La parola chiave per capire come convivere con i processi decisionali nella società digitale
Tredici/D Lexicon Fresco di stampa
Michele Sorice
Docente di sociologia dei processi culturali presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale, Università di Roma La Sapienza
Partendo dalla teoria di Max Weber, Michele Sorice Docente di sociologia dei processi culturali presso il Dipartimento di Comunicazione e Ricerca Sociale, Università di Roma La Sapienza ripercorre il concetto di leadership dalle scienze cognitive ai social media evidenziando alcuni aspetti problematici.
29 settembre 2024
Il concetto di leadership costituisce uno degli ambiti di discussione accademica (e politica) più battuti e, per questo motivo, più controversi. Se, in epoca moderna, l’autore che per primo si è occupato in maniera scientifica e sistematica della leadership politica è stato sicuramente Max Weber, c’è tuttavia. una lunga tradizione di studi che risale addirittura ad Aristotele e giunge fino agli albori del positivismo filosofico; per certi versi persino Shakespeare (in una prospettiva diversa) offre importanti considerazioni sulla funzione e il ruolo sociale della leadership politica. Tuttavia, è nell’opera di Weber che tradizionalmente si rintracciano gli snodi concettuali originari del dibattito contemporaneo.
Weber, il potere e oltre
Per Weber, com’è noto, il funzionamento dello stato moderno è fondato sul potere razionale e legale della sua burocrazia. Senza qui entrare nell’analisi del ruolo della burocrazia nella teorizzazione weberiana, è opportuno però ricordare che per il sociologo tedesco la questione del potere (e della sua evoluzione) rappresenta un aspetto molto importante. In particolare, Weber offre una tipologia del potere che ne costituisce, di fatto, anche la sua evoluzione nel tempo (essa è, cioè, una tipologia che ha caratteri sia sincronici sia diacronici). La tipologia weberiana è notissima: essa fa riferimento all’esistenza di un potere tradizionale (che si basa sulla sua presunta sacralità), un potere carismatico (che si fonda sull’autorevolezza di soggetti socialmente riconosciuti come superiori o comunque capaci di operare in maniera “eccezionale” all’interno delle comunità umane) e, infine, un potere razionale-legale (che è teoricamente impersonale e negli stati moderni è gestito dalle burocrazie che sono gerarchizzate, specializzate e appunto impersonali).
Proprio dalla tipologia del potere, Weber deriva la sua teoria della leadership che, non a caso, si fonda proprio sul concetto di “carisma”, sebbene sia sempre necessaria la compresenza della dimensione razionale-legale e di quella carismatica[1].
L’autorità carismatica (fin troppo esaltata dagli epigoni di Weber) è quella che si fonda sul riconoscimento della superiorità di un soggetto rispetto alla collettività in cui vive e opera: essa si basa su una sorta di devozione alle capacità non comuni (in termini appunto di eroismo o santità o anche spietatezza) di un soggetto; tale devozione si traduce, per Weber, in accettazione da parte del popolo dei modelli normativi definiti dal soggetto dotato di carisma. Il carisma, allora, spesso contrasta proprio con la presenza degli apparati burocratici (il leader carismatico, infatti, trova la sua legittimazione nel ricorso al rapporto diretto con le masse che, in questo modo, diventa uno strumento alternativo di presa e mantenimento del potere). Inoltre, esso non è necessariamente positivo: molti studiosi, infatti, hanno rilevato che la definizione di leader carismatico di derivazione weberiana si applica sia a figure di dittatori (Hitler, Mussolini, eccetera) sia a politici fortemente populisti sia anche a personaggi come Gandhi o alcuni leader religiosi.
In effetti, proprio in questa ambivalenza del concetto di carisma si cela una delle maggiori difficoltà della prospettiva weberiana. Il carisma, infatti, è definito dal sociologo tedesco facendo riferimento a un insieme di qualità che il leader dovrebbe possedere; si tratta, in definitiva, di caratteristiche sostanzialmente “innate” che consentono al soggetto dotato di carisma di modificare la situazione in cui si trova e piegarla alla sua vision del mondo. Il leader dotato di carisma è, in tale accezione, naturalmente autocratico.
Proprio allo scopo di uscire dalla lunga discussione sul concetto weberiano di carisma, Luciano Cavalli, già oltre quarant’anni fa, aveva proposto la teoria della democrazia personalizzata, in cui il leader è quel soggetto capace di collocarsi sopra le diverse parti (o almeno in posizione di fatto trasversale) e al tempo stesso idoneo a curare l’interesse collettivo[2]. Sulla stessa linea di semplificazione del modello weberiano (e delle questioni teoriche a esso connesse) si era mosso Carlo Marletti[3] che – restando nel solco della tradizione weberiana – individuava nel leader tre requisiti fondamentali:
- a) l’attitudine e le doti personali che rendono efficace la leadership;
- b) la trasversalità del consenso rispetto agli schieramenti politici;
- c) il conflitto che oppone il leader agli apparati di partito e al ceto degli intermediari della politica.
Quest’ultimo aspetto costituisce uno dei tratti più interessanti del rapporto fra leadership politica e media. Il conflitto fra il leader e la “politica tradizionale” affonda le sue radici proprio nel processo di personalizzazione della politica: una delle tendenze, ormai consolidate, della comunicazione politica moderna[4].
Dalle scienze cognitive ai social media
Accanto alla prospettiva weberiana (e post-weberiana), tuttavia, sono state elaborate nel corso degli ultimi cinquant’anni molte altre teorie e modellizzazioni.
Una prima modellizzazione da citare è quella proposta da James MacGregor Burns nel 1978[5]. Burns individua cinque diversi tipi di leader:
a) opinion leader, inteso come il soggetto capace di influenzare in maniera determinante l’opinione pubblica, in un’accezione non troppo diversa da quella usata da Kurt Lewin ma vicina anche al ruolo che al leader d’opinione annettono Katz e Lazarsfeld nel loro noto modello del two step flow of communication;
b) leader burocratico, rappresentato dai soggetti che hanno un potere nei sistemi organizzativi e svolgono quindi una funzione di orientamento e controllo su altri soggetti;
c) leader di partito, espressione che racchiude in realtà una pluralità di attori politici e, più in generale, tutti quelli che ricoprono cariche politiche;
d) leader legislativo, rappresentato principalmente dal politico che tradizionalmente agiva al riparo dello sguardo pubblico ma ciononostante aveva un grande potere all’interno della sua compagine politica: si tratta di una figura che si è trasformata nel corso del tempo: le diverse figure di “consiglieri” del principe sono infatti diventati lobbisti ed esperti di relazioni pubbliche;
e) leader esecutivo, per lo più associato al re, al principe, al primo ministro, al cancelliere, quelle figure che costituiscono la “executive leadership”, forse la più vicina alla teorizzazione weberiana del leader carismatico.
In realtà Burns individua anche altri tipi di leadership, che egli definisce “trasformazionali”, dal momento che il loro elemento di maggiore importanza è rappresentato dalla capacità di promuovere un cambiamento continuo. In questo caso si possono avere:
- il leader intellettuale, capace di fornire una “vision” complessiva a un’azienda o a un’intera società;
- il leader morale o riformatore, che individua una specifica dimensione etica e su quella costruisce la sua azione;
- il leader rivoluzionario, capace di provocare cambiamenti radicali, spesso connessi anche a una forte capacità di agitare dinamiche populistiche;
- il leader carismatico, che usa il suo fascino personale (in un’accezione un po’ più semplificata di quella weberiana) per orientare la sfera pubblica.
Si noti, comunque, che la leadership trasformazionale di Burns (molto usata fra gli studiosi di marketing e di comportamento organizzativo) è in realtà decisamente connessa, nelle sue implicazioni teoriche, all’elaborazione di Weber (persino di più di quanto normalmente si pensi).
Altri approcci teorici di una certa rilevanza sono quelli che derivano dalle scienze cognitive.
Secondo la teoria transazionale (usata anche da Burns) i soggetti tendono a replicare i comportamenti di successo e a scartare quelli che hanno evidenziato lacune o fallimenti, in una sorta di processo trial and errors.
Daniel Goleman, invece, individua il potere del leader sulla sua capacità di promuovere attività e comportamenti facendo leva sulle emozioni del gruppo. In altri termini, la leadership è quella che riesce a costruire obiettivi comuni. Goleman, altro autore molto considerato fra studiosi di marketing e di comportamento psicologico nelle organizzazioni aziendali, distingue sei stili di leadership: visionario, coach, affiliativo, democratico, battistrada e autoritario. Si tratta, come nel caso della teoria della leadership trasformazionale di Burns, di approcci di tipo prevalentemente cognitivo, molto utili nella definizione di comportamenti di piccoli gruppi o di organizzazioni aziendali; sono però solo in parte utilizzabili nell’analisi della leadership politica, i cui contorni – anche teorici – appaiono molto sfuggenti.
All’inizio del XXI secolo, nel dibattito politico è tornata attuale la vecchia classificazione di Martin Conway, elaborata oltre un secolo fa (nel 1915)[6]. Conway distingueva tre tipi di leader:
- il leader trascinatore della folla, capace di orientare le grandi masse popolari su un progetto politico da egli stesso ideato e proposto;
- il leader interprete della folla, capace di esplicitare i sentimenti delle masse e, in qualche modo, persino di far sorgere – in maniera quasi maieutica – ciò che è solo latente;
- il leader rappresentante della folla, pronto a intercettare desideri e aspirazioni popolari ma solo nella misura in cui essi vengono resi espliciti.
Non esisteva ancora una scienza dei sondaggi nel 1915 e, quindi, Conway non poteva ipotizzare che in realtà la giunzione fra leader interpreti e leader rappresentanti è meno difficile di quello che all’epoca poteva apparire.
I social media – con la loro attenzione alle pratiche di following riportano al centro della riflessione sulla leadership politica proprio il legame fra leader e seguaci. Ovviamente in una modalità del tutto nuova rispetto a quella della realtà sociale e storica a cui faceva riferimento Martin Conway. Proprio a partire da Conway e in relazione allo sviluppo della prima fase dei social media si sono sviluppate nuove classificazioni, come quella che fa riferimento a tre tipi di leadership, rispettivamente incarnate dal:
- a) leader “condottiero”, che utilizza la rete per lanciare i suoi proclami e chiedere un consenso quasi fideistico, un’apertura di credito al suo progetto politico;
- b) leader “interprete”, capace di usare i social media come strumento di crescita del consenso: è un leader che ha già intercettato sentimenti e aspirazione della sua base elettorale e cerca nella rete sia uno strumento di legittimazione sia un luogo di testing della sua strategia;
- c) leader “dialogante”, che usa la rete come vera agorà politica: in questo caso, il social network è usato sia come luogo di ricerca sociale sia come spazio di confronto reale (ma si tratta, in realtà, di casi molto rari)[7].
Tutte le classificazioni più “moderne” della leadership hanno sullo sfondo la presenza dei sondaggi, dell’orientamento dell’opinione pubblica[8] e della sua stessa interpellazione (aspetto, quest’ultimo, che trova un suo sbocco nel concetto della “followership presidency”).
I problemi della leadership
Un primo aspetto problematico da segnalare è che tutte le etichette (e le definizioni teoriche) della leadership riguardano i maschi (e bianchi) e quando – raramente – si parla di donne si adotta sempre una prospettiva maschio-centrica.
Un’altra questione riguarda la connessione (forzata?) fra leadership e “retoriche partecipative”, che si è sviluppata negli ultimi anni. In molti casi, l’enfasi sui processi di “co-decisione” o sulle varie forme di “governance collaborativa” tende a evidenziare il ruolo dei facilitatori, spesso interpretati come nuovi “leader” delle comunità. Qui si realizza un cortocircuito concettuale evidente, che riduce la partecipazione a strumento; in realtà, la partecipazione è un principio politico, che si fonda sulla logica del “koinònein”, ovvero della pratica egalitaria e inclusiva della “commonality”[9]. In tale prospettiva, l’adozione del concetto (e delle pratiche) della leadership risulta del tutto fuorviante (e spesso strumentale).
Ma forse bisognerebbe porsi una domanda ancora più radicale: abbiamo sempre bisogno di leadership?
Le teorie sulla leadership (anche le più recenti) sono molto più gerarchiche di quelle della fabbrica fordista taylorista – e molto spesso persino più maschiliste. Inoltre, le diverse teorie sulla leadership hanno un tratto cruciale in comune: dividono il mondo in leader e seguaci. Com’è noto (e come abbiamo cercato di dire in queste veloci note) negli ultimi anni sono emersi nuovi aggettivi: relazionale, interlocutoria, partecipativa, persino leadership comunitaria. Ma il problema non è l’aggettivo, bensì il sostantivo: la leadership. Per non parlare di un altro evidente problema teorico: il legame tra le teorie della leadership e il mito della meritocrazia[10].
Una società realmente democratica – capace di mettersi al riparo dalle spinte totalitarie verso le nuove e raffinate forme di “democratura” – dovrebbe essere capace di favorire, semmai, una leadership “inclusiva”. Per essere realmente inclusiva, la leadership dovrebbe evidenziare alcuni caratteri:
- a) enfatizzare lo spirito di collaborazione da parte di chi ha responsabilità di gestione;
- b) valorizzare le unicità dei soggetti (e, quindi, non solo le competenze);
- c) avere la capacità di contrastare i pregiudizi (e, in generale, tutte le forme di unconscious bias);
- d) essere aperta al nuovo;
- e) adottare una pluralità di prospettive;
- f) favorire una logica di collaborazione come stile e non solo come “strumento”
e, infine,
- g) essere disponibile al confronto.
Una prospettiva di questo tipo ci consentirebbe, persino, di rifiutare il mito e la retorica della leadership, a favore di quella che Luigino Bruni ha definito “sequela reciproca” (mutual followership). Non una prospettiva ideale ma una modalità “democratica” e inclusiva e, peraltro, attestata nell’esperienza delle tante comunità di resistenza, nel passato e oggi.
[1] Max Weber, Politik als Beruf, Duncker & Humblot, München-Leipzig, 1919, 67 p. (trad. it. La scienza come professione. La politica come professione, Einaudi, Torino 2004, 164 p,); Max Weber, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie, Mohr, Tübingen, 1921-1922, XI-840 p. (trad. it. Economia e società, Milano, Edizioni di Comunità, 1974, 2 volumi: LX, 624 p e XVIII, 881 p).
[2] Luciano Cavalli, Il capo carismatico. Per una sociologia weberiana della leadership, Bologna, il Mulino, 1981,296 p.; Luciano Cavalli, Carisma e tirannide nel secolo XX. Il caso Hitler, Bologna, 1982, il Mulino, Luciano Cavalli, 274 p.; Carisma. La qualità straordinaria del leader, Roma-Bari, Laterza, 1995, 106 p.
[3] Carlo Marletti, “Leadership e comunicazione politica”, Comunicazione Politica, X, 1, gennaio-giugno 2009, pp. 61-72.
[4] In questa sede, evitiamo di discutere dell’impatto dei sistemi istituzionali ed elettorali sulla leadership politica. È tuttavia evidente che essi svolgono un ruolo non secondario nei processi di emersione delle leadership e sulla stessa legittimazione sociale della leadership.
[5] James MacGregor Burns, Leadership. New York, Harper Collins, 1978, 530 p.
[6] Martin Conway, The Crowd in Peace and War, New York, Longmans Green, 1915, 332 p.
[7] Emiliana De Blasio, Matthew Hibberd, Michael Higgins, Michele Sorice, La leadership politica. Media e costruzione del consenso, Roma, Carocci, 2012, 240 p.
[8] Il tema dell’orientamento dell’opinione pubblica era ben presente già ad Antonio Gramsci, che ne parla chiaramente nel Quaderno VII.
“Ciò che si chiama opinione pubblica è strettamente connesso con l’egemonia politica, è cioè il punto di contatto tra la società civile e la società politica, tra il consenso e la forza […]. L’opinione pubblica è il contenuto politico della volontà politica pubblica che potrebbe essere discorde: perciò esiste la lotta per il monopolio degli organi dell’opinione pubblica: giornali, partiti, Parlamento, in modo che una sola forza modelli l’opinione e quindi la volontà politica nazionale, disponendo i discorsi in un pulviscolo individuale e disorganico”.
Antonio Gramsci, Quaderni del carcere. Edizione critica dell’Istituto Gramsci, Torino. Einaudi, 2014, 3480 p. [la citazione è a p, 914].
[9] Michele Sorice, Partecipazione disconnessa. Innovazione democratica e illusione digitale al tempo del neoliberismo. Roma, Carocci, 2022, 203 p.
[10] “But the problem isn’t only that we fail to live up to the meritocratic principles we proclaim. The ideal itself is flawed. It has a dark side. Meritocracy is corrosive of the common good. It leads to hubris among the winners and humiliation among those who lose out. It encourages the successful to inhale too deeply of their success, to forget the luck and good fortune that helped them on their way. And it leads them to look down on those less fortunate, less credentialed than themselves. This matters for politics. One of the most potent sources of the populous backlash is the sense among many working people that elites look down on them. It’s a legitimate complaint”. Michael Sandel, professor of Political Philosophy at University of Harvard. The Tiranny of Merit. In:
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