Per Gramsci e il Comintern a uccidere Matteotti fu la politica dei “capi riformisti”
Quattordici/C Clio Storia del presente
Salvatore Sechi
Docente universitario di storia contemporanea
Salvatore Sechi nell’articolo “Una farsa classicamente comunista” ripercorre le divisioni fra gli ordinovisti e in primis Antonio Gramsci, da un lato, e i socialisti riformisti, nell’immediato dopoguerra: “La differenza tra Gramsci e i socialisti (non solo, quindi, i riformisti di Turati e Matteotti) riguardò il problema dell’unità e in particolare di affidare il partito ad un federatore, cioè la ricerca affannosa un capo. L’insistenza di Lenin su Giacinto Menotti Serrati sul punto fu pressante, ma il rifiuto del leader massimalista fu ugualmente tenace. Il Psi senza la ricchezza del dibattito, e delle divisioni, al proprio interno, avrebbe perso la sua identità, cioè ogni ragion d’essere. Serrati non volle accogliere, e respinse, la richiesta di Lenin di fare fuori, cioè espellere, Turati, Matteotti e i riformisti, e creare, col (molto) che restava, la nuova sezione italiana dell’Internazionale comunista. L’unità nelle diversità era l’identità storica del socialismo italiano”.
In conclusione Sechi rievoca l’articolo non firmato scritto dal pensatore sardo dopo l’assassinio del politico riformista veneto. “Nei confronti di Matteotti sulle pagine dell’organo teorico Stato Operaio, il 28 agosto 1924, Gramsci si fece proteggere dall’anonimato per abbandonarsi ad un atto esorcistico classicamente comunista: “il combattete sfortunato, ma tenace fino al sacrifici di sé, di un’idea la quale non può non condurre i suoi credenti e militanti ad altro che ad un inutile circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultati e senza via d’uscita”. Di qui il titolo quasi diffamatorio che l’esponente italiano del Comintern diede al suo “obituary”, ovvero al suo necrologio: Pellegrino del nulla[1]
26 ottobre 2024
A dividere Giacomo Matteotti da Antonio Gramsci, cioè il Partito Comunista d’Italia (PCd’I) dal Psi (anzi dai riformisti), furono concezioni diverse, alcune semplicemente incomparabili, della politica. Grazie ad esse i socialisti non dovrebbero mai essere confusi con i comunisti. Dovevano essere, e restare, reciprocamente incompatibili e irriconoscibili gli uni dagli altri.
È quanto nel nostro paese non è potuto avvenire. La necessità di fronteggiare il nazi-fascismo rese indispensabili alleanze spurie e prive di senso come quelle tra i comunisti (irremovibili sostenitori dei regimi del partito-Stato sovietico) e socialisti (legati a governi di centro sinistra o apertamente socialdemocratici e laburisti).
Di qui il finale da commedia politica che almeno in Italia ne è a lungo derivato: i comunisti hanno avuto l’arroganza di presentarsi addirittura come i veri riformisti! Fino al punto di riservare a Giacomo Matteotti l’epiteto di “pellegrino del nulla” e attribuire alle sue idee e a quelle degli altri “capi riformisti” la ragione della sua orribile morte per mano di una squadraccia mussoliniana.
In primo luogo, a distanziare Matteotti da Gramsci fu il rapporto con le masse. Matteotti muoveva dal presupposto che la domanda di riscatto di contadini e operai andasse liberata da istanze palingenetiche o soteriologiche (come nel socialismo evangelico e nel comunismo). Il leader politico polesano delineò un processo di laicizzazione che passava, filtrandolo, dai rappresentanti politici e si avvaleva non di promesse e impegni a futura memoria, ma di uno studio ravvicinato dei problemi: dai contratti agrari allo studio di acque e paludi, dalla modulazione del carico fiscale alla tassa di scopo, dalla semplificazione normativa all’imponibile di manodopera e all’incremento delle scuole e degli istituti professionali, eccetera.
Questa innovazione nell’approccio politico si dilatò nell’assegnare alla prassi del governo di coalizione non obiettivi di trasformazione epocali (misurate cioè sugli interessi della classe sociale rappresentata), ma su convergenze per obiettivi specifici. Nacque di qui la riflessione sulla cosiddetta rielaborazione della forma-partito. Si esaminarono soluzioni come il partito del popolo (in cui fosse inclusa l’attività di governo e di piazza), che superavano la prassi della maggioranza parlamentare, consentendo per il futuro l’opzione per coalizioni a tre (socialisti, popolari di don Luigi Sturzo e gruppi giolittiani).
Invece delle fiere con moltitudini plaudenti (si chiamasse Enrico Ferri o Benito Mussolini, Nicola Bombacci o Giacinto Menotti Serrati) animate dalla forza suadente delle parole e di roventi emozioni, Matteotti preferiva andare a fondo per cercare di capire l’esposizione di un bisogno e disporre l’offerta della soluzione. Dunque, quel che gli venne rimproverato: troppo tempo speso tra i libri della biblioteca del Senato che nelle risse delle aule parlamentari e nei bagordi dei comizi in piazza. Un riformismo, il suo, che rifuggiva anche dalla rettorica delle minacce ad alzo zero come l’eversione espropriatrice permanente dei capitalisti.
Il leader dei massimalisti Serrati vi si esercitava ogni giorno sulle pagine dell’Avanti! perincutere paura e terrorizzare la borghesia capitalistica. Col risultato di alimentare uno stato d’animo di incertezza e un conseguente giudizio di inaffidabilità politica da parte dei ceti intermedi.
Meglio per questo figlio del Polesine, una terra di braccianti poveri e smarriti e di una classe agraria impietosa, fu l’opzione personale di dedicare tempo e intelletto all’educazione professionale, alla crescita civile delle comunità e dei territori, per allentare, se non fare scomparire, le diseguaglianze e le difficoltà della vita quotidiana.
Sono gli anni in cui il PSI fu socialmente monotematico, ossia esponente di una sola classe. È il limite che Franco Venturi insieme a Giustizia e Libertà gli addebitò negli anni Trenta, unitamente all’insensibilità per non aver assunto a livello di una campagna universale, pluri-classista, i diritti civili.
Ne colse tempestivamente bene questo aspetto, contrapponendolo alla leadership socialista, l’intellettuale torinese Piero Gobetti, nel saggio a lui dedicato su La rivoluzione liberale:
“l’ossessione della semplicità, della chiarezza, della praticità”,
l’insistenza inesausta sui particolari, insieme al grande sforzo di
“parlare ai contadini come uno di loro”.
Era la strada maestra per avere una conoscenza realistica e non ideologica (quindi mitologica) della realtà del paese, dei diversi strati sociali che lo popolavano. Penso, per fare l’esempio più macroscopico, al ceto dei rivoluzionari comunisti che Gramsci volle identificare in quanti aderirono al movimento dei Consigli di fabbrica del 1919-1920.
La storiografia è rimasta per lo più dominata da storici comunisti e da socialisti affetti da una mentalità frontista pervasiva. Costoro non si sono ancora rassegnati a dire che quella che egli amò definire la prima cellula del sovietismo italiano è sempre stata un’invenzione, una leggenda.
Il fascismo mostrerà, penetrando in molte aree del proletariato, che non si trattava di una fortezza inespugnabile. Mi riferisco in primo luogo alla cultura della base degli operai de L’Ordine Nuovo. Non avevano letto né Karl Marx né Friedrich Engels né Lenin, ma i loro leader avevano piuttosto bivaccato, al massimo, sui testi di Benedetto Croce, Georges Sorel e Henri Bergson.
Nell’insieme la maggioranza delle avanguardie che aveva occupato gli stabilimenti torinesi della Fiat e instaurato i primi (per molti decenni anche gli ultimi) nuclei del consiliarismo, erano vittime consapevoli di qualche loro articolo tradotto dall’Avanti! e poi da l’Unità. Erano proletari in carne ed ossa, con le stesse virtù e gli stessi vizi di tutti gli operai. Quel che per quasi un secolo non si è voluto verificare da parte degli studiosi (in gran parte) e di un organo (anche) di ricerca come la Fondazione Gramsci, o la rete degli istituti storici del Psi, è stato riassunto molto attentamente da un dato (che in apparenza sembra solo di valore statistico). A fornirlo sono stati gli storici dei quartieri operai di Torino[2]. Mi sia consentito citarli (non lo fa nessuno come se fossero degli straccivendoli da borgata) perché la valorizzazione in termini mitico-simbolici ha impedito di rendersi conto di quel che avvenne in seno alla classe operaia dopo la nomina a premier di Mussolini.
Matteotti seppe anticipare questa mutazione epocale. Intendo dire che alla fine del 1923, vale a dire un anno dopo la marcia su Roma, il fascismo aveva avuto la forza di disorganizzare, togliendoli dalla mischia del conflitto politico e sociale, 2,5 milioni di lavoratori.
I 4 milioni di iscritti ai sindacati del 1920 si erano ridotti complessivamente a 1.513.632. Erano scomparsi sigle ed emblemi come quelle dell’UIL e dell’USI, e gli appartenenti ai sindacati di origine cattolica restavano attestati sui 445.595. Era avvenuta una dislocazione nuova del processo di sindacalizzazione. I sindacati fascisti potevano contare su 857.611 iscritti, mentre la CGL si era più che affievolita. Era precipitata in una impressionante rotta di consensi. Gli iscritti si erano ridotti, infatti, ad una quota di 212.016[3].
È arduo spiegare questa crisi di rappresentatività del mondo del lavoro come un effetto della violenza fascista (e del suo cosiddetto “capobanda”), dell’assalto agli uomini, ai giornali e alle istituzioni del movimento operaio. In realtà, più che a un successo dello squadrismo, si assiste alla chiusura di un’epoca. Era la crisi inarrestabile della società e dello Stato liberali.
Ma anche contestualmente il venir meno e il trasformarsi in una sorta di liturgia e apologia delle condizioni reali del mondo operaio, ormai affidato all’ebrezza di essere riverito come un “mito operaio”. Gramsci amò descriverla attribuendo a Giolitti la responsabilità di avere lasciato massacrare i socialisti e armare oltre 400 mila “guardie bianche”[4].
Il secondo aspetto riguarda la formazione, il livello di coscienza teorica antagonista, cioè l’elementare apprendistato del marxismo leninizzato da parte dei lavoratori sindacalizzati e che avevano optato per soluzioni rivoluzionarie. Ad avviso di uno studioso dell’organizzazione del lavoro come Stefano Musso la situazione era la seguente:
“le biblioteche popolari erano piene di opere selfhelpiste[5] (Samuel Smiles, Michele Lessona, Cesare Revel, Cesare Cantù), retaggio della precoce diffusione in Piemonte dell’associazionismo mutualistico. Vi era anche il riferimento a Saint-Simon veicolato da mazziniani e repubblicani”[6].
come avveniva sia da parte di riformisti e massimalisti.
Era questa cultura semplice, senza pretese oltre il buonismo e il sentimentalismo, che per molti decenni i “produttori”, cioè’ gli operai cattolici, turatiani, gramsciani, sindacalisti rivoluzionari ecc. veniva spacciata e bene accolta nelle biblioteche di quartiere.
Senza contare che l’accesso diretto alla lettura di Marx era reso impossibile anche dalla scarsa traduzione delle sue opere. Saranno disponibili solo dopo il 1930[7].
Come ha dimostrato Stefano Musso (uno studioso che in genere si fa finta di non conoscere) gli operai ordinovisti, quelli turatiani o cattolici leggevano nelle biblioteche di quartiere le opere ispirate ad un umanitarismo privo di aneliti eversivi come appunto De Amicis, Smiles, eccetera.
Ad esserne angosciato sarà lo stesso Gramsci quando redasse un’analisi disincantata e dolente di quel che il Psi non era riuscito a fare in decenni di vita.
Per comprenderla egli fece riferimento alla necessità di elaborare un’ideologia, cioè cercare di
“fare una spietata autocritica della nostra debolezza”[8].
Di qui l’esortazione a chiedersi:
“perché abbiamo perduto, chi eravamo, che cosa volevamo, dove volevamo arrivare”[9].
È lo stesso approccio di Matteotti quando, nel suo noto intervento in parlamento, fece una radiografia incontestabile del terrorismo molecolare del fascismo. Un invito ai suoi compagni di documentare minutamente il turbamento per la crisi epocale innescata dallo squadrismo nella civiltà liberale. E insieme l’accusa di avere sottovalutato il turbine di ferro e di fuoco che stava per scaricarsi sul Paese.
Gramsci e lo stesso Matteotti alzarono la voce prendendosela con Giovanni Giolitti. È quanto sembra trasparire da scritti e relazioni di Palmiro Togliatti dedicati nel secondo dopoguerra all’azione politica del leader piemontese[10].
Che cosa, e come, di più e di meglio del non intervento del governo nei contenziosi tra capitale e lavoro, della legittimazione dei partiti, della stampa, delle cooperative socialiste, del diritto a chiedere una più avanzata remunerazione dei salariati, dell’attacco al padronato industriale per la sua resistenza a riconoscere il pluralismo e lo stesso conflitto come la grammatica elementare della coabitazione nei luoghi di lavoro eccetera?
Questo è stato Giolitti, insieme alle tante azioni negative (la corruzione, il trasformismo, un eccessivo senso dello Stato e un minore senso della società civile eccetera) addebitategli da Gaetano Salvemini e da molti altri[11].
Rispetto a lui che cosa potesse realizzarsi di più nel governo dello Stato e della società italiana il leader comunista non riuscì a spiegarlo neanche agli storici del suo stesso partito come Giampiero Carocci[12] e successivamente Massimo L. Salvadori.
Ma la percezione maggiore, cioè la consapevolezza del gravissimo limite suo e dei suoi compagni ordinovisti la ebbe proprio Gramsci.
In maniera assolutamente evidente mise in primo piano il deficit di cultura storica del partito, la mancanza o l’assenza vera e propria di principi. Dunque, l’imputato diventa l’ideologia, il disporre o meno, in misura piena o marginale, di una visione realistica della società all’interno della quale i comunisti intendono agire.
Secondo Gramsci, al pari di ogni altro partito rivoluzionario, i socialisti dopo trent’anni di vita
“sono stati deboli dal punto di vista rivoluzionario”[13].
Per potere passare all’azione, dovevano disporre di elementi imprescindibili come la conoscenza della situazione in cui dovevano operare, il terreno in cui dare battaglia.
Facendo proprio un aspetto segnalatogli da Piero Sraffa, affrontò un argomento che fu sempre al centro delle riflessioni di Matteotti, e sarà ripreso negli anni Settanta del XX secolo da Giorgio Amendola. Gramsci non esita a fare presente come
“in più di trenta anni, di vita, il Partito Socialista non ha prodotto un libro che studiasse la struttura economico-sociale dell’Italia Non esiste un libro che studi i partiti politici italiani, i loro legami di classe, il loro significato”[14].
Non si poteva pensare che potesse fare la rivoluzione una forza politica che ignorava
“perché nella valle del Po il riformismo si [fosse] radicato così profondamente”,
perché
“il Partito Popolare, cattolico, ha più fortuna nell’Italia settentrionale e centrale che nell’Italia del Sud”.[15]
e perché in Sicilia fossero autonomisti i grandi proprietari terrieri e non i contadini, e in Sardegna avvenisse il contrario.
Per non parlare della ragione per cui nel Sud tra fascisti e nazionalisti si fosse scatenata una lotta armata che è mancata altrove, e del motivo per cui dei sindacalisti rivoluzionari aderirono prima al nazionalismo e poi al fascismo, e ancora più in generale della mancanza di studi che spieghino come mai la sindacalizzazione sia prosperata tra gli operai agricoli e non tra gli operai industriali.
Di qui la constatazione che suonava come un verdetto politico interamente negativo:
“Noi non conosciamo l’Italia. Peggio ancora: noi manchiamo degli strumenti adatti per conoscere l’Italia, così com’è realmente e quindi siamo nella quasi impossibilità di fare previsioni, di orientarci, di stabilire delle linee d’azione che abbiano una certa probabilità di essere esatte. Non esiste una storia della classe operaia italiana. Non esiste una storia della classe contadina”[16].
In sintesi, in Italia la sinistra socialista e quella comunista (appena nata) recavano il limite gravissimo di essersi comportate come una setta. Non è casuale che sarà, questa, l’accusa ricorrente rivolta ai comunisti dai dirigenti del Comintern, a cominciare dall’ucraino Dmitrij Manuils’skij. Non perdonarono loro di abbeverarsi di una droga come l’ideologia e non di analisi storica che era considerato uno degli strumenti fondamentali per potere fare politica. Ad avviso di Gramsci, che muove questo rilievo già nel 1919, i suoi compagni non avevano, dunque, appreso niente dalla storia del gruppo bolscevico[17].
Sarà nell’estate dello stesso anno che Gramsci, affrontando il tema delle commissioni interne, della loro composizione, del limite o meno in cui contenere le rappresentanze degli operai sindacalizzati, fece un richiamo preciso ai Soviet russi[18]. Ed è facile, e inevitabile, stabilire una connessione con l’articolo, rimasto emblematico, “La rivoluzione contro Il Capitale”di circa due anni prima.[19]
Era il nuovo paradigma leninista, cioè l’idea che, non i rapporti sociali di produzione, ma il grado di coscienza antagonistica (cioè la soggettività) raggiunta dal proletariato era il faro che illuminava e dettava l’orientamento delle masse.
In questo modo, superando Marx come un ferrovecchio, i giacobini del bolscevismo in Russia e in Italia riuscirono a imporre il primato di un partito che non pensò mai di perseguire sul terreno specifico concreto la fine delle ineguaglianze sociali, ma realizzò una forma di nuovo dispotismo, quello del partito-Stato.
Le destre fasciste e naziste in Germania, Italia, Spagna e Portogallo furono legittimate a seguire questo percorso ideologico, organizzativo e cioè politico, messo a punto a Mosca.
Ci furono certamente diversità tra i regimi di estrema sinistra in Urss e di estrema destra in Europa, ma la via del totalitarismo attraverso la conquista dello Stato era stata inaugurata ed ebbe solo piccole soste (con Michail Gorbaciov).
Ma era stato Filippo Turati nel 1919 a Bologna, nel XVI congresso del Psi, in cui l’apologia della violenza politica (grazie all’ottobre sovietico) dominò l’intera assise politica, a usare Marx per cercare di far intendere che il suo abbandono da parte dei sovietici russi e degli italiani (in preparazione), lastricava la strada alla costruzione di una spaventosa dittatura. Da Lenin fino, direi, a Vladimir Putin. Quella che i comunisti hanno prima portato a modello e poi riverito fino a qualche ora fa.
A dominare fu il pregiudizio ideologico che il modo di produzione capitalistico dovesse essere contrastato con qualunque mezzo, anche se il prezzo pagato sarà la distruzione di ogni principio democratico.
La differenza tra Gramsci e i socialisti (non solo, quindi, i riformisti di Turati e Matteotti) riguardò il problema dell’unità e in particolare di affidare il partito ad un federatore, cioè la ricerca affannosa un capo. L’insistenza di Lenin su Giacinto Menotti Serrati sul punto fu pressante, ma il rifiuto del leader massimalista fu ugualmente tenace. Il Psi senza la ricchezza del dibattito, e delle divisioni, al proprio interno, avrebbe perso la sua identità, cioè ogni ragion d’essere.
Serrati non volle accogliere, e respinse, la richiesta di Lenin di fare fuori, cioè espellere, Turati, Matteotti e i riformisti, e creare, col (molto) che restava, la nuova sezione italiana dell’Internazionale comunista.
L’unità nelle diversità era l’identità storica del socialismo italiano.
Lenin non lo capì mai e si arrovellò cercando di imporre un criterio contronatura. Tale mi pare si possa chiamare l’invenzione di un capo che non solo federasse, ma disciplinasse su un metro ideologico unitario, l’indomabile correntismo socialista.
L’irriducibilità ad un solo punto di vista, per non parlare del culto della personalità e degli stessi dirigenti, come prevalse nel Pci con l’applicazione burocratica del centralismo democratico, è stata la ricchezza del Psi, Ma anche una grande garanzia.
In un’eventuale conquista dello Stato, avvalendosi della società civile e della stessa rete delle istituzioni statali, il Psi non avrebbe dato luogo né a verità uniche né a un solo punto di vista.
Il craxismo, con la riduzione delle correnti (da Riccardo Lombardi a Vittorio Foa) a maschere, si colloca, con esiti negativi per l’organizzazione e la crescita del Psi, nel tramonto di questo principio. Il pluralismo, insieme alle sue degenerazioni in correnti spartitorie, verrà decapitato riducendolo a mera moneta di scambio.
Lenin e i bolscevichi, invece, nel 1918 sciolsero l’Assemblea di Mosca in cui avevano prevalso i menscevichi di Julij Martov. Si trattò della prima dimostrazione offerta al mondo che il regime sovietico instaurato non tollerava nessuna forma di democrazia e di differenziazione, nessuna divisione dei poteri, nessun diritto delle opposizioni al controllo del potere. Nel reprimere il dissenso, condannare chi aveva il coraggio di manifestarlo, seppe inventare formule, a livello di codice penale per sanzionare il trotskismo, e di detenzione in campi di concentramento per quanti osavano ricusare il potere dominante che avrebbero creato invidia ai regimi zaristi.
Gramsci non seppe prendere le distanze da questo primo atto che segnava l’inizio del micidiale dispotismo sovietico quale storicamente lo abbiamo conosciuto. Amò chiamarlo giacobinismo.
Questo intermezzo della dittatura proletaria secondo Gramsci sarebbe servito a reprimere le forze contro-rivoluzionarie che impedivano la trasformazione del paese; e in secondo luogo a rendere possibile quella che era sembrato irrealizzabile[20].
L’utopia di cui scrive era il consolidamento dello Stato dei Consigli, cioè la nuova architettura del potere
“in cui la dittatura si dissolverà, dopo aver compiuto la sua missione”.
Era un episodio destinato a durare il tempo necessario perché i bolscevichi, che erano la sola forza politica rivoluzionaria ma ancora una minoranza, si costituissero e si manifestassero come una maggioranza.
È comunque assai significativo che
“La prima volta che l’attenzione di Gramsci si fissa sui Soviet è in corrispondenza proprio dello scioglimento della Costituente: quello è il punto di partenza del cammino che, attraverso la tematizzazione dello Stato dei Consigli, disegnerà un nuovo profilo della sua concezione del socialismo”[21].
Nei confronti di Matteotti sulle pagine dell’organo teorico Stato Operaio, il 28 agosto 1924, Gramsci si fece proteggere dall’anonimato per abbandonarsi ad un atto esorcistico classicamente comunista:
“il combattete sfortunato, ma tenace fino al sacrifici di sé, di un’idea la quale non può non condurre i suoi credenti e militanti ad altro che ad un inutile circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultati e senza via d’uscita”.
Di qui il titolo quasi diffamatorio che l’esponente italiano del Comintern diede al suo “obituary”, ovvero al suo necrologio: Pellegrino del nulla[22].
Anche l’Internazionale comunista interverrà con un manifesto rivolto agli operai e ai contadini d’Italia, in cui trasformava la denuncia del “vile assassinio” di Giacomo Matteotti in un rinnovato atto di accusa contro “i capi riformisti”.
Questa vile razza dannata anche di fronte al cadavere martoriato di Matteotti avrebbe predicato alle masse “la sottomissione e la pazienza” ripetendo un atteggiamento che in precedenza avrebbero mostrato
“quanto il fascismo infieriva contro gli operai di tuti i Partiti”.
Non risulta che analogo commento sia stato riservato a Iosif Stalin e a Vjačeslav Molotov quando nel 1939 stabilirono con Adolf Hitler e von Ribbentrop un accordo per la spartizione della Polonia e dei Paesi baltici di carattere quasi coloniale[23].
Era questo l’antifascismo a partita doppia che i comunisti amarono imbandire in nome di una logica da potenza semplicemente imperiale.
[1] Uscito ne La giustizia, 27 giugno 2024. Cfr. https://lagiustizia.net/una-farsa-classicamente-comunista-di-salvatore-sechi/
[2] Penso all’ideal-tipo di Borgo San Paolo approfondito nell’opera di Maurizio Gribaudo, Mondo operaio e mito operaio. Spazi e percorsi sociali a Torino nel primo Novecento, Torino, Einaudi, 1987, 203 p. e agli approcci dell’operaismo ottocentesco in alcuni saggi del volume introdotto da Carlo G. Lacaita, Cultura, istruzione e socialismo nell’età giolittiana, cura di Lino Rossi, Milano, Franco Angeli, 1991, 553 p. Penso in particolare al contributo in questo volume di Patrizia Audenino, “Non più eterni iloti: valori e modelli della pedagogia socialista” alle pp. 37-54 e al volume a cura della stesa autrice: Patrizia Audenino Democratici e socialisti nel Piemonte dell’Ottocento, Milano, Franco Angeli, 1995, 491 p.
[3] Ricavo queste informazioni da un saggio di Silone originariamente uscito a Zurigo in tedesco nel dicembre 1933: Ignazio Silone, Der Faschismus: seine Entstehung und seine Entwicklung, Zurich, Europa Verlag, 1934 294 p. Vedilo oggi nella traduzione di Marina Buttarelli: Il Fascismo. Origini e sviluppo, a cura di Mimmo Franzinelli, Milano, Arnoldo Mondadori, 2002, 310 p. [si veda in particolare p. 181].
[4]Antonio Gramsci, Opere, Socialismo e fascismo. L’Ordine Nuovo, 1921-1922, Torino, Einaudi, 1974, XVIII-555 p. Si veda l’articolo “Il nostro indirizzo sindacale”, Stato operaio, 18 ottobre 1923, in Antonio Gramsci, La costruzione del partito comunista. 1923-1926, a cura di E. Fubini, Torino, Einaudi, 1971, XV-565 p. [si vedano le pp. 3-7].
[5] L’autoaiuto, o automiglioramento detto anche selphelpismo (dall’inglese self-help) è un miglioramento autoguidato delle proprie condizioni di vita, in particolare emotive o psicologiche. Il termine fa riferimento in particolare a un diffuso movimento culturale e di mercato basato su libri, video, conferenze, indirizzate a chi desidera risolvere i propri problemi, concretizzare i propri desideri, e “realizzare sé stessi”, sia in circostanze specifiche (ad esempio salute, benessere emotivo, lavoro, famiglia, amore), sia nella vita in generale.
[6] Riprendo questa citazione dalla corrispondenza con Stefano Musso, che ringrazio per la sua collaborazione, in data 19 maggio 2021.
[7] Si veda il saggio di Gian Maria Bravo, “L’opera di Marx in Italia tra fascismo e dopoguerra”, Studi storici, XXIV (3-4) luglio-dicembre 1983, pp. 523-548, e Gianfranco Tortorelli, Studi di storia dell’editoria italiana, Bologna, Pàtron, 1989, 180 p.
[8] Antonio Gramsci (che firma come Giovanni Masci), “Che fare?” La Voce della Gioventù, 1° novembre 1923. Poiin Antonio Gramsci, Per la verità, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 267-27 L’articolo usci per la prima volta su La Voce della Gioventù, come ha documentato Davide Bidussa. Oggi può essere consultato online al seguente link: https://www.marxismo-oggi.it/images/recensioni/A._Gramsci_Che_fare.pdf
[9] “Che fare?”, La Voce della Gioventù, loc. cit. alla nota 8.
[10] Si vedano Discorsi torinesi e articoli su Studi storici di Togliatti
[11] Per un esame di questa assai sorprendente palinodia cfr. il giudizio di Massimo L. Salvadori, Giolitti. Un leader controverso, Roma, Donzelli, 2020, 220 p. [si vedano in particolare le pp. 151-155].
[12]Giampiero Carocci, Giolitti e l’età giolittiana. La politica italiana dall’inizio del secolo alla prima guerra mondiale, Torino, Einaudi, 1972, 184 p.
[13] “Che fare?”, La Voce della Gioventù, loc. cit. alla nota 8.
[14] Eodem loco.
[15] Eodem loco.
[16] Eodem loco.
[17] Antonio Gramsci, “La Taglia della storia”, L’Ordine Nuovo, 7 giugno 1919. Ora raccolto in Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo (1919-1920), a cura di Valentino Gerratana e Antonio Santucci, Einaudi, Torino, 1987, 905 p. [alle pp. 56-60]. Cfr. https://www.marxists.org/italiano/gramsci/19/tagliastoria.htm.
[18] Antonio Gramsci, “Democrazia operaia”, L’Ordine Nuovo, 21 giugno 1919. Ora raccolto in Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo (1919-1920), op. cit alla nota 17, pp. 87-91].
Cfr. https://www.marxists.org/italiano/gramsci/19/democraziaoperaia.htm.
[19]Antonio Gramsci, “La rivoluzione contro Il Capitale”, Il Grido del Popolo, 1° dicembre 1917. L’articolo venne censurato, ma uscì poi su L’Avanti! 24 dicembre 2017. Ora in La Città futura, 1917-1918, a cura di Sergio Caprioglio, Torino, Einaudi, 1982, 1032 p. [alle pp. 513-517]. Cfr. https://www.marxists.org/italiano/gramsci/17/rivoluzionecontrocapitale.htm.
[20] Antonio Gramsci, “Utopia”, 25 luglio 1918, ora in Il nostro Marx (1918-1919), a cura di Sergio Caprioglio, Torino, Einaudi, 1984, 734 p. [l’articolo si trova a p. 210].
[21] Rimando all’accurata ricostruzione di Leonardo Rapone, “Crisi, guerra e rivoluzione”, in Crisi e rivoluzione passiva. Gramsci interprete del Novecento, a cura di Giuseppe Cospito, Gianni Francioni e Fabio Frosini, Como, Ibis, 2021, 442 p. [il testo si trova alle pp. 40-42].
[22] “Pellegrino del nulla”, Stato operaio, 28 agosto 1924. Non firmato. Poi in Antonio Gramsci, Sul fascismo, a cura di Enzo Santarelli, Roma, Editori Riuniti, 1973, 451 p. [alle pp. 242-246].
[23] Si veda, dopo la prima coraggiosissima edizione curata da Angelo Tasca, la recente rivisitazione scritta da Antonella Salomoni, Il protocollo segreto. Il patto Molotov-Ribbentrop e la falsificazione della storia, Bologna, il Mulino, 2022, 280 p.