SOCIAL DRAGHI

Il rapporto su “Il futuro della competitività europea” di Mario Draghi e dei suoi ricercatori, ha ricevuto molti apprezzamenti formali da tutti gli attori del mondo economico-finanziario ed anche noi ci associamo cercando di fare un plauso ragionato e quindi non formale.

Un commentatore attento come Federico Fubini del Corriere della Sera sottolinea che sono affrontati i” problemi appunto sulle tecnologie, l’educazione, l’innovazione, la demografia, la perdita relativa di reddito rispetto ai Paesi più avanzati, l’insufficienza degli investimenti e delle loro fonti, l’attitudine indifferente di una parte della società verso la crescita economica”.Ed inoltre i prezzi dell’energia,le filiere degli acquisti e la crisi geopolitica.

Le pietre di paragone e di confronto sono gli USA e la Cina come “dominus” dell’economia mondiale

Se ascoltiamo la presentazione-introduzione convegnistica del rapporto Draghi della presidente della Comunità europea Ursula von der Leyen noteremo che alla fine sottolinea che la “stella polare” dell’economia comunitaria deve essere l’”economia sociale di mercato”.

E’ una stella polare che era già sottotraccia 14 anni fa con il rapporto di Mario Monti sul “Single Market Act”.

L’economia sociale di mercato si fa con le scelte strategiche di politica “economica e macroeconomica” ovviamente correlata con le scelte economico aziendali delle imprese che sono gli attori del mercato.

La competitività fra i “sistemi ” si gioca con il ruolo delle imprese e con la “compliance” dei cittadini(il debito comune ha bisogno di coesione sociale e sussidiaria).

Nel rapporto su “Il futuro della competitività europea” si offrono scelte macro di cui però bisogna simulare l’adozione delle imprese e delle aziende.

Questo approccio sulla competitività, prevalentemente su base economico-finanziaria, mi sembra un po’ forzato, seppur realistico.

Tutti hanno sottolineato che “non si fanno le nozze con i fichi secchi”(si veda la cifra di investimenti annui di 800 miliardi) e le nozze sono officiate dalle imprese che devono entrare in una dimensione di responsabilità sociale e Csr che è ancora in fieri e presenta alcuni “venti di rivolta”(“per esempio l’ESG costa troppo;”i costi della sostenibilità sono troppo alti e i profitti nonchè la distribuzione degli utili per gli azionist-shareholders sembrano poco motivanti”).

Gli 800 miliardi potrebbero essere un alibi per tornare indietro dall’Economia sociale di mercato”.

L’economia sociale di mercato è popolata dalle imprese sociali pubbliche e private profit e non profit, formalmente organizzate che si basano su molteplici tipi di risorse e cooperazione, con ancoraggi locali e processi decisionali democratici e partecipativi.

Senza indulgere ad una concezione buonista, ma cercando di mettere a terra l’inflazione delle esortazioni alla sostenibilità cambia il paradigma dell’impresa che diventa “impresa sociale” e dell’economia che assume il valore operativo di “economia sociale” ed “economia sociale di mercato” che non può ritornare alla massimizzazione assoluta del profitto.

L’Economia sociale di mercato è nata in Germania prima della seconda guerra mondiale, con la scuola di Friburgo, poi è diventata la base del miracolo economico della Germania dopo la guerra espandendosi in Europa. Vedendo i risultati ottenuti in Germania, gli altri paesi europei, si sono convinti che convenisse farla propria.

I Trattati di Roma, di Maastricht, eccetera, hanno sancito l’utilità dell’economia sociale intesa come mercato, concorrenza, disciplina del bilancio pubblico. Ed anche l’ attenzione alla distribuzione del reddito, la lotta all’inflazione e via dicendo. Nel trattato di Lisbona si dice formalmente per la prima volta che l’Unione europea ambisce ad essere un’economia sociale di mercato.

Essa genera dal 6 all’8% del prodotto interno lordo (PIL) dell’Unione europea. E’ un motore non solo dell’attività economica, ma anche di valori normativi, come la solidarietà e l’inclusione. Concepita nel XIX secolo, si è strutturata come “economia a relazione sociale costante”. 

“ Facendo scroll” sul documento si afferma che “Su base pro capite, il reddito disponibile reale è cresciuto quasi il doppio negli Stati Uniti rispetto all’UE dal 2000.” e” Le famiglie europee hanno pagato il prezzo della perdita del tenore di vita”, ma dobbiamo anche considerare e notare come in USA(ma anche in Cina che è una dittatura)  la sicurezza sociale non si basa su un Welfare Universalistico, ma su un welfare selettivo sul reddito e sull’opportunità dei premi assicurativi ecc.(“carta di credito valida: si. Allora ti curo) e le sacche di depressione sociale e di mancanza di coesione sociale sono ampie.

L’approccio è radicalmente economicista e non si considerano palesemente interventi ed investimenti sociali come ammortizzatori.

“Se l’UE dovesse mantenere il suo tasso medio di crescita della produttività dal 2015, sarebbe sufficiente solo per mantenere il PIL costante fino al 2050…… Per digitalizzare e decarbonizzare l’economia e aumentare la nostra capacità di difesa, la quota di investimenti in Europa dovrà aumentare di circa 5 punti percentuali del PIL, fino a raggiungere i livelli visti negli anni ’60 e ’70.”, ma tutto questo si potrà fare se le imprese ed i dipendenti saranno convinti che la produttività è un loro patrimonio ed una loro ricchezza e non solo degli shareholders e degli azionisti. Perchè questo avvenga, per esempio, è necessaria la tangibile partecipazione dei dipendenti nella governance delle imprese e le scelte di welfare aziendale delle imprese (non solo quelle grandi ed internazionali, ma anche delle PMI).

E’ vero che “Tra il 2008 e il 2021, quasi il 30% degli ‘unicorni’ fondati in Europa – le startup che sono state valutate più di 1 miliardo di dollari – hanno trasferito la loro sede all’estero, la maggior parte negli Stati Uniti”, ma domandiamoci quanto pesano su queste decisioni i costi della burocrazia e della non armonizzazione fiscale fra i paesi.

“Ad esempio, sosteniamo di favorire l’innovazione, ma continuiamo ad aggiungere oneri normativi alle aziende europee, che sono particolarmente costosi per le PMI e autodistruttivi per quelle dei settori digitali.” così dice il rapporto.

Ma tutti sanno anche che questa situazione, di converso, è stata colta da alcune multinazionali per opportunismo proprio e dei paesi dove hanno basato gli headquarter.

Se si decidesse che tutte le imprese basate nella UE, devono essere sociali” sicuramente avremmo risorse per “asset” sociali che favoriscono la competitività collegata al capitale sociale di Bourdier, Coleman, Putnam ed, in parte, il premio Nobel Elinor Ostrom. 

La crescita, l’innovazione, la produttività   si ottiene “……applicando il principio di sussidiarietà in modo più rigoroso e riducendo l’onere normativo che impone alle aziende europee.” e tutto questo avviene se si struttura una filiera sussidiaria delle imprese.

Quindi il mantra della produttività è collegato anche alla formula imprenditoriale delle imprese che devono avere anche una base di socialità che evita il produttivismo e sposa la produttività. In una economia sociale di mercato.

Ma ancor più supererebbe una delle”.….. barriere che ci ostacolano. In primo luogo, all’Europa manca la concentrazione.”

Il rapporto è una ottima, competente ed approfondita disamina che non fa sconti all’economia europea; essa per risalire la china, avrebbe bisogno di un ulteriore rapporto che presidiasse l’asset sociale: magari il Social Draghi.


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