IL VIAGGIO, 29esima puntata

Roma, Ottobre 43. Due uomini decidono di intraprendere un viaggio per tornare al loro paese in Umbria. E’ tempo di guerra, gli alleati risalgono da sud, i tedeschi invadono da nord. Nasce la Repubblica di Salò, il viaggio presenta insidie.

Il treno alla stazione di Campello

Ma non era il momento, né c’era lo stato d’animo adatto per ammirare l’armonia architettonica del monumento. Però la sacralità del luogo, ad un tempo pagana e cristiana, placò in loro il turbamento causato dal trambusto di prima. Seduti sulle pietre del basamento, con la schiena poggiata alle colonne, ragionarono sulla loro situazione e su quella generale. Si dissero che con il conflitto civile prossimo e il fronte della guerra che l’avanzata alleata stava facendo avvicinare al centro della penisola, nessuno era più al sicuro, né loro in viaggio, né quelli a casa, dei quali infatti avevano avuto notizia che si stessero rifugiando in montagna. Sarebbero aumentate le incursioni aeree e i colpi dell’artiglieria, in preparazione dello scontro frontale delle truppe. E per quanto riguardava l’azione dei partigiani, il comandante in capo delle truppe tedesche, Kesserling, aveva emanato un proclama diretto alla popolazione per dissuadere dall’appoggio ai ribelli. Altrimenti ci sarebbero state rappresaglie come da leggi di guerra. Convennero che d’ora in poi il viaggio doveva essere ancora più prudente. Decisero di rimanere nel tempietto sino al calare delle tenebre e poi di tornare alla stazione di Campello. Arduino aveva parlato di treni merci che facevano sosta lì, poteva essere il mezzo adatto per proseguire. Era ancora giorno in quella stagione, il sole tramontava intorno alle diciotto, si trattava di aspettare. Oltre Campello il mondo era scuro di nuvole minacciose. Avrebbero fatto cadere acqua di lì a poco, l’aria intrisa di umidità l’annunciava. Ma ad Occidente, verso i monti Martani filtravano tra le nuvole i raggi del sole. Illuminavano le case di Montefalco, il paese che da quel lato dominava la pianura.

Ci andava Federico bambino, da quando Costanza d’Altavilla aveva deciso di fargli trascorrere la fanciullezza a Foligno, per preservarlo dalle insidie della corte. E furono scorribande del futuro imperatore per i vicoli che diramavano da piazza dell’Erba dove abitava in una delle case dei Trinci. E poi su a Montefalco per la caccia con il falco, da cui il nome del paese. L’aver ospitato i giochi di un imperatore spiega come per illustrare la vita di Francesco negli affreschi della cattedrale avessero chiamato il pittore toscano Benozzo Gozzoli e il Perugino, che apparivano un lusso per quella comunità periferica, ma i soli adatti per quella comunità che aveva avuto un ospite tanto illustre.

Fuori del paese intravedevano un grande cantiere. Ne avevano dato notizia i giornali. Si trattava del punto di arrivo di un nuovo acquedotto che prendeva l’acqua dalle sorgenti del fiume Menotre sulla montagna folignate in località Rasiglia, accanto all’antica chiesa di S. Maria delle Grazie, luogo di devozione e fonte di miracoli, da cui il nome della Chiesa. L’acqua prelevata correva giù nei condotti sino alla vallata per poi risalire e raccogliersi in un raccoglitore sopraelevato a forma di fungo fuori le mura del paese. Da lì scendeva l’acqua, giù lungo la vallata, a rifornire le case e i campi degli uomini, nelle città e nei paesi. Ma gli eventi bellici avevano fermato il cantiere, se ne sarebbe riparlato alla fine del conflitto.

Scendeva a tratti la pioggia, com’è nelle giornate di ottobre, loro se ne stavano in silenzio, ognuno come aggrappato alla propria colonna. Un bisogno di riposo, di protezione, di ritorno a Camelot. Quei momenti in cui la mente si libera delle strutture razionali e vaga in un vuoto che prelude ad un disagio che diventerà noia. Se si ha il coraggio di non cedere all’impulso di opporsi, con l’intraprendere qualcosa, qualsiasi, che ci sottragga al vuoto, e che si rivelerebbe ancora più destruente, si perviene ad uno stato di grazia.

La nostra individualità è come si sciogliesse nel circostante per vie misteriose che coinvolgono i sensi e ti fanno sentire parte del tutto. È esperienza mistica, religiosa, rimanda al magma primordiale, prima della creazione dei mondi e della vita. Racconta di un nuovo inizio, di energia che non è ancora diventata materia. Per loro, lì, e in quel momento, fu sentirsi acqua del Clitunno, pioggia dal cielo, luce dal sole, nuvole, voce degli uccelli del lago, un tutto in cui dissolversi, per riconoscersi, per ritrovare l’energia primordiale che si solidificherà nella materia transeunte, destinata a morire.

Arrivò l’ora di muoversi. Il sole era calato dietro i monti Martani, la penombra stava coprendo la valle. A breve sarebbe subentrato un buio pesto per le nuvole che coprivano il cielo e la luna, per le luci oscurate delle case al fine di mimetizzarsi ed evitare di essere bersagli dei bombardieri nelle loro missioni di morte. In tutto c’era da percorrere un chilometro, lungo un sentiero zizzagante tra la strada subito sopra, e il fiume al di sotto.

Come ovunque, i romani costruttori di strade, se il luogo consentiva, posizionavano le stesse a ridosso dei rilievi circostanti, così da renderle più stabili, permettere alla pioggia di scivolare via, e facilitarne la manutenzione. Anche lì era così. Giunsero alla meta, una fioca luce posta sopra l’ingresso del casotto da dove l’addetto regolava il movimento dei treni, illuminava la scritta: Stazione di Campello. Tutto era silenzio ed immobilità. Erano giunti lì per trovare un treno merci. Lo aveva suggerito Arduino come alternativa ad altre occasioni di trasporto. “I treni merci viaggiano di notte” aveva detto.

E aveva spiegato che era così per non ostacolare il traffico dei treni passeggeri durante il giorno. Forse era anche per ragioni di sicurezza: magari trasportavano armi o altro materiale che gli aerei alleati potevano giudicare meritevoli di attenzione. Dunque il movimento notturno dei vagoni merci si riteneva più sicuro, con l’intervallo di frequenti soste nelle stazioni che servivano a minimizzare il rischio di diventare facile bersaglio, a causa delle nuvole bianche di vapore emesse dalle locomotive in marcia nel buio della notte. Misure di difesa che si erano intensificate nelle ultime settimane da quando gli aerei alleati avevano preso a bombardare con più intensità il territorio della neonata repubblica fascista controllata dagli alleati tedeschi. L’attesa non fu lunga, dalla parte di Spoleto si approssimarono alternanti folate di vapore bianco, via via più vicine. Sibili come singhiozzi accompagnavano i getti di vapore, erano parole di una lingua incomprensibile che la locomotiva lanciava alle stelle, oltre le nuvole, nello spazio siderale dove è cominciato tutto.

Da lì è arrivato quanto è accaduto, accade, e per un tempo accadrà ancora, sulla sottile striscia di terra che chiamiamo crosta terrestre. Il destino di annientamento che ghermisce ogni cosa nell’universo mondo, e che l’uomo cerca disperatamente di eludere, lanciando l’anima verso il cielo, accomuna anche le creature inorganiche create dall’uomo. Quella sera la locomotiva sembrava averne coscienza con quel rivolgersi al cielo con la cosa che più aveva dell’anima dell’uomo: quegli sbuffi di vapore lanciati in alto, accompagnati da sibili, che erano preghiere rivolte all’assoluto mistero. Il suo corpaccione di ferro non aveva scampo. Prima e più di tutto il resto, la gravità lo avrebbe attratto verso l’inferno di fuoco che brucia sotto di noi.

E a quell’ineludibile forza satanica cerchiamo tutti di opporci guardando il cielo, da cui siamo formati, da dove veniamo. In questa lotta, in questa aspirazione disperante di ritorno, nella consapevolezza dell’inarrestabile scomparsa nel mondo inorganico, sta il nostro destino e la nostra grandezza. Il treno rallentò progressivamente sino a fermarsi. Anche gli sbuffi e i rumori sibilanti della locomotiva si attenuarono sino a scomparire. I dieci vagoni che lo costituivano andarono ad occupare un binario laterale che una ferroviere uscito dal casotto si era preoccupato di aprire, muovendo a forza con le due mani una grossa asta di ferro. A manovra avvenuta, lo scambio era stato richiuso, lasciando libero transito sul binario principale ad altri eventuali treni. Nel buio della notte intravidero scendere dalla locomotiva il macchinista e il suo aiutante, ne seguirono il movimento in direzione del casotto, sino al tratto illuminato nei pressi dell’ingresso.

La luce della lampada ne mostrò il volto sporco di carbone. Non conoscevano, i nostri, i tempi della sosta, ma di sosta doveva trattarsi. Non c’era niente intorno da dover caricare su quei vagoni, né nulla da scaricare che fosse di necessità per quelle minime comunità che abitavano la zona. La cosa li tranquillizzava, si trattava di trovare il modo di salire sul treno ed aspettare pazientemente sino a quando si fosse rimesso in movimento. Presero ad esplorare i vagoni dal lato che dava sulla campagna, il lato opposto a quello che guardava alla stazione. Così, non visti, ebbero agio di controllare attentamente le singole vetture, ma tutte si mostrarono inaccessibili, chiusi gli sportelloni e senza finestre. Anche se fossero riusciti a forzare l’entrata, probabilmente avrebbero trovato merci che occupavano tutto lo spazio, poi e soprattutto ebbero repulsione al pensiero di quel posto al buio pesto per la mancanza di qualsiasi presa di luce.

Così almeno appariva dall’esterno. Arrivarono all’ultimo vagone e notarono che questo a differenza degli altri, terminava con un accessorio al modo di un bambino che si aggrappa al genitore, un’appendice in legno, sorta di garitta cui si accedeva tramite una scaletta laterale. Davide vi salì, raggiunse una porta che dava accesso ad un vano con una panca-sedile solidarizzata alla parete posteriore, da cui si poteva guardare fuori a 180 gradi, attraverso due aperture sulle pareti laterali e una su quella anteriore. Il tutto in dimensioni ridotte. Salirono anche gli altri e constatarono che riuscivano a starci in tre, seduti sulla panca, magari un po’ stretti. Scesero ma la decisione era presa, sarebbero rimasti ad aspettare i segni di una prossima partenza a cui avrebbero fatto seguire l’occupazione della garitta.

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