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Brand Italia. L’indice di reputazione di una nazione

STEFANO ROLANDO PER DEMOCRAZIA FUTURA

1.Brand Italia. Quale è oggi il nostro posto in classifica?[1]

Da un mese all’altro l’indice di reputazione di una nazione – salvo guerre e tracolli – non può cambiare di molto. E infatti non ci sono fattori rilevati se non di medio e lungo periodo.

Quindi il “posizionamento reputazionale”, nel suo complesso, nel breve periodo appare lineare.

E parlando dell’Italia – sempre in generale – per la verità anche prendendo un tempo lunghetto, diciamo un anno, la posizione in classifica generale non muta un gran che.

È il Nation Brand Index, inventato anni fa da Simon Anholt, oggi gestito in collaborazione con Ipsos, ad allineare annualmente le nazioni (e, con altro indice, anche le città) in cui nel bel mezzo del 2024 l’Italia è registrata al nono posto. Come era anche nel 2023.

Vista così, questa stabilità appare positiva, sia perché stiamo parlando di una graduatoria mondiale con dentro paesi che sono antichi monumenti di buona immagine ma, da tempo, anche new entry che arrivano con nuovi risultati da ogni parte del mondo. Prima o poi – lo disse una volta proprio Anholt – qualche ribaltone ci sarà. Per ora, solo piccoli spostamenti, ma in un top ten in cui gli equilibri tutto sommato resistono.

Facendo sempre attenzione che l’indagine tiene poco conto dell’oceano delle parole che accompagna storia e cronache del mondo. La stragrande maggioranza dei terrestri non dà retta alle parole. Contano le icone che ciascuno trattiene dentro di sé come metafore di quella storia e di quella cronaca. Di solito poche, allusive, a volte vive nella vita delle nazioni, altre volte da un pezzo in soffitta ma presenti nell’immaginario collettivo del pianeta (Benito Mussolini è stato associato all’immagine dell’Italia nel mondo quasi fino alla fine del secolo scorso).

A guardare gli andamenti, il top ten presenta fluttuazioni al centro, ma in alto e in basso invece c’è stabilità.

Stabili in alto sono i tre paesi di testa, nell’ordine Stati Uniti d’America, Cina e Germania.

Ricordo che non parliamo di dati reali, di misurazioni di PIL, di reddito o di produzione.

Parliamo di come gli abitanti del mondo, che conoscono poco il mondo ma lo immaginano, dichiarano – se ben interrogati statisticamente – la loro “immaginazione”.

Qualcuno chiederà: ma serve a qualcosa questo dato che in fondo è solo percettivo?

La risposta è: certo che serve, anche se con cautela.

Perché quell’immaginazione è un potente rivelatore di desideri e di riluttanze. Non sulla base di riscontri concreti, ma sulla base del risultato di una battaglia immateriale tra narrazioni, fantasie, stereotipi in incremento o in riduzione e una certa quota anche di fake news.

C’è stabilità nel top ten anche “in basso”, cioè dal settimo al decimo posto. Nell’ordine: India, Canada, Italia, Corea del SudDal 2023 al 2024 crescono invece di una posizione il Giappone (ora quarto) e il Regno Unito (ora quinto). Mentre flette di una posizione la Francia (sesto posto e ce lo si aspettava).

Dunque, secondo gli sperimentati ranking anglosassoni, l’Italia è considerata capace di tenere la posizione (pur essendo nel recente passato anche arrivata al sesto o al settimo posto) in un contesto in cui l’erosione è lenta ma continua. E proviene da paesi dell’area terza del sistema mondiale che si avvicinano (Indonesia è sedicesimo ma cresce di una posizione; Messico è diciottesimo ma cresce di tre posizioni; Brasile è diciannovesimo ma è tornato a risalire quest’anno di una posizione; eccetera).

Il nono posto non è insomma un declino di immagine, è una posizione di difesa dei fattori forti che – a fronte della grande maggioranza dei terrestri – assumono valori che non sono forti per tutti. Tuttavia, anche per l’Italia il vento della concorrenza (in questo campo è una gara tra “sirene”) soffia eccome.

Bisogna tenere a mente che questo dato globale – che viene ricavato da un panel statistico globale accuratamente bilanciato – forma un esito molto ben approssimato circa l’immaginario planetario.

Ma poi è quasi inservibile quando si ragiona o si agisce nei singoli contesti del mondo, quelli che si chiamano “aree regionali” dove si sviluppano scambi, mobilità e conflitti.

È un po’ come il dato sul PIL pro-capite. Buono a sapersi, ma questo non serve molto a capire se il vicino di casa ha i soldi per pagare le spese condominiali.  La stragrande maggioranza delle miliardate di esseri umani che popolano la Terra attribuisce reputazione a ciò che la minoranza di quei popoli, cioè noi (non dico i lettori del Riformista o di Democrazia futura, dico gli occidentali) non considera fattori importanti di “reputazione”. Valori diversi di buono, di bello, di agognato, di desiderabile.

Forse la parola “inservibile” è un po’ esagerata. Perché, in fondo, in quel giudizio di reputazione, tutto di carattere percettivo, spesso da lontano, lontanissimo, in cui non può giocare un gran peso il presente reale in tutte le sue forme, mette in campo tuttavia il passato, con tutti i suoi sedimenti.

giocano alcuni elementi strutturali, naturali, ambientali, legati a grandi radici o a cose di vasta notorietàcome, per esempio, il cibo, l’eleganza, la musica, lo spettacolo, eccetera, campi su cui l’Italia ha un posizionamento alto che viene da lontano.

Dunque, in fondo, questo è un vero patrimonio nella borsa dell’immaginario.

  1. La nasometria del nostro Paese[2]

Si è detto che l’Italia ha un posizionamento alto, che viene da lontano e che ne fa un vero patrimonio nella borsa dell’immaginario.

Non è, dunque, inservibile. Resta un fattore di fondo. Ma deve misurarsi seriamente anche sulla percezione di coloro che conoscono, che sono più vicini alle realtà, che interagiscono e negoziano con il paese reale, che vedono e raccontano elementi di forza e di declino.  

Dunque, vedere l’altro aspetto dell’immagine è il necessario rovescio della medaglia, che chi governa (chi governa qualunque cosa, lo Stato, il territorio, l’economia, la cultura, l’educazione, eccetera) deve sforzarsi di tenere in equilibrio valutativo. E allora, bene sapere se siamo al nono, al decimo o al trentesimo posto nella classifica globale (tra le città lo slittamento di posizione verso l’alto e verso il basso, è più forte e capriccioso), cioè, sapere quale è il PIL immaginario pro-capite nostro e degli altri nel mondo. Ma per entrare in dinamiche di senso (senso, cioè, critico, per la competizione e per ipotesi di cambiamento) dobbiamo anche percorrere un’altra strada: passare da analisi statistico-demoscopiche generali ad analisi che appartengono di più alla “nasometria” attorno agli avvenimenti.

La nasometria è una religione mediaticaI bravi giornalisti ci aggiungono anche una salsina che forma il gusto: l’accertamento. Nel caso bisogna scendere in quel fazzoletto del pianeta che è l’Italia per sfogliare il repertorio delle notizie recenti per un aggiornamento sulla sostanza della nostra reputazione. Anche per far questo, serve un po’ di metodo e qualche regola.

  • Le categorie dell’accertamento sono almeno una ventina, che misurano andamenti diversi (politica, economia, cultura, eccetera).
  • Ad esse si aggiungono gli ambiti di servizio pubblico (che misurano il grado della qualità civile), che sono una decina (ospedali, formazione e università, gestione del bisogno, eccetera).
  • Poi ci sono le trasversalità, di cui tener conto caso per caso (sicurezza, criminalità, laboriosità, indole, eccetera).

Non si fa buona nasometria se il format di indagine è scriteriato. Ora, buona parte dello spazio disponibile ce la siamo fin qui spesa per fare una certa introduzione sulla reputazione dei brand nazionali. Per scendere un po’ a terra sarà necessaria una “fase due”.  Selezionando notizie di recente impatto e cercando di capire in cosa consiste questa altra mappaSulla quale non si esprimono esseri umani di altre latitudini che danno il voto a riverberi generali. Ma si esprimono in prima istanza cittadini per lo più residenti ed elettori; operatori con comportamenti in qualche modo relazionati a quell’impatto; media che condizionano la natura del dibattito pubblico.

L’obiettivo è cogliere se questo 2024 è in linea con quel senso di tenuta di posizione in alta classifica che i ranking ci attribuiscono. Sempre ricordando che il giornalismo resta una non scienza, nel senso che non sopporta troppe gabbie programmate. Al massimo il titolino fisso di una rubrica. Poi regna l’agenda day-by-day. Un’agenda in cui agisce il pluralismo dei media che può consegnare ai propri frammenti di pubblico al massimo il 10 per cento di quello che si chiama “flottante notiziabile”.

Sull’immagine dell’Italia le notizie sono tante, ma non tutte realmente incidenti. Bisogna scegliere, misurare, confrontare. Senza dimenticare la “nasometria”, quella che ci fa cogliere l’incidenza o la sterilità delle notizie.  Cosa che di questi tempi ci fa vedere meglio cose che pesano sul tema: dall’intitolazione di Malpensa a Berlusconi alla scalata di Unicredit a Commerzbank.

Un riscontro nazionale di tipo reputazionale, quindi con carattere internosu un tassello del tema Brand Italia viene ad esempio in questi giorni dalla rilevazione Ipsos (Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera) relativa al “gradimento” da parte degli italiani del governo e della premierSi misurano i due anni di governo. Che all’inizio partiva con il 52 per cento per cento e Meloni con il 54 per cento, mentre ora il dato è appaiato per le due voci al 44 per cento.

Dunque, calo progressivo, con trend simile a governi precedenti (salvo il Conte II che invece risalì). Molte competenze seguono questo lento calo, non la “politica internazionale del governo” che mantiene un saldo finale superiore alla curva generale. A fine anno avremo la rilevazione Demos (Ilvo Diamanti su Repubblica) relativa alla fiducia rispetto a una trentina di contesti istituzionali la cui somma non fa “Italia”, ma una porzione importante.  Perché, come detto, si tratta di report di percezione interna che non misurano l’immagine globale del Paese ma vi concorrono.

Nei prossimi articoli, scenderemo dunque sui fatti recenti. Temi che di solito i governi sbandierano come grandi successi e le opposizioni dipingono come grandi fiaschi. L’aleatoria “reputazione” non si misura a tassametro. E si forma anche dopo la mediatizzazione. Quando se ne sa di più e se ne scorgono le conseguenze.

Per questo, quando si fanno questo genere di mappe, più si colgono i chiaroscuri più ci si coglie.

  1. I fatti politici, in quattro punti[3]

Eccoci alla seconda parte della metafora dell’immagine nazionale (per noi brand Italia) raccontata come una mela.  Non l’apologo delle due parti simmetriche o del morso di Adamo. Ma quello più controverso del fuori (bello, rosso, colorato) e del dentro (legittime differenze, con parti dolci e magari parti andate a male).

Abbiamo detto che negli accreditati ranking sulla reputazione delle nazioni (Nation Brand Index, di stampo e metodo britannico) l’Italia è, con stabilità recente, al nono posto. Dunque, è nel top ten, ma deve competere con i vicini di banco (Corea del Sud al decimo posto, poi Australia, Spagna, Olanda, Svizzera ed Emirati arabi che scalano la classifica) e sente anche la marcia in crescita di paesi terzi che stanno migliorando la posizione (Indonesia, Messico, Brasile e altri). Ma difende storia e prestigio finora con buon esito, dovuto a un patrimonio genetico consolidato (che noi consideriamo consolidato) nell’immaginario planetario.

Abbiamo anche detto che la reputazione di nazioni e città non è un trofeo inerte. È segnale di una condizione generale astratta che si mescola, giorno per giorno, con i frammenti di un concreto mosaico. Costituito da fatti che finiscono nell’agenda (locale; nazionale; poi, in forma distillata, globale). Fatti che appartengono a tutti i settori in cui evolve la relazione tra la genetica e l’uso che la comunità e la sua classe dirigente fanno di quel patrimonio, affrontando sfide in tutti i campi. Le narrazioni che si producono (parole, immagini, dicerie, azioni in cui la forza del destino litiga con l’immenso particolare della condizione e della presunzione umana) alimentano o smentiscono l’immagine generale astratta. In certe cose uniformandosi, in altre differenziandosi. I temi scelti (nell’affollamento di notizie plausibili del periodo) da commentare nella seconda parte di questo articolo, erano una montagna. Ridotta ora giornalisticamente a otto notizie. Cominciamo dalla politica.                                                  

L’andamento della presidenza italiana del G7.

L’architettura di una organizzazione di eventi connessi al negoziato diplomatico (11 riunioni ministeriali, attorno al summit principale, tra marzo e novembre 2024) appartiene a una cucina istituzionale che da anni va a patti con un bisogno di “comunicazione di cornice” che alla fine investe obiettivi poco strategici. Ma in cui il saldo appartiene ad una chimica di influenze, alleanze e decisioni che resta sottotraccia. Ovvero riservata agli addetti ai lavori. Gli “addetti ai lavori” sanno che su molti nodi le posizioni di partenza sono discordanti oppure ci sono le elezioni nazionali a determinare una profilazione “distratta”.

In due parole l’obiettivo della presidenza di turno diventa quello di garantire minimi comun denominatori, in questo caso cercando una sinergia generale con l’altra presidenza di turno, quella tedesca del G20. Quindi al di là delle derivate logistiche di immagine (Taormina, Puglie, Borgo Egnazia) la pagella degli addetti ai lavori in ordine all’obiettivo italiano di “costruire le basi di una fiducia rinnovata” (gergo ufficiale) è di una realistica sufficienza. Il “protagonismo” di cui ha parlato Giorgia Meloni va soprattutto ricollocato nel tradizionale appeal del Bel Paese. Con un fatturato prioritario di foto-opportunity, non di grandi mediazioni diplomatiche.

Giorgia Meloni nell’America al voto

Qualcosa in più di una foto-opportunity è invece l’idillio Meloni-Musk. Parlo del Citizen Award concesso dall’Atlantic Council (lobby che promuove la leadership americana) a personaggi distinti a difesa di valori che gli americani considerano importanti.

Come per Mario Draghi (che scelse di essere premiato da Henry Kissinger), Giorgia Meloni ha scelto Elon Musk. È arrivata alla Ziegfield Ballroom vestita con un lungo abito nero, al braccio del consigliere militare Franco Federici in alta uniforme e i media hanno registrato un’accurata sceneggiatura di accreditamento (speech compreso), ma gli analisti hanno provato a interpretare l’evento e le contraddizioni sottintese.

Allo stato la spiegazione più credibile – che può svilire appunto imbarazzanti contraddizioni – è il convincimento della premier italiana del prossimo successo elettorale di TrumpDa qui il rallentamento sull’allineamento a Biden e l’avvio della manovra di attracco alla corazzata trumpiana. La voce (propagandata dal governo come straordinaria immagine internazionale) va letta con i suoi chiaroscuri.

Il negoziato italiano nel quadro della nuova legislatura europea

 Questo è stato il fronte più difficile perché per l’intreccio di ragioni “oggettive” (demarcazioni tra maggioranza e opposizioni, ambiguità interne ai gruppi parlamentari, interessi nazionali da raccordare sempre e su tutto) la “doppiezza” strategica della linea di governo (in Italia a regolare conti con l’egemonia a destra, in Europa a regolare conti con paesi forti e fondatori) non ha potuto essere nascosta ma ha obbligato Meloni a non negoziare come premier ma come presidente dei conservatori europei.

Alla fine, non stando in “maggioranza” ma rivendicando un esito all’altezza del peso e dell’influenza italiana. Posizione sofferta e a ostacoli, rispetto a cui la designazione di Raffaele Fitto (sostenuta anche dal PD italiano) ha salvato bandiera e interessi, anche nel quadro di una crisi negoziale di Francia e Germania. Scelta che nel Palazzo si valuta come il rischio minore. Anche qui realismo contro chiacchiere. 

La linea della premier italiana di intrecciare sempre la reputazione dell’Italia con la sua immagine personale

 Questo terzo aspetto – inteso qui come una trasversalità su tutta l’attuazione delle politiche, dei comportamenti e della comunicazione, che è quello che la premier rivendica più a suo merito e a sua impronta – potrebbe rivelarsi invece come la gamba più traballante del tavolo.

Perché alla fine la fisionomia della “leader” che tiene insieme appunto radici, scelte, gruppi dirigenti, stile, strategia di immagine e forme di esercizio dei ruoli, tende a schiacciarla più su una Evita Peron del nostro tempo che su una Margareth Thatcher da terzo millennio.

Non c’è spazio per i dettagli. Ma è proprio su questo punto che il fattore “immagine” nel dossier “politica” perde punti e apre interrogativi in ordine ad una evoluzione limitata della storia dell’underdog dalla Garbatella a Palazzo Chigi. Fermo restando che questa evoluzione risponde ad una domanda sociale in Italia e nel mondo più spinta verso caratteri demagogici e populisti e per questo con esiti di tenuta del consenso che la giustificano.

L’episodio Meloni-Musk (di scuola berlusconiana) è parte della commistione senza remore tra immagine personale e immagine nazionale, vietata nei codici etico-comunicativi della “prima Repubblica” e tutto sommato più in voga nei regimi autoritari che nelle sane democrazie.

  1. I fatti dell’economia in quattro punti[4]

 Eccoci all’economia, nella quarta e ultima delle puntate dedicate al Brand Italia.

La manovra di bilancio in discussione

Le manovre finanziarie – due concluse, una in lavorazione – sono caratterizzate dalla volontà di implicare il meno possibile l’immagine del governo attorno ai provvedimenti assunti.

La prima, andata in continuità con Draghi con limiti in ordine alle politiche fiscali, a parole tema strategico ma poi rimaste inalterate, dunque influenza decisiva dell’apparato.

La seconda ha messo a terra 28 miliardi concentrati su taglio del cuneo fiscale e nuova Irpef a tre aliquote. Ma le attese per scuola e sanità sono rimaste deluse.

La terza in corso scende a 23 miliardi, con ansie di fronteggiamento delle spese indifferibili, il rapporto tra politica e scelte strategiche prende tempo.

In sostanza l’immagine del governo scivola negli atti dovuti cercando di metterci poco la faccia e intestandosi il minimo indispensabile.

Una storia emblematica della “classe dirigente”. L’evoluzione di immagine in rapporto all’italianità della famiglia imprenditoriale italiana più importante del Novecento, gli Agnelli, ora con eredità mescolate ad altri affari. Le carte bollate che entrano di prepotenza in una vicenda in cui nel Novecento niente avrebbe varcato le soglie di riservati trattamenti e ora finiscono in telenovela sui media, sono la misura della trasformazione del rapporto di dedizione dei nostri più famosi imprenditori verso l’Italia e le sue territorialità in una fuga stellare da questa etica per trasferirsi nel business finanziario globale. A quell’etica sono rimasti alcuni piccoli e qualche medio imprenditore di territorio. Per il resto siamo all’involuzione di responsabilità che corrisponde anche all’evanescenza stessa della borghesia italiana, con la classe operaia che approda al voto di destra per fragilizzazione di ruolo e sicurezze.

Lo specifico del made in Italy (un tassello rilevante del brand Italia) considerando due voci di maggior prestigio: Ferrari e Moda.

L’impressione è che la bandiera del ‘core business’ del brand Italia alzata dal governo a richiamo di felici intuizioni degli anni Ottanta, abbia perso la sua forza sia nella crisi dei sistemi produttivi (made in Italy come produzione non più integrale nel territorio) sia nella difficoltà di mantenere primati a fronte dell’ingresso nell’area della qualità di paesi produttori a costi più contenuti. Anche qui la finanziarizzazione tiene in equilibrio i conti economici ma non le strategie competitive. L’affanno di Ferrari in ordine ai risultati agonistici (non nel merchandising) e l’avanzata della colonizzazione francese dell’alta moda italiana sembrano fatti non reversibili.

Una piccola voce dell’economia della cultura: il posizionamento internazionale del cinema italiano

Nell’anno del novantesimo compleanno di Sofia Loren e del centenario della nascita di Marcello Mastroianni – colonne della proiezione internazionale del cinema italiano nel Novecento – viene d’istinto mettere questo “vettore di immagine” in una rassegna pro/contro il brand Italia.

Impresa difficile perché il cinema italiano c’è, chiude un 2023 dignitoso (120 milioni di incasso e 18 milioni di presenze, anche se con crescita più dovuta a C’è anche domani di Paola Cortellesi che a dimensioni di sistema) e poi nella prateria planetaria deve vedersela con handicap storici (dimensioni, investimenti, controllo dei sistemi di consumo di massa). Tuttavia, restano indizi che hanno poco a che vedere con la politica ma con la cultura di adattamento che il settore manifesta (fatto emblematico nazionale per cui c’è questa voce su un tema non di prima fila). La Chimera di Alice Rohrwacher entra nei best of del Time (c’è anche Rapito di Marco Bellocchio). Paolo Sorrentino fa partire da Cannes con Parthenope un tema legato a stereotipi e cambiamenti di Napoli che è importante per l’Italia. Vermiglio, di Maura Delpero (Italia, Francia, Belgio), premiato a Venezia, quarto in classifica al box-office, rappresenterà l’Italia agli Oscar. Nelle celebrazioni dell’anno Christophe Honoré ha portato a Cannes Marcello Mio! con Chiara Mastroianni che interpreta sé stessa. D’accordo, frammenti. Ma non è il deserto.

Che profilo di immagine unisce questi otto “quadretti”?

Quello di una fase a guida “conservatrice”. L’espressione scelta da Giorgia Meloni per presentarsi all’Europa. Lo sguardo al futuro è occasionale e fugace. Quello al passato è motivato da piccoli regolamenti di conti e da un attivismo comunicativo dedicato più alla persona della premier che al rinnovamento dell’identità italiana. Questa malintesa politica “conservatrice” è all’origine di equivoci nella manutenzione del brand Italia che ha bisogno di respirare futuro. Lo spazio qui si è però esaurito. Se ne riparlerà in altra occasione. Tra l’altro guardando anche a società, costume e cultura. Controprove rispetto a questa per ora generica impressione.

  1. Fact checking. Sul posizionamento nei ranking, una rettifica[5]

 Verifiche svolte sui ranking in rete connessi ai brand nazionali. I dati sulla percezione immaginaria 2023 ci vedono al quinto posto. Quelli del 2024 saranno noti a novembre.   Se ne deduce che l’Italia è più forte nell’immaginario planetario che nella concreta dimensione di attrazione economico-finanziaria.

Dico grazie al Riformista che ha creato – sotto la voce “Reputazioni” – uno spazio di riflessione su un approccio di cui tutti parlano (il peso dell’immaginario nella vita delle nazioni e delle città) ma che poi viene trascurato circa i dati e le analisi che motivano un posizionamento sempre in movimento, che richiede accurati accertamenti. Con quattro recenti articoli ho provato a svolgere questo approccio, in relazione alla posizione del nostro paese, parlando cioè di Brand Italia. Nel primo articolo cogliendo i dati attuali dei ranking e in quelli successivi entrando un po’ nei contenuti. In particolare, gli ultimi due articoli hanno provato a “mappare” i fatti politici ed economici più influenzanti dell’anno in corso.

È necessario fare ora una importante rettifica. Della quale devo ringraziare proprio Simon Anholt, che ho citato come uno dei maggiori specialisti internazionali di questi ranking (opera in Gran Bretagna dal 2005 mettendo a punto annualmente il Nation Brand Index).  All’inizio di questa inchiesta ho rivolto ai collaboratori dell’Osservatorio sulla comunicazione pubblica e il public branding del mio ateneo la richiesta di fare emergere dalla rete i dati delle prime venti posizioni segnalate dal “Nation Brand Index” riferiti al 2024. Con quella dicitura i motori di ricerca forniscono una sola tabella e attorno a quei dati è stato imbastito l’articolo che segnala la posizione al nono posto in classifica dell’Italia, confermando il dato del 2023.

Lo stesso Anholt – a cui ho mandato l’articolo – mi ha però segnalato che nel 2024 la sua analisi non avviene più in collaborazione con Ipsos (come era fino allo scorso anno e come avevo scritto) ed è tornata ad essere Anholt Nation Brand Index, aggiungendo che i dati relativi al 2024 non sono ancora stati lanciati. Ma dicendo anche che i dati da me utilizzati si riferiscono ad un’altra fonte (all’origine suoi collaboratori, poi in qualche modo competitor) con titolo simile “Nation Brands 193 2024 Ranking”. In questo repertorio sono però analizzati i processi finanziari, cioè la forza di attrazione dei brand operanti in ciascuna nazione. In questa classifica – effettivamente – l’Italia è al nono posto, confermando l’anno precedente e i primi tre paesi in classifica sono – come ho riferito – Stati Uniti, Cina e Germania.

I motori di ricerca conducono anche alle tabelle promosse da Anholt, ma si tratta di quelle del 2023. E quindi sono in posizione meno evidente nei motori di ricerca stessi. L’indice del 2023 vede nelle prime tre posizioni Giappone, Germania, Canada, poi alla quarta posizione la Gran Bretagna e, con nostro apprezzamento, al quinto posto l’Italia (che pur nel 2023 è retrocessa di una posizione rispetto al 2022).

Seguono Stati Uniti d’America, Svizzera, Francia, Australia e Svezia. Qui l’approccio riguarda la percezione dell’immaginario globale, così come trattato nella nostra inchiesta: il mondo conosce molto poco il mondo, ma lo immagina.

Abbiamo per ora valutazioni “di cantiere” perché il rapporto 2024 sarà in circolazione a novembre e si ha motivo di pensare che non dovrebbero esserci grandi cambiamenti circa la posizione complessiva.

Dice, con più accuratezza, lo stesso Anholt:

  • Il Nation Brands Index (NBI) è la media di molte medie e ha un significato quindi limitato. Ogni anno intervistiamo più di 40 mila persone provenienti da 20 paesi, utilizzando un questionario di oltre 30 domande e 15 indicatori demografici. Ciò che conta davvero è il dettaglio: come gruppi demografici specifici in paesi specifici percepiscono aspetti specifici di ogni paese.
  • Piccoli cambiamenti nella posizione in classifica da un anno all’altro (fino a tre posizioni) sono generalmente statisticamente insignificanti. Il NBI, a questo livello, è estremamente stabile per il semplice motivo che le persone, collettivamente, cambiano molto raramente opinione sugli altri paesi, a meno che quei paesi non entrino in guerra o non sconvolgano l’ordine mondiale in qualche altro modo significativo e molto visibile.
  • Il NBI si basa sul mio “esagono dell’immagine nazionale” del 1998, un modello che identifica i sei canali naturali attraverso i quali i paesi, deliberatamente o accidentalmente, formano la loro immagine internazionale: governance, esportazioni, persone, cultura, immigrazione e investimenti, turismo (l’Italia nel 2023 era al primo posto negli indicatori “Cultura” e “Turismo”, come lo è spesso).

Un’ipotesi di lavoro – quindi anche di discussione – può essere ricavata da questi diversi approcci che si mescolano in rete. Che l’Italia si collochi in posizione più forte nella pura percezione immaginaria nel mondo e in posizione pur sempre competitiva ma meno forte nel riscontro di realtà in ordine alla “capacità attrattiva” (finanziaria e commerciale) del suo sistema creativo-produttivo.

Del resto, se si confermasse questa interpretazione, per chi si occupa di “reputazione nazionale” non sarebbe neppure una cosa così stravagante.

[1] Scritto per Il Riformista, 8 ottobre 2024. Cfr. https://www.ilriformista.it/brand-italia-perche-il-nostro-paese-resta-al-9-posto-lindagine-del-nation-brand-index-440864/.

[2] Scritto per Il Riformista, 9 ottobre 2024.Cfr. https://www.ilriformista.it/il-gradimento-del-governo-meloni-scende-e-malpensa-andava-intitolato-a-berlusconi-brand-italia-quando-il-riscontro-nazionale-passa-per-la-nasometria-441140/.

[3] Scritto per il Riformista, 10 ottobre 2024.Cfr. https://www.ilriformista.it/brand-italia-i-negoziati-il-rapporto-tra-meloni-e-musk-e-limmagine-nel-dossier-politica-che-perde-punti-441233/.

[4] Scritto per II Riformista, 11 ottobre 2024. Cfr. https://www.ilriformista.it/brand-italia-anche-sulleconomia-il-governo-meloni-e-conservatore-dalle-manovre-finanziarie-ai-problemi-del-made-in-italy-441398/.

[5]Scritto l’11 ottobre 2024. Cfr.  https://stefanorolando.it/?p=9816

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