Ogni aspetto della realtà è riproducibile per approssimazione geometrica mediante dei mattoncini colorati ad incastro. Sembrerebbe questa la filosofia di base delle costruzioni Lego. O meglio LEGO, perché il marchio danese è brevettato completamente in maiuscolo.
Jens Andersen vi dedica una preziosa opera biografica, che apre le porte su un altro di quelli che Roland Barthes avrebbe definito “miti d’oggi”. È questo che si dispiega in “LEGO – Una storia di famiglia”.
Dalle figure umane a quelle animali, dalla vegetazione all’arredo urbano, dai mezzi di trasporto alle infrastrutture, quei poligoni di plastica dura che aderiscono gli uni sugli altri possono ricostruire tutto quanto fa parte del normale panorama quotidiano. Non solo gli spazi abitativi. Ovvero: quando le scienze della misurazione nella civiltà avanzata sfiorano l’ineffabilità della magia.
Eppure, qui si tratta di un principio elementare, l’ergonomia, il complesso delle regole che legano le facoltà intellettive dell’individuo al mondo reale e ad i meccanismi del funzionamento generale. I LEGO arrivano direttamente all’intuizione del pubblico infantile, cui sono destinati, sollecitandone lo spirito dell’“homo faber”. Si potrebbe anche evocare Johann Huizinga ed il suo saggio sul gioco. Dunque, l’“homo ludens”. Sta di fatto che i LEGO rispondono al requisito ergonomico di fondo. Sono utilizzabili nell’immediato, senza il bisogno di passare per un manuale d’uso. Perché l’incastro è di per sé una traccia creativa. Si può partire dal vuoto delle idee ed approdare ad una forma che poi diviene significato. È come vedere la semiotica in azione dal vivo, sotto le mani di chi si gingilla con i LEGO. Il significante, o portatore libero di segno, che approda ad una struttura definita.
Non deve stupire, a questo punto, che i LEGO provengano dalla stessa patria di Hans Christian Andersen. Le fiabe di quest’ultimo, infatti, sono una riproduzione della realtà con criteri analitici. Solo che gli orchi, le fate e gli incantesimi vanno nella direzione opposta dei LEGO. Portano alle estreme conseguente la misura naturale delle cose. Mentre i mattoncini colorati la riducono alle linee essenziali. Il risultato è identico. Ci si trova dinanzi ad una visuale la cui estraneità inganna. Al contrario, in quei volumi solidi si trova, stilizzato, il vero, il concreto ed il logico. Esattamente come nella morale delle fiabe di Andersen.
Il suo conterraneo, inventore dei LEGO, si chiamava Ole Kirk Christiansen e viveva a Billund, un piccolo comune della Danimarca centrale. Collega dell’immaginario mastro Geppetto di Collodi, era il proprietario di una piccola falegnameria a gestione familiare. Chissà se e quanto il personaggio di Pinocchio ha influenzato Christiansen. Più probabile c’entri quella che Jung definì sincronicità, il ricorrere fortuito di circostanze comunque rispondenti al rapporto causa effetto. Lo dimostra il percorso produttivo di Christiansen.
Nella sua falegnameria realizzava case di legno e relativi arredi. Il circondario di Billung era essenzialmente agricolo. Dunque, la principale fonte di lavoro andava considerata l’edilizia rurale. Fattorie, recinti, silos, stalle e simili. Dal 1916, anno d’inizio dell’attività, al 1924, la falegnameria di Christiansen seguì una curva ascendente che, se fosse proseguita, avrebbe condotto il titolare in altre direzioni. Magari avrebbe precorso l’IKEA. Invece arrivò il nemico inarrestabile del legno. Uno dei due figli minori di Christiansen provocò erroneamente un rogo che distrusse quasi del tutto la falegnameria. Era il 1924. Christiansen ebbe solo il tempo di ricominciare da zero che giunse la crisi del 1929. Il rischio, adesso, era ben più grave dell’incendio. Il crollo di Wall Street si ripercuoteva nel vecchio continente con una tragica onda d’urto. Christiansen non aveva che la solita scelta, tornata d’attualità nell’epoca della globalizzaione e delle instabilità finanziarie, quella di ridurre i costi. Ma lui la prese alla lettera. Passò dalla riduzione dei costi alla riduzione dei prodotti, che divennero prima più piccoli, poi miniature. Cioè giocattoli. Ed ecco la sincronicità junghiana. La crisi di Wal Street si risolve nel successo di un falegname che si trova alle testa di un impero dei giocattoli in fase nascente. Un’altra legge economica vuole che i periodi più cupi siano provvidenziali per chi si occupa di evasione. Gli anni ’30 segnarono l’ascesa del cinema, della radio, della stampa popolare e dei giocattoli. I soldi scarseggiavano, certo, però si era più disposti a sacrificare l’appetito in cambio di occasioni per dimenticare le ristrettezze.
Purtroppo per Christiansen, questa reciprocità commerciale non fu immediata. Oggi la Danimarca costituisce un esempio di opulenza scandinava. Allora il Paese di Andersen scontava ritardi nello sviluppo dovuti ad una tradizione preindustriale e poco integrata nel flusso già avanzato dell’Europa prebellica. Le famiglie di Billung e dintorni non avevano introiti sufficienti a pagare i giocattoli costruiti da Christiansen. Spesso, lui doveva accettare in compenso prodotti alimentari. Così differenziò l’impresa riprendendo a sfornare anche attrezzi per l’agricoltura. Nel frattempo, maturavano voghe fra i più piccoli. Molto graditi gli yo-yo, che avevano un vantaggio. Quelli invenduti si potevano riciclare per ricavarne le ruote dei modellini di camion.
Il termine LEGO nacque nel 1934, dopo che a Christiansen si era affiancato in modo decisivo il figlio Godtfried. Da principio indicava l’intera società di produzione. Sul significato, le ipotesi abbondano. I responsabili dell’azienda affermano che LEGO deriva dalla contrazione di “leg godt”, che in danese significa “gioca bene”. Difficilmente, tuttavia, si può ignorare il possibile ascendente latino, quel verbo piuttosto pertinente traducibile con “metto insieme”, “assemblo”, o anche “raccolgo” e “scelgo”. C’è poi il finlandese “legot”, con cui ci si riferisce alla forma rettangolare dei denti umani, che ricordano parecchio i mattoncini.
I quali si configurarono in una forma antesignana di quella attuale nel 1947, allorché dal legno originario delle manifatture LEGO si compì la transizione alla plastica. Per la verità, se ne trovavano già in commercio. Li aveva brevettati Hilary Harry Fisher Page per la Kiddicraft. La LEGO ne perfezionò la composizione di acetato e cellulosa immettendo sul mercato un kit con cui si riusciva a costruire il modello di un camioncino. Dal 1949 chiamarono Automatic Binding Bricks e riprendevano la serie in legno che l’azienda aveva smerciato per decenni. Avevano possibilità innovative ed, appunto, ergonomiche. Le sporgenze circolari sulla facciata superiore dei mattoncini combaciavano con gli incavi di quella inferiore. Facendoli aderire l’uno sull’altro, a pressione, si assemblavano e disassemblavano, L’impiego di mattoncini più lunghi permetteva di costruire piani differenziati da cui partire per ottenere configurazioni più ricche, e quindi riprodurre di tutto. Il successivo battesimo fu del 1953, anno in cui vennero denominati “LEGO Mursten” o “LEGO Bricks”, cioè mattoncini LEGO.
Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve Bank, nella sua autobiografia, “L’era della turbolenza”, ha dedicato pagine e pagine alla dinamica fondamentale della libera impresa. Nessun prodotto è esente dalla continua ed irrefrenabile mutevolezza del mercato.
La LEGO ha dovuto pertanto subire la concorrenza, l’imitazione, il surclassamento. L’ergonomia da sola non bastava a mantenere il primato dei mattoncini nel mondo del consumo infantile. Prima ancora dell’elettronica e delle playstation, si dovette migliorare la plasmabilità delle costruzioni, renderle più versatili e per questo accattivanti. Da ultimo, l’azienda ha conosciuto traversie economiche ormai inevitabili nel pianeta interconnesso, dove nessun giocattolaio è più detentore della “magia” di un profitto inattaccabile.
L’annus horribilis per la LEGO fu il 2003, nel quale si registrò un deficit di 188 milioni di Euro, Il presidente, Poul Plougmann, venne costretto a dimettersi e le redini tornarono a Kjeld Kirk Christiansen, nipote del fondatore. Seguì, l’anno dopo, il licenziamento di quasi mille dipendenti. Un taglio dei costi più doloroso di quello da cui era cominciata la fortuna della LEGO. Rimedio peraltro inutile, dato che nell’ottobre del 2004 il deficit della LEGO crebbe e lo stesso Christiansen lasciò, con un esborso di 100 mila Euro recuperati dal suo conto privato.
Ciononostante, i crudi numeri dell’economia non intaccano l’essenza di un mito contemporaneo. I mattoncini LEGO sfidano ogni simulacro elettronico. La loro realtà angolosa ma concreta resiste alle realtà virtuali del computer.
(Jens Andersen, LEGO – Una storia di famiglia (Salani, pp. 416, Euro 19,00)
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