A proposito di Sofferente e fumatore. Camus e la bilancia di Giobbe di Alessandro Bresolin1
Quindici/D Lexicon Fresco di stampa
Sara Carbone, storica e critica letteraria
Nella rubrica Fresco di stampa, Sara Carbone nel suo articolo “Un’affascinante indagine di archeologia intellettuale” recensisce un saggio uscito da Castelvecchi pubblicato in Francia da Alessandro Bresolin, uno studioso di origini venete, napoletano d’adozione, autore di romanzi e saggi: Sofferente e fumatore. Camus e la bilancia di Giobbe. Il libro è “Il risultato di tre anni di ricerche “senza metodo” per confermare che dietro allo pseudonimo Job con cui firma una recensione al romanzo Fontamara di Ignazio Silone, pubblicata nel 1935, su un numero della rivista Alger-étudiant, si nasconde il giovane Albert Camus. ” Al rinvenimento, di per sé interessante, segue la scoperta di altre quattro recensioni il cui l’autore si firma con lo stesso pseudonimo della prima: Job. A questo punto, Bresolin, che di Albert Camus sembra sapere proprio tutto, compresa la sua abitudine, negli anni giovanili trascorsi ad Algeri, di ricorrere a pseudonimi, conformemente ai costumi di molta stampa algerina dell’epoca, sfida fonti storiche, filosofiche, letterarie, aneddotiche, religiose e biografiche che possano aiutarlo a dimostrare la sua intuizione”.
11 ottobre 2024
Accettare l’assurdità di tutto quello che ci circonda
è una tappa, un’esperienza necessaria:
non deve diventare un vicolo cieco.
Suscita una rivolta che può diventare feconda.
Albert Camus, Intervista di novembre 1945
Napoli, piazza Borsa. Fine agosto 2024.
«Questo libro è una parto-genesi, la costola di un altro lavoro che chissà se vedrà mai la luce, in cui ho indagato i rapporti fra Albert Camus e Ignazio Silone»
mi dice Alessandro Bresolin a proposito del suo libro Sofferente e fumatore. Camus e la bilancia di Giobbe, edito dalla casa editrice Castelvecchi, nella tarda primavera del 2024. È seduto su una panchina, a pochi passi dall’ingresso della metro; ha appena rollato una sigaretta che tiene con una mano mentre, con l’altra, cerca di sistemare alla meglio, nello zaino, la confezione di tabacco. Alle sue parole, pronunciate fra una tirata di sigaretta e l’altra, si frappongono i suoni dei clacson e i rumori dei motori delle auto che intasano le strade della città. È la seconda volta che intervisto Bresolin. La prima registrazione del nostro incontro è andata perduta.
Di origini venete, napoletano d’adozione, autore di romanzi e saggi, Alessandro Bresolin è un traduttore dal francese, ha realizzato documentari radiofonici in Italia e all’estero e ha collaborato con Rai Radio 3, Il Manifesto e Lo Straniero. È il giorno dell’antivigilia di Natale del 2020 quando – mi dice -, mentre si trova a Napoli, si imbatte in una recensione al romanzo Fontamara di Ignazio Silone, pubblicata nel 1935, su un numero della rivista Alger-étudiant.
Al rinvenimento, di per sé interessante, segue la scoperta di altre quattro recensioni il cui l’autore si firma con lo stesso pseudonimo della prima: Job. A questo punto, Bresolin, che di Albert Camus sembra sapere proprio tutto, compresa la sua abitudine, negli anni giovanili trascorsi ad Algeri, di ricorrere a pseudonimi, conformemente ai costumi di molta stampa algerina dell’epoca, sfida fonti storiche, filosofiche, letterarie, aneddotiche, religiose e biografiche che possano aiutarlo a dimostrare la sua intuizione: dietro lo pseudonimo Job si nasconde il giovane autore de L’uomo in rivolta. È una ricerca durante la quale Bresolin arriva, passo dopo passo, alla «verità gemendo»: lavorando per la prima volta a partire da un’ipotesi, è preso spesso dall’ansia di non riuscire a dimostrare la sua tesi e, per questo, passa
«al nodo scorsoio tutto quanto, ogni aspetto»;
si affida a un metodo che non ha nulla di hegeliano ma è un vero e proprio debito agli esistenzialisti e, in particolare, a Lev Isaakovič Chestov, fonte di ispirazione per lui quanto per Camus e al quale si fa più volte riferimento nel testo. Il risultato di tre anni di ricerche “senza metodo” è Sofferente e fumatore. Camus e la bilancia di Giobbe, una vera e propria
«microstoria condotta attraverso la stampa dell’epoca e gli archivi»,
secondo le parole di Christian Phéline prefatore del libro, il cui nume tutelare è il primo autore che Bresolin ha incontrato da studente di Storia durante un corso Erasmus all’estero, Fernand Braudel.
«È il suo concetto del tempo come durata che mi affascina e quella possibilità di conciliare, attraverso la multidisciplinarietà, di cui Braudel è maestro, la visione dall’alto, quella dal medio e quella dal basso che devono attraversare una ricerca» – mi dice mentre da un altro tiro alla sigaretta-, «quella possibilità che ti offre sempre un’altra prospettiva anche se, poi, matura il tempo di tornare a casa e depositare i bagagli e cominciare a scrivere».
Organizzato in due sezioni – Camus e lo pseudonimo Job e Attraverso un Giobbe plurale -, il libro,
un’«affascinante indagine di archeologia intellettuale», ancora dalle parole dell’introduzione –
si rivela una vera lezione di metodo. Di ricerca quanto di scrittura.
Per dimostrare che Job sia Camus è, infatti, necessario, prima di tutto raccontare le ragioni per le quali si è arrivati a questa corrispondenza. Basta la semplice espressione «spirito di Voltaire», nella recensione al romanzo Fontamara, a far propendere per la tesi che l’autore del pezzo sia uno studente di Filosofia e che si tratti di uno studente “non comune”, dal momento che tale espressione indica
«un atteggiamento, una postura filosofica provocatoria, antidogmatica, critica»;
l’espressione per cui gli abitanti di Fontamara fanno
«pensare a certi contadini spagnoli che credono che Alfonso XIII regni ancora»
non può non essere stata scritta da qualcuno che, di discendenza iberica per parte di madre, conosce molto bene la situazione politica in Spagna. E poi, c’è il fatto che Job (Giobbe) è uno dei personaggi più noti della Bibbia, che si contraddistingue per capacità di sopportazione quanto per povertà e, a metà degli anni Trenta, Camus è un giovane studente povero che affronta con grande spirito di sopportazione la tubercolosi.
«In Italia diciamo “paziente come Giobbe”»
– spiega, appunto, Bresolin che, intanto mi ha chiesto di andare a bere un’aranciata al chioschetto dall’altra parte della strada -,
«ma in Francia, dove la cultura protestante ha lasciato un’impronta più profonda, la figura Giobbe è associata alla povertà. – Sei povero come Giobbe -, dicono i francesi!».
E, poi, il misterioso recensore che si nasconde dietro questo pseudonimo non può non essere che un grande fumatore di tabacco a basso costo, dal momento che Job è la marca delle sigarette più popolari ad Algeri, in quegli anni. Ideate da Jean Bardou, che ha rivoluzionato il modo di consumare il tabacco, creando una confezione per contenere cartine pretagliate su cui poter rollare le sigarette, le Job diventano le naturali rivali della pipa e, per il loro costo ragionevole, si rivolgono a fumatori prevalentemente indigeni, i quali popolano, fra gli altri, il quartiere cittadino di Belcourt, noto per ospitare anche studenti e, tra questi, lo stesso Camus. Lo stabilimento Job, inoltre, si trova a Bab El Oued, in rue Livingstone, a pochi isolati dal Grand Lycée d’Alger, che Camus ha frequentato dal 1924 al 1933. Ma a Bresolin non basta neppure questa
«ricostruzione del mercato del tabacco ad Algeri in quegli anni» –
come mi dice sorridendo e rievocando orgogliosamente il metodo Braudel a cui si è affidato – e, da scrittore che muove alla conoscenza profonda di ciò che ama tentandone un’appropriazione a partire da ciò che ha esercitato, in passato, un fascino su di lui, cerca altri validi appigli a sostegno della sua tesi.
Job della recensione a Fontamara è Camus per ragioni cronologiche: assieme a Pierre Charousset e Edmont Desportes, lo scrittore è, in quegli anni, uno dei tre redattori della rivista su cui è pubblicata la recensione, e, seguendo un procedimento logico per esclusione, gli altri due non possono essere stati autori di quel pezzo; per una questioni politiche: Fontamara diventa, fin dalla sua pubblicazione nel 1933, un vero è proprio manifesto di tutta una generazione antifascista e, due mesi dopo la sua uscita, Henri Barbusse e Romain Rolland fondano il movimento antifascista internazionale Amsterdam – Pleyel al quale, presso il nucleo di Algeri, si avvicina nel corso del 1933, Albert Camus; per corrispondenze stilistiche: tra la recensione di Job del 1935 e una di Camus del 1939, c’è identica impronta stilistica e stesso incipit; per parallelismi esistenziali: Job mette a confronto la storia dei cafoni di Fontamara con quella degli esistenzialisti spagnoli.
A tutto questo si aggiungono le osservazioni condotte sulle altre quattro recensioni a firma Job, in particolare quella al libro Poppea. L’amante dell’Anticristo, di Abel Hermant, in cui Job si mostra interessato soprattutto a quella “Filosofia della storia” che interessa molto il giovane Camus. Job come Camus nutre lo stesso interesse per la Roma imperiale, in particolare, per le figure di Nerone e Caligola; la stessa attenzione per l’Africa – Camus riesce a mettersi nei panni del colonizzato – e per la Letteratura americana; la medesima curiosità per i libri di viaggio e un identico atteggiamento antirazzista.
Alessandro Bresolin «rivendica [costantemente nelle pagine del libro] questa modalità soggettiva» di condurre e restituire i risultati della ricerca «sotto il segno di Fernand Braudel»,
come sottolinea Agnès Spiquel, docente emerita di Letteratura francese dell’Università di Valenciennes e presidente della Société des études camusiennes, dal 2005 al 2020, durante una sua visita a Napoli, in un caffè di corso Umberto, in un pomeriggio in cui con Bresolin ci siamo incontrati per parlare di altro, di teatro e traduzione e tradimento, e io sono ancora ignara di aver inavvertitamente cancellato la registrazione del nostro primo incontro.
E così, Bresolin arriva a individuare addirittura una certa corrispondenza fra la considerazione di cui gode presso le ragazze di Harlem, Jake, protagonista del romanzo Quartiere nero, di Claude McKay, recensito da Job, e quella del ventiduenne Camus presso le donne di Algeri.
Nella seconda parte del libro viene fuori ed è
«dimostrata in modo rigoroso, l’importanza della figura di Giobbe per il giovane Camus, [che] è una scoperta per [gli stessi] “camusiani”»,
spiega ancora Agnès Spiquel.
Bresolin passa in rassegna tutti gli autori attraverso i quali Camus può aver “scoperto” la figura di Giobbe, analizzandone quei tratti salienti che hanno alimentato personalità e cultura del giovane scrittore franco-algerino. Si tratta di trattazioni filosofiche e artistiche della figura di Giobbe più che religiose, spiega l’autore del libro che ritorna più volte, nei luoghi della scrittura, a sottolineare la doppia matrice e, di conseguenza, il parallelo sviluppo, di un esistenzialismo religioso e di un esistenzialismo laico. Sant’Agostino, autore attorno al quale verte buona parte della tesi di Albert Camus, media la figura di Giobbe sia attraverso La citta di Dio, dove si affronta il tema del suicidio, sia soprattutto attraverso Le confessioni che possono essere accolte, secondo Silvia Ronchey, come
«un immenso commentario al Libro di Giobbe»
in cui l’antieroe biblico diventa prototipo dell’uomo moderno in lotta con sé stesso.
«perché un aspetto da non sottovalutare Giobbe è un po’ il prototipo de L’uomo in rivolta, come traspare dalle riletture filosofiche del testo»
– dice Bresolin alzando di un tono la voce per coprire il suono di una sirena di un’ambulanza che passa accanto a noi, a tutta velocità -.
L’opera di André Gide, il romanzo L’immoralista in particolare, in cui l’autore segue la struttura e rielabora gli insegnamenti del libro di Giobbe, influenza Camus nella stessa misura in cui lo fanno I pensieri di Blaise Pascal, per il loro modello organizzativo, e il pensiero di Lev Chestov, il quale sostiene la necessità di affrontare con coraggio il nostro duro destino. Sebbene non ancora diffuse in Francia, le opere di Sören Kierkegaard, sono conosciute dal giovane Camus; in particolare, La ripetizione. Saggio di esperienza psicologica, in cui si racconta della tumultuosa rottura della relazione con regina Olsen e il protagonista dietro il quale si cela il filosofo, offre una critica al bigottismo religioso e un elogio al “Giobbe ribelle”. Stando alle dichiarazioni dello stesso Camus, nel 1933, questi ha letto l’opera di Fëdor Dostoesvkij e, nel 1938, assieme alla sua compagnia teatrale, mette in scena I Fratelli Karamazov, recitando lui stesso il ruolo di Ivan. Oltre al fatto che l’autore russo scrive nel suo diario di aver letto il Libro di Giobbe e di aver lasciato, nel suo quaderno per L’adolescente e I fratelli Karamazov, alcune note criptiche relative a Giobbe, il personaggio di Zosima dei fratelli Karamazov è tagliato a immagine e somiglianza di Giobbe e anche quando il monaco si rivolge al più giovane dei fratelli, Aljòsa, ciò che gli insegna è la lezione di Giobbe:
«La vita ti porterà molte disgrazie ma proprio per esse tu sarai felice, e benedirai la vita, e quel che è più importante, indurrai gli altri a benedirla».
Infine, è solo un anno prima della recensione a Fontamara, è il 1934 quando Renaud Icard, conosciuto negli ambienti intellettuali tra le due guerre come uno che fonde spirito mediterraneo ed esistenzialismo, pubblica, a Marsiglia, nei suoi Cahiers du Sud una prima versione della sua pièce teatrale intitolata semplicemente Job.
«E possiamo dire che Camus è tutto lì, nel Mediterraneo: algerino, mezzo spagnolo, che quando ha dovuto comprare casa in Francia l’ha comprata in Francia del Sud perché questa gli ricordava paesaggi mediterranei; il Paese che ha visitato di più in vita sua è l’Italia; c’è stato cinque volte nella sua breve vita. Ma gli anni giovanili di Camus sono proprio quelli in cui si avvicina all’Esistenzialismo e, contemporaneamente, va maturando questa visione sul Mediterraneo e sulla cultura mediterranea»,
dice Alessandro Bresolin, a chiosa della nostra chiacchierata, mentre il vento ha sparso qua e là, sulla panchina dove siamo seduti, qualche residuo di tabacco, la busta è volata via e la sigaretta si è spenta. Andiamo via. Facciamo un tratto di strada insieme, fino a quando lo vedo sparire in lontananza in via Duomo.
Scritto prima in francese, poi tradotto e pubblicato in italiano, Sofferente e fumatore. La bilancia di Giobbe è un vero e proprio «pingpong linguistico» che solo qualche giorno fa ha visto la luce anche in Francia col il titolo Camus et Job, un viaggio dello stesso autore «nel paese di Uz, seguendo i passi di Camus», che si rivolge al «lettore curioso», in particolare
«agli adolescenti affinché possano osservare come uno studente povero e malato sia riuscito a emanciparsi attraverso la cultura».
Il libro è un
“vademecum di vita esistenziale” e “un giallo”
in cui la trama scorre per indizi, ma è, soprattutto, un invito a rileggere tutta l’opera di Camus alla luce di questa scoperta e delle implicazioni filosofiche ed etiche che accomunano la figura di Giobbe a quella di un giovane scrittore povero, paziente, sofferente e fumatore.
Ho rivisto Bresolin prima di ascoltare la registrazione del nostro secondo incontro. Sa che non ho ancora lavorato alla recensione; ha accettato, paziente, il ritardo del mio treno. Sono le prime ore di un pomeriggio di metà settembre. È fresco in via Mezzocannone e siamo ritornati sul tema del teatro, della traduzione e di una via “esistenzialista” per la ricerca della verità. Il vento ha sparso ovunque il tabacco fuoriuscito dalla busta, lasciata aperta sul tavolino. Si è avvicinato un uomo con un organetto che strimpella un motivo noto. Deve essere sofferente e povero come Camus. Chiede una moneta. Alessandro ha appena rollato una sigaretta. Gliela porge. È tempo che anche io torni «a casa e depositare i bagagli» e mi metta a scrivere.
- Roma, Castelvecchi, 2024, 154 p. Edizione originale: Alessandro Bresolin, Camus et Job, Paris, Presse Fédéraliste, 2024, 220 p. ↩︎
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