alla repubblica islamica come il muro di Berlino stava al comunismo: tolto l’obbligo del velo potrebbe crollare tutto il sistema politico”.
Le proteste di questi mesi , a differenza del passato, non sono solo nelle grandi città o concentrate in determinati quartieri e questo rende più complicata la repressione. Non hanno leader e sono prive di coordinamento. Se da una parte questa è una debolezza per il movimento, dall’altra è un punto di forza: non ci sono leadership da decapitare come le altre volte. Le rivolte sono diffuse e organizzate con il passaparola: WhatsApp e Instagram sono bloccati (però i maggiorenti al potere li usano, eccome). Ma si va avanti lo stesso. Dal’altra parte nel 1979 internet non esisteva.
Farian Sabahi alla fine del suo libro intervista Shirin Ebadi, nel 2003 premio Nobel per la pace “per il suo impegno – si legge nella motivazione – nella difesa dei diritti umani e a favore dalla democrazia”. Prima donna iraniana e prima donna musulmana ad essere insignita di un Nobel, magistrato costretta a lasciare il lavoro dopo la rivoluzione degli ayatollah . Continua la sua lotta da Londra (in Iran l’avrebbero incarcerata) e fa una sacrosanta riflessione: l’Iran è “un paese grande cinque volte l’Italia, con una popolazione di quasi 80 milioni di abitanti. Un gigante che ha paura delle sue minoranze e delle sue donne”.
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