LA COPPIA GRAMSCI-BOTTAI

Podcast n. 115 – Il Mondo Nuovo – 5.10.2024

La coppia Gramsci-Bottai alla riscossa

A margine del saggio “Gramsci è vivo” di Alessandro Giuli.

Versione scritta

Il tema di Fratelli d’Italia al governo resta quello di stringere l’identità politica italiana nella dialettica Destra e Sinistra (a differenza della linea ancora maggioritaria in Europa). A volte questo serve per fare a pugni e galvanizzare le parti. Altre volte si torna a invocare la “pacificazione” attraverso il messaggio dell’affratellamento patriottico. L’età del riformismo e del dialogo dei riformatori (socialisti, cattolici, liberaldemocratici, radicali) per baricentrare e europeizzare il ruolo dell’Italia e la sua evoluzione occidentale viene così completamente derubricato e trascurato sia politicamente che culturalmente. Guardando alla nostra storia repubblicana, elogio alla memoria di Giovanni Spadolini.

Alessandro Giuli, il giornalista che ha sostituito un altro giornalista (Gennaro Sangiuliano) alla guida del Ministero della Cultura del governo Meloni, non ha ancora cinquant’anni (come la premier), sta ora lodevolemente conseguendo la laurea in filosofia e con una certa concomitanza con questo evento riparatorio ha dato alle stampa (Rizzoli, 2024) un libro di analisi del pensiero politico italiano largamente centrato sul Novecento per riportare in auge la centralità dello schema Destra-Sinistra al cuore del nodo sull’identità nazionale.

  • La derivata politica è di affermare che questa dialettica comporta un pari e alternativo diritto egemonico, sancito dai cittadini elettori.
  • La leva teorica è di considerare possibile la ricomposizione di un “patto” attorno al principio dell’affratellamento patriottico.

I segnali simbolici di questo tema sono proposti con chiarezza fin dalla copertina.

In prima pagina c’è Antonio Gramsci. In quarta di copertina c’è Giuseppe Bottai.

In prima pagina c’è la riproduzione del numero di Giustizia e Libertà – il giornale di quello che poi sarà il braccio armato del Partito d’Azione fondato nel 1942 – stampato a Parigi nel 1937 per annunciare a piena pagina “Antonio Gramsci è morto”. Al posto della fotografia del fondatore del PCI c’è una finestra aperta e il titolo è modificato in “Antonio Gramsci è vivo”. Non è opera di Giuli la modifica, ma – lo spiega lui nel libro – dell’artista cileno Alfredo Jaar. E questo è anche il titolo del saggio. Con meno enfasi la quarta di copertina riporta una citazione dell’autore sul compito di una “destra adulta” che a sua volta contiene una citazione di Bottai, esponente di punta dell’ideologia e della cultura del fascismo, che parla del “terribile vuoto morale dei Paesi vinti”, affinché essi (cioè, quei paesi) se lo lascino alle spalle.

Il “sillabario” (così lo chiama Giuli, con intenti in sé pedagogici e comunque riferito alle regole della egemonia contemporanea) è un intenso affastellamento di nomi, citazioni, rievocazioni che ruotano attorno all’idea di ricondurre Destra e Sinistra ad essere parte del citato “affratellamento patriottico”.

Di che si tratta, con più precisione? Esso intende come un riavvicinamento costituzionale e di ricomposizione dell’unità nazionale, che comprende il diritto alternativo alla “egemonia” (ecco il segnale di “Gramsci vivo”) che non fa rischiare la confusione ma inneggia alla convergenza di metodo.

Tra l’altro il bilanciamento con Bottai è meditato. Bottai fu uno dei più importanti gerarchi del fascismo, che alla fine firmò l’odg Grandi, quindi la auto-decretazione dei fascisti della fine di un ciclo. Se ne andò nella Legione straniera per confermare la sua identità di “vinto” e nel 1949 pubblicò un interessante libro di memoria e ripensamento (Vent’anni e un giorno, Garzanti). Ma Bottai richiama anche la non trascurabile storia di quel nucleo di intellettuali in qualche modo alle sue dipendenze che diventeranno prima linea del neorealismo italiano di orientamento comunista (Alicata, De Santis, Lizzani, Aristarco, altri). Intellettuali che avevano infatti costituito parte della redazione di Cinema, la rivista più moderna che il fascismo promosse in materia cinematografica diretta da Vittorio Mussolini, figlio del duce.

Nelle pagine di Giuli c’è un robusto rimescolamento di carte che configura un reciproco riconoscimento di filoni di pensiero politico-culturale connessi al tema dell’identità italiana allo scopo di mantenimento di uno schema bipolare. Impendendo derive (intese come estremismo integralista) prodotte nel Novecento. Quindi superamento delle guerre civili, superamento delle esclusioni maturate con l’arco costituzionale, recupero del valore del patriottismo a fronte di quella che resta (qui l’espressione è dell’attuale dg della Rai Giampaolo Rossi, oggi indicato come ad della Rai, e cioè l’altro console delle politiche culturali di FdI insieme a Giuli) che ha scritto che il nemico è “la globalizzazione tecnocratica contro i popoli e le nazioni”.

La modalità di percorso narrativo (già intrapresa dalla stessa Meloni, da vari intellettuali organici, da ministri come Sangiuliano) è quella di assumere apprezzamenti per figure della sinistra saldate a temi identitari italiani, come appunto Gramsci, Gobetti, Pasolini, a condizione che questa inclinazione riguardi anche il pari riconoscimento degli idola tribus della destra, rimasti culturalmente all’indice nel quadro della cosiddetta egemonia culturale della sinistra. Sempre gli stessi: Prezzolini, Evola, Marinetti, Gentile che si uniscono ai frequenti riferimenti culturali britannici di Tolkien (scrittore cattolico e rigeneratore dell’etica dei buoni e dei cattivi) e Scruton (filosofo difensore dei valori occidentali contro la globalizzazione).

Va detto che le invocazioni alla pacificazione del tempo di Almirante erano molto meno condite.

E avvenivano con confutazioni che si misuravano più sui drammatici riferimenti di guerra che al perimetro culturale che evolve con le generazioni. Famosa la risposta di Vittorio Foa (ripresa anche da Sandro Pertini) al senatore Giorgio Pisanò, che poneva il problema del pari riconoscimento patriottico per fascisti e partigiani, dicendo: “Guarda Pisanò che c’è stata la guerra e voi l’avete persa. Se l’aveste vinta io sarei morto. Ma siccome l’abbiamo vinta noi tu sei senatore della Repubblica”.

Torniamo allo “schema bipolare” accennato. Tema che sta nel pensiero e nelle tracce teoriche di Fratelli d’Italia dalla sua fondazione, avvenuta per reagire alla discontinuità con cui Fini cementò il suo ruolo di alleato nel sistema “bipolare” costruito a destra da Berlusconi, facilitando la legittimazione della sua parte politica con la scelta (durante un viaggio in Israele) di dichiarare il fascismo “male assoluto”.

Lo schema bipolare è di età dantesca, è la lunga storia dei dualismi contrapposti, dei guelfi e ghibellini. L’ossessione della “coerenza” che è una fissa della retorica politica di Giorgia Meloni, parte da questa storia. E per quanto riguarda la dissociazione da Fini, va ricordato che il primo saggio sull’argomento dello stesso Giuli è del 2007, quando l’autore aveva lasciato il giornalismo militante della sua formazione, in circoli e giornali dichiaratamente neo o post-fascisti, per approdare al Foglio (nella fase in cui Ferrara sosteneva Berlusconi in conflitto con Fini). Libro pubblicato da Einaudi con il titolo “Il passo delle oche – L’identità irrisolta dei post-fascisti”, con una severa critica del declino, dell’opportunismo e della trascuratezza culturale con cui Alleanza Nazionale si era andata configurando nel quadro del berlusconismo.

Dice la scheda del libro: “Il ritratto di coloro che, delusi e scettici, guardano con diffidenza il nuovo corso della destra finiana, l’alternativa oscura del bipolarismo ideologico italiano”.

Certo è che questo schema Destra e Sinistra punta a sostituire un lungo periodo di centralità politica, dialettica ma baricentrata, in qualche modo rappresentato dall’arco dei partiti politici post-risorgimentali e prefascisti.

È vero che letto al presente questo spazio appare fragile e confuso. Ma letto nel tempo storico contemporaneo esso ha avuto un grande rilievo che persiste ancora in Europa e in Occidente.

Vediamone brevemente la storia. Il tema dell’identità nazionale è al centro dell’evoluzione della politica italiana dalla fase costituente (in cui le fondamenta dell’Italia repubblicana e antifascista sono basilari) e poi nel pieno della guerra fredda in cui avviene la rottura a sinistra dopo l’invasione russa in Ungheria e l’apertura di dialogo tra socialisti, cattolici (largamente nella DC), liberaldemocratici e – nel tempo – anche radicali, attorno alla cultura delle riforme, della modernizzazione e dei diritti.

Una sagomatura che va dagli anni ’60 agli anni ’90. Appunto, per nulla orientata dallo schema bipolare, ma anzi consolidando la visione europea e occidentale con aperture internazionali solidaristiche, con radici post-risorgimentali e forte cultura dello sviluppo e quindi euro-mediterranea.

Parliamo in sintesi di politiche identitarie tese al gradualismo nell’ascesa dei ceti sociali, con consolidamento della classe operaia ed espansione del ceto medio, con la progettazione degli ascensori sociali, con la certezza pubblica dei diritti nel campo dell’educazione e della salute e contro le discriminazioni.

La fine della prima Repubblica ha incautamente autorizzato a liquidare – attorno ad elementi di involuzione che pur c’erano stati – questo schema centrale del pensiero politico rivolto alla modernizzazione dell’identità nazionale.
Poi l’adozione del maggioritario ha valorizzato le espressioni di Destra e Sinistra – con i loro massimalismi – che erano ormai vacillanti e, in fondo, anche rese marginali dall’evoluzione politica internazionale. La globalizzazione ha risollecitato spinte nazionalistiche e anti-europee.

E dunque eccoci a fare i conti con il trasferimento di un’evoluzione storica fervida regolata da un equilibrio serio tra politica e cultura in una stagione che da anni impone taglio della memoria e promuove nuovismo populista.

Fenomeni che prendono per lo più il profilo pressapochista regolato dal marketing politico, oppure approfittano del rilancio nazionalistico per ripristinare gli occhi al passato.

Non è di per sé negativo lo sforzo di una progettazione culturale che la destra persegue, sforzo che è legittimo e persino opportuno. Segnala tuttavia una contestualità con le sue contaminazioni e le sue contraddizioni.

E’ un fatto che l’abbandono clamoroso del presidio culturale del sentimento di patria che la sinistra post-ideologica – a sua volta vittima del taglio della memoria e da un presentismo accentuato – lascia campo libero alla destra che può appropriarsi di un territorio un tempo contendibile. Sottraendosi in sostanza anche per lo più al dibattito che l’autore del libro, Alessandro Giuli, provoca.

La sinistra ha dimenticato che, nel tratto Risorgimento-Resistenza, si era formata una classe dirigente che non si accontentava di “fare gli italiani” come incitava D’Azeglio ma voleva anche “rifare l’Italia”, cioè la Nazione (argomento poi troppo cautamente sviluppato come “Patria Europa”).

Lo stesso Giuli conduce nel libro una giusta critica preoccupata della riduzione di ruolo e di spessore degli intellettuali di sinistra. Ma ovviamente poi rivolge una naturale critica alla cultura di destra.

Primo, di essersi attardata – dice – in un lungo periodo “veterotestamentario”, per poi trasformarsi in antintellettualismo (nel senso di un semplicistico anti-comunismo con Berlusconi).

Racconta insomma – cito testualmente – di due “scheletri abbracciati”. E auspica una doppia rinascita.

Che non persegua a sinistra “solo un neo-egualitarismo livellante” anziché imparare la scintillante cultura olivettiana (fattore minoritario ma radice interessante) , comunque regolata – a sinistra e a destra – nella consapevolezza delle trasformazioni. Che lui così traduce: Intellettuali artisti prima che politici, amanti del dubbio e nemici del dogma.

Il percorso è un po’ tortuoso ma l’obiettivo – interessante, quanto inquietante – non va trascurato. Bisognerebbe discuterne di più. Ragionare anche di metodo in questo approccio. Il fatto che Giuli lo abbia fatto o lo faccia con Cacciari, aprirà in alcuni il cuore alla speranza, in altri all’incremento delle perplessità.

Io ho qui pensato di proporre un breve inventario dell’evoluzione di un tema che valutavo ingabbiato nelle Tesi di Trieste del partito Fratelli d’Italia di alcuni anni fa e poi ingessato dalla prese del potere e da urgenze di fronteggiamento con la cassetta degli attrezzi a disposizione, che spesso si sono rivelati inadeguati.

Segnalo evoluzioni. Che contengono processi possibili ma anche ricami retorici e che sostengono fermezze spartitorie. Si vedrà.

Termina qui la parte audio del podcast, per ragioni di dimensioni naturali della rubrica.

Ma, nella forma scritta, la riflessione può ancora essere accompagnata da due argomenti.

Dicevamo che “si vedrà”. Ma ciò che dovrebbe essere lecito ora è vedere il significato della scelta di Alessandro Giuli come attuale ministro della Cultura.

Al di là del contesto di immagine (sostituire un esponente di governo logorato, anche a causa di sé stesso, da una vicenda in cui il carattere privato è diventato sia politico che istituzionale, con una figura pacata, composta, educata e di buone maniere) resta lecita una valutazione connessa al tema qui trattato e che trova nei libri citati qualche fonte di analisi.

Gennaro Sangiuliano e Alessandro Giuli

La domanda è questa: perché un giornalista-filosofo che si è appassionato centralmente dell’evoluzione di una cultura di parte, prima scrivendo dell’orgoglio della coerenza della destra, poi scrivendo dell’affratellamento patriottico tra destra e sinistra, dovrebbe essere il miglior candidato a gestire – lo dico con espressione meloniana – la “cultura della Nazione”, intesa come patrimonio di tutti, cioè costituito da una forte priorità istituzionale, per la quale ci sarebbero probabilmente molti altri interpreti con valenze disciplinari, civili e scientifiche infinitamente più titolate?

La risposta implicita nella scelta e nelle tracce delle fonti dello stesso prescelto appare evidente: si tratta di qualcuno che ha sposato soprattutto il tema del diritto all’alternanza dell’egemonia culturale. Dunque, di un presupposto ideologico che rende inutile un concorso aperto a intelligenze o competenze particolari. Perché quel presupposto è l’anello fondamentale della catena ideologica che ancora la formazione di questo governo (almeno per ciò che riguarda il partito di maggioranza relativa).

Sia concesso alimentare qui l’interrogativo. Che – vorrei dirlo subito – ha la possibilità di essere fugato o per lo meno attutito da una di quelle storie di contaminazione esperienziale che riguardano le persone per bene animate da realismo di adattamento.

Cioè, l’assunzione di una responsabilità istituzionale che riduce l’apriori ideologico, smussandone l’impatto e lasciando il campo aperto per comportamenti ispirati ad alto senso dello Stato. Le trasformazioni assunte dalla stessa premier per alcuni aspetti negherebbero questo cambiamento ma per altri lo renderebbero invece “in cantiere”. È una risultante ondivaga e forse anche contraddittoria che rende però l’ipotesi ammissibile.

E tuttavia l’argomento prima avanzato sull’evidente alternativa tra il modello di identità politica nazionale stretto nella relazione Destra-Sinistra e il modello di un più ampio spazio di convergenze che nella storia repubblicana è stato rappresentato dall’arco delle forze riformiste ci consente di far memoria di un caso, appunto, alternativo. Facendo, cioè, l’elogio (modellisticamente parlando) del fondatore stesso di quel ministero (allora Beni Culturali) che fu dal 1974 al 1976 Giovanni Spadolini.

E a proposito di “amor di patria” ecco anche il secondo breve spunto. Anzi, un segnale bibliografico.

C’è un piccolo libro, edito da Laterza nel 2019, che consiglio a chi fosse interessato a un po’ di approfondimento in relazione alle posizioni equivoche della politica attorno al diverso concetto di amor di patria e di nazionalismo, cosa che serve anche per ragionare di Destra e Sinistra.

È di Maurizio Viroli, uno dei maggiori studiosi di Machiavelli, professore emerito a Princeton.

Si intitola “Nazionalisti e patrioti”.

Non faccio sintesi perché il testo è già una sintesi. Davvero.

Ma leggo l’epigrafe che l’autore mette in apertura. È Benedetto Croce che parla. Di una parola desueta, amor di patria. Scritto in L’idea liberale, Laterza 1944.

“L’amore della patria fu non tanto pervertito quanto piuttosto soppiantato dal cosiddetto nazionalismo, che accusava i suoi avversari, non già di essere antipatriottici ma, come diceva, antinazionali; e tuttavia una certa confusione rimase tra i due diversi concetti e i due diversi sentimenti. Cosicché la ripugnanza sempre crescente contro il nazionalismo si è tirata dietro una sorta di esitazione e di ritrosia a parlare di patria. Ma se ne deve riparlare, e l’amor della patria deve tornare in onore appunto contro il cinico e stolido nazionalismo, ma è il suo contrario. Si potrebbe dire che corre tra amor di patria e nazionalismo la stessa differenza che c’è tra la gentilezza dell’amore umano per un’umana creatura e la bestiale libidine o l morbosa lussuria o l’egoistico capriccio”.


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