ELZEVIRO: INGLESE

INGLESE. lingua germanica occidentale parlata in Regno Unito, Irlanda, Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda; è la lingua franca contemporanea

Non è una lingua, l’inglese. Lo sanno bene anche gli stessi inglesi. Quando mi sono recato in Inghilterra per il mio dottorato, ho cercato di apprendere quella lingua, esattamente come fece Luigi Meneghello, che narrò la sua esperienza nel Dispatrio (1993). In quel periodo mi sono reso conto che l’inglese, in fondo, non è una lingua, almeno nel senso che diamo noi a questo termine. È una mescolanza, un amalgama di tre lingue: il latino, parlato dai sacerdoti; il francese, lingua dei nobili; e il tedesco, la lingua del popolo. Dall’incontro e dallo scontro di queste radici linguistiche è nato l’inglese. Ma c’è qualcosa che a questo idioma manca, qualcosa di fondamentale, che appartiene alla struttura del pensiero occidentale: l’astrazione, la vaghezza e la sensualità.

Gli inglesi, infatti, non pensano in modo astratto. E questa loro mancanza si riflette anche nel modo in cui costruiscono e usano il loro linguaggio.

Noi italiani, per esempio, possiamo utilizzare l’impersonale con naturalezza: “si dice”. I tedeschi diranno “man sagt”, i francesi “on dit”. Ma gli inglesi non hanno un vero impersonale: usano “you”, come se fosse impossibile concepire un discorso che non faccia riferimento diretto a una persona concreta. Se non c’è un “you”, un tu, se non si vede il soggetto con cui si parla, non si sa nemmeno a chi ci si riferisce. È un limite che si spinge oltre: non hanno nemmeno espressioni che traducano efficacemente “qualcuno” o “nessuno” nella forma astratta. Devono ricorrere a “somebody” o “anybody”, segnalando che se non c’è un corpo, un’entità tangibile, il discorso stesso si sfalda, non regge. E’ una lingua da cui traspare un terrore di fondo nei confronti della natura umana.

La lingua inglese è chiara, pargmatica, non usa i cogiuntivi che esprimono le possibilità. E’ una lingua atta a comprare e vendere, non ha vaghezza, non zone di interpretazione, spazi da riempire, vuoti da colmare con un inaspettato e inatteso senso.

Questo porta a un’inquietante conclusione: l’inglese è, a suo modo, un disastro linguistico. Non è un caso che non abbiano sviluppato quella filosofia che noi chiamiamo “continentale”, la grande tradizione del pensiero speculativo europeo. Gli inglesi si sono fermati alla filosofia analitica, una riflessione che si occupa quasi esclusivamente della struttura del linguaggio, e che con venti pagine di ragionamento può dimostrare che “se piove, si apre l’ombrello”. Una filosofia, quindi, che si perde nel concreto, che non si eleva al pensiero astratto. L’idea di fondo, lassù, è che la prosa è fatta per dire ciò che si vuol dire. Se si ha qualcosa da dire, più semplicemente e chiaramente lo si dice, meglio è. Ci si ritrova trapiantati e poi gradualmente assorbiti in un mondo empirico, dove l’isolamento ha spinto alla creazione di un impero e alla formazione di una lingua d’uso, impiegata o almeno facilmente compresa da tutti. Una lingua che si può scrivere quasi esattamente come la si parla, una lingua senza vaghezza, una lingua economica, che esprime un terrore di fondo nei confronti della natura sensuale umana.

E allora, quando siamo chiamati a fare lezione in inglese, dobbiamo tener conto di questa limitazione. Insegnare in inglese significa, inevitabilmente, rinunciare a una parte del pensiero astratto, a quella dimensione che è radicata nel nostro modo di pensare e di parlare. Ma la vera domanda è: perché dovremmo farlo? Perché dobbiamo sacrificare la ricchezza della nostra lingua, la complessità delle nostre idee, per adattarci a un idioma che non è in grado di cogliere appieno le sfumature dell’astrazione?

Volendone fare una storia sarebbero due storie incrociate: come da un lato l’esperienza inglese (EN) sta stravolgendo la percezione dell’Italia (IT) e d’altra parte come IT ha stravolto EN. Stiamo vivendo con l’idea che tutto ciò che avviene lassù è anche (per tutti noi) roba di qui. Ma il punto di vista continua a oscillare. L’Inghilterra è insieme lassù e quassù e altrettanto l’Italia. Qui, là: corrente alternata. Con l’obbligatorietà dell’inglese portata dall’egemonia economica, politica e quindi culturale l’anima italiana si anglicizza a nostra insaputa, ma resta comunque il fatto che viste da qui le cose italiane risaltano meglio, si ha l’impressione di capirle, o di fraintenderle, più energicamente.


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