“Dice: la mia “Sagra”, il mio “Uccello di Fuoco” come un bambino direbbe: la mia trombetta, il mio cerchio. È proprio un bambino viziato che ogni tanto mette le dita nella musica. Si aggira come un giovane selvaggio con cravatte da pugno in un occhio, baciando la mano alle signore mentre pesta loro i piedi. Da vecchio sarà insopportabile, ma per ora è straordinario.”
È il suo amico del cuore, Debussy, che ci racconta Stravinskij ancora giovane, ma già immortale.
Campione di eccessi, in quattro anni diventa il musicista più discusso, più controverso, più disprezzato ma anche il più famoso del mondo. 1910: “L’Uccello di Fuoco”; 1911: “Petruska”; 1913: “La Sagra della Primavera”.
Un crescendo di furia creativa che culmina il 29 maggio del ‘13 (lui ha trentun anni) con la prima della “Sagra”.
Più che di una serata teatrale si tratta di una furibonda battaglia con urla, fischi e scazzottate fra il pubblico, che gli regala un clamoroso successo, già nell’aria ma che esplode definitivo in quella occasione.
Dopo, non torna più in Russia e comincia a vagabondare per l’Europa: Svizzera, Francia, Italia per poi passare l’Atlantico e stabilirsi in USA dove rimarrà fino alla morte, travolto dalla gloria. Con un imbarazzante incidente: il 14 ottobre del 1941 in un concerto a Boston dirige un suo arrangiamento dell’inno americano. Immediato intervento della polizia che minaccia di arrestarlo per aver trasgredito una legge del ‘700 che ne proibiva qualunque trascrizione.
Igor è figlio di un padre autoritario, e questo fin dall’infanzia gli crea un difficile rapporto con la famiglia, che si porterà dietro tutta la vita. Comunque si sposa un paio di volte e ha quattro figli. Lo studio della musica lo comincia tardi e lo prosegue in maniera intermittente (fra i suoi insegnanti Rimskij Korsakov), tanto è vero che alla fine si dichiara autodidatta.
Quello che conta veramente nella sua vita è l’incontro con Djagilev, l’organizzatore della compagnia dei Ballets Russes, che gli commissiona, in collaborazione con Fokine coreografo e Picasso scenografo, le musiche dei tre balletti che, come abbiamo visto lo lanciano nella stratosfera della notorietà.
Appena diventato famoso, interpreta la parte fino in fondo e la mondanità sa benissimo come cavalcarla. Bello non è, ma è fotogenico; un vero uomo di mondo, molto chiacchierato per le sue presunte avventure con signore della buona società, fra cui Coco Chanel. Sarà vero? Intanto, nel ’20 e con tutta la famiglia, si trasferisce per un lungo soggiorno proprio nella villa di lei, vicino a Parigi.
È l’ospite più richiesto di ogni festa, ogni cena, ogni spettacolo in ogni città del mondo, l’orgoglio di ogni padrona di casa e ogni direttore di teatro, e questo sembra autorizzarlo a permettersi qualunque malignità ai danni dei suoi colleghi.
Richard Strauss: “Sciropposo”. Hindemith: “Indigesto come un pezzo di cartone”. Wagner: “Dopo un quarto d’ora non ce la facevo più”. Rachmaninov: “La sua musica? Acquerelli”. Glazunov: “Un pesante accademista teutonico” e, in più “L’uomo più antipatico che ho conosciuto”, e così via spettegolando.
Tanto per gradire, ecco di ricambio il giudizio di Adorno su di lui: “Stravinskij è un acrobata, un funzionario statale, un manichino da sarta; psicotico, infantile, fascista e devoto solo al denaro”.
In compenso va in brodo di giuggiole per Mussolini (riportiamo da Zaccagnini “Una storia dilettevole della musica”): “Mussolini è un uomo formidabile. Non credo che qualcuno abbia per Mussolini una venerazione maggiore della mia. A meno che le orecchie non mi ingannino, la voce di Roma è la voce del Duce”
Stravinskij non smette mai, letteralmente, di buttare giù musica, neanche negli ultimi anni della sua vita, passati quasi tutti fra cliniche e ospedali. Ecco come, non senza un certo ottimismo, interpreta le sue trombosi ricorrenti: “Colpi che contribuiscono a dischiudere i più remoti nascondigli della mia memoria e a spargere un prodotto chimico rigeneratore sul palinsesto del libro dell’infanzia”.
Nei momenti che gli lasciano liberi i ricoveri clinici dirige, ma seduto, perché ormai il corpo non lo regge più. Accoglie con interesse, ma non riuscirà a realizzarla, l’offerta della BBC di scrivere una musica da associare all’immagine di un occhio dipinto da Picasso, per usarla come sigla di un nuovo canale a colori. Durata: sei secondi!
Il suo è un calvario: emboli, ulcere, polmoniti, tubercolosi e più dolorosa di tutte, la proibizione dei medici di sedersi al pianoforte per comporre. A questo proposito, pochi giorni prima della fine: “Mi piace comporla, non ascoltarla, la musica. È tutta la vita che sono perseguitato dalle mie opere, ma delle mie opere non mi importa nulla. M’importa solo comporre. E adesso non posso più farlo” e muore.
Sarà sepolto accanto a Djagilev, nella limpida luce della laguna, all’Isola di S. Michele, il cimitero di Venezia.
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