RIPOSO NOTTURNO IN VIA PIAVE A FOLIGNO
Due piani con finestre incorniciate da elementi geometrici e floreali, così i due portoni. Un terrazzo sul davanti, un tetto a pagoda, e sotto, come raccordo arrotondato, una ventana, nel gergo dei muratori, che marcava il passaggio verso i muri perimetrali. Nell’insieme, un’abitazione gentile da borghesia benestante e colta, impreziosita dal verde del giardino con aiole piene di fiori e alberi sempreverdi e a foglie caduche, i cui rami sporgevano all’esterno a donare ristoro estivo a coloro che passavano lungo la strada. La luna sorta ad oriente dietro la guglia del monte di Pale illuminava la casa, la strada e il terreno del giardino, coperto da un tappeto verde che le foglie cadute dagli alberi contribuivano ad arricchire con i marroni, i gialli, e tutte le molteplici sfumature dei colori dell’autunno. Intravidero una luce che proveniva da una finestra del secondo piano. Si decisero, suonarono il campanello, posto accanto al cancello che dava accesso al giardino. Dopo alcuni minuti udirono il rumore di una persiana che si apriva, e sul balcone apparve il contorno di una figura che guardando verso il cancello gridò “chi è a quest’ora?” Loro si scostarono verso il centro della strada in modo da essere visti, per quanto il chiarore della notte consentiva, discosti dai rami degli alberi che coprivano la visuale. Silvio rispose “siamo colleghi di lavoro di suo fratello a Roma. Non è educazione disturbare a quest’ora ma abbiamo visto una luce accesa e avevamo un impegno da onorare. Suo fratello ci ha incaricato di portarle i suoi saluti e attraverso di noi sincerarsi se lei stava bene, visto che non era riuscito più a contattarla. Ci scusi.” “Aspettate vengo ad aprirvi” rispose.
Si accesero altre luci dentro la casa, si sentì il rumore della chiave che apriva il portone e comparve la figura dell’uomo che scese i tre gradini di graniglia arrotondati ai lati, che raggiungevano un lastricato di ardesia, come un tappeto di pietre srotolato sul camminamento, che conduceva, tra due siepi di viburno alternato a piracanta, al cancello. Uscì sulla strada e premuroso li fece entrare. Li accolse, oltre il portone, un ampio salone che copriva nell’asse longitudinale, parallelo a via Piave, tutta l’estensione della casa, separato con un lungo muro maestro dalla parte posteriore dell’edificio, cui si accedeva attraverso una porta.
Quella conformazione costruttiva suggeriva a loro muratori che l’abitazione fosse stata costruita in due tempi: prima la parte anteriore poi quella posteriore, forse ne erano testimonianza i due ingressi. Piante da appartamento, cuscini sparsi su divani, un pianoforte a mezza-coda, sulla parete divisoria un focolare in marmo piperino, quadri alle pareti di pittori locali, Giuliano Quagliarini e Aldo Canzi ed Elvio Marchionni di Spello. Sonzini li fece accomodare.
Era uomo sui trent’anni, carnagione chiara, capelli tendenti al biondo, pettinati all’indietro, un po’ stempiato, un fare tranquillo e un parlare conseguente. Loro, da subito si produssero in ringraziamenti per averli accolti in quell’ora tarda e per la gentilezza e familiarità che aveva prodigato nei loro confronti. Parlavano e sprofondati tra i cuscini dei divani si lasciarono andare ad una sensazione di benessere che la sosta in quella casa signorile procurava loro.
Dopo giorni e notti passate all’aperto, esposti alle variazioni del tempo, vestiti degli stessi abiti, quello stare lì a conversare, immersi nell’eleganza e bellezza degli arredi, appariva come un miracolo che la sorte aveva concesso. Però accanto al piacere che provavano, avvertirono insinuarsi in loro il disagio procurato dal pensiero di quanto fossero malmessi nell’aspetto, quasi da renderli inadeguati, non meritevoli di stare lì. L’ospite mostrò di non aver notato niente di disdicevole, ma quel silenzio che ci poteva stare con il non aver rilevato nulla di riprovevole ci poteva stare anche con l’astensione signorile da qualsiasi commento.
In modo diverso tutti e tre avevano quel disagio, lo si intuiva dalla cura che tutti mettevano nell’assettare le stoffe arruffate, nel passare la meno tra i capelli per sistemarli in modo accettabile, nel tenere i piedi uniti, per dare quanto meno, in assenza di altro, una parvenza di correttezza al loro sedere. D’altra parte qualche insufficienza ci poteva stare con il viaggio non propriamente tranquillo che avevano intrapreso e dopo un po’ quegli scrupoli si attenuarono, non del tutto ma non più ostativi al lasciarsi andare, con misura, alle mollezze dei divani. Il Sonzini raccontava di trovarsi bene nella fabbrica e in città, e aggiunse che avrebbe trovato il modo di informare il fratello, per tranquillizzarlo.
Non nascondeva però che le cose stavano mutando, negli ultimi mesi si era cominciata a respirare un’aria pesante, per il timore di imminenti bombardamenti, come era accaduto ad agosto a Terni. Anche per questo motivo certi progetti come la costruzione del nuovo aereo da caccia Macchi dell’ingegnere Troiani non andava avanti, aggravato dalla difficoltà negli approvvigionamenti e da un clima generale di sconforto che aveva preso tutti, tecnici e maestranze, anche se non lo si dava a vedere. Si pensava che un’incursione aerea avrebbe trovato un contrasto aleatorio: poca contraerea e l’impossibilità degli aerei di stanza all’aeroporto, a competere con l’aviazione alleata più numerosa e moderna. I nostri Savoia-Marchetti S.79 erano aerei di trasporto poi modificati in bombardieri che avevano dato prova di sé nei raid su Malta, trimotori veloci che la propaganda aveva ribattezzato con il nome di “gobbi maledetti” ad indicare la loro particolare conformazione e il terrore che, si diceva, causava negli inglesi al loro apparire.
Come caccia erano arrivati alcuni Messerschmitt Bf 109 tedeschi ad integrare la forza dei bombardieri, ma non erano niente rispetto a quanto raccontavano dell’incursione su Terni, dove si erano contati numeri impressionanti di unità aeree. Così, aggiunse, si pensava di cominciare a trasferire a Varese attrezzature e personale, meno esposto, comunque più lontano dal fronte. “Sono stati anni belli” proseguì “questi passati a Foligno”. Ora anche per lui si prospettava il ritorno nella fabbrica di Varese, e finalmente a casa nel vicino paese di Malnate dov’era la famiglia. Forse vi avrebbe trovato anche il fratello, da quanto loro raccontavano della crisi del cantiere per Expo 42. Era una bella città, Foligno, raccontava.
Una fiorente campagna intorno e industrie ad essa collegate, come il grande zuccherificio lungo il fiume, la fabbrica di macchine olearie di Rapanelli, i grandi pastifici, i mulini. E poi concerie e cartiere, memoria delle tante che in era medioevale prosperavano lungo i fiumi che scorrevano in città o nelle vicinanze. E le grandi officine delle ferrovie dello stato che competevano con la Macchi come numero di addetti. Città popolosa con un grande territorio che si estendeva in montagna sino al valico di Colfiorito, il confine con le Marche. Luogo ameno l’altopiano di Colfiorito, con un lago che era oasi preziosa per gli uccelli migratori. Era anche sede di un campo di tiro per la scuola di artiglieria ubicata in città.
Con la guerra vi avevano approntato un campo di concentramento che ospitava prigionieri slavi e in numero minore delle forze alleate. Belle le ragazze di Foligno che con gli allievi ufficiali della caserma e i tecnici della Macchi avevano occasione d’incontri che spesso diventavano legami matrimoniali. Così alcune seguivano lo sposo lontano dalla città, altre viceversa lo trattenevano, guadagnando alla collettività giovani di fuori che si dedicavano a nuove attività imprenditoriali. Anche nella ristorazione, come con il ristorante Amatillo, nella piazza centrale, dal nome del vecchio ristoratore folignate, la cui figlia aveva sposato uno di Varese. Quando questi subentrò nella gestione, si mise a servire i bolliti della tradizione lombarda, con il piatto forte della lingua di bue di cui il trattore, servendola, precisava che quella non aveva mai parlato male di nessuno..
Queste cose ed altre Sonzini raccontava e sembrava come di chi ha piacere di narrare a qualcuno che mostra attenzione ed interesse, forse in assenza di altri interlocutori, quasi loro avessero a colmare una solitudine. Ci stava con il suo essere forestiero e un po’ schivo ma questa cosa non gli aveva impedito di ammirare quella città dell’Umbria così diversa dalla sua Lombardia, e ora con loro il piacere di raccontarla.
Si era fatto tardi e nonostante le obiezioni, approntò i divani per far passare loro la notte lì. Offri anche del cibo, ma questi, per pudore, avendo ottenuto più dello sperato, e nonostante non disdegnasse il loro stomaco di impegnarsi con qualcosa di più appetibile rispetto ai residui di cibo che si portavano appresso, dissero che andava bene così e non si disturbasse ulteriormente.
Chiesero anche della casa, così bella ed elegante non potevano pensare che l’avesse approntata a quel modo lui, da solo e dato il poco tempo trascorso da quando era venuto a Foligno. “Non è la mia” rispose “è di una famiglia del luogo, i De Divitis”. Costoro si erano trasferiti ad Ancona e l’avevano affittata con tutti i mobili e l’arredamento. il capo famiglia doveva stare fuori per lavoro, e aveva portato con sé tutta la famiglia, così lui aveva potuto godere di tutto quel ben di Dio e nemmeno ad un gran prezzo. Dopodiché il Sonzini augurò un buon riposo, e loro, salutandolo, avvisarono che se ne sarebbero andati presto, alle prime luci dell’alba e che lui non si disturbasse, aveva già fatto così tanto!
Strette di mani, promesse di rivedersi, poi lui se ne andò in camera e loro cominciarono a pregustare il sonno a cui si sarebbero abbandonati come angeli, per la prima volta dall’inizio del viaggio, in quella bella casa di via Piave. Ognuno scelse un divano e sprofondò nei cuscini felpati, morbidissimi, che li avvolsero come in una nuvola di piacere. Erano circondati dalle belle cose che arredavano il salone e il tepore che avvertivano era come venisse dai quadri, dai vasi, dai tappeti, dalle tende e dalle infinite altre cose di gusto che mani sapienti avevano distribuito intorno.
Raccontavano un’umanità raffinata, lontana dai clamori delle folle, dalle vicende della politica, della storia addirittura; come chi persegue itinerari tracciati in un tempo lontano, refrattari all’influenza degli accadimenti; come chi aveva avuto occhi per vedere oltre il quotidiano, inseguendo ideali di bellezza e nobiltà del sentire. È di tutte le civiltà compiute, in un arco di tempo limitato, prima che oscuri segnali ne annuncino il tramonto. Dovevano essere bella gente i De Divitis! Dal giardino si udiva il vento muovere i rami degli alberi, e il verso degli uccelli infastiditi da quello scuotere, nel loro riposo notturno. Era tutto così piacevole che non ebbero voglia di addormentarsi subito.
Così continuarono a parlare tra di loro sottovoce, per non farsi sentire dal padrone di casa. Parole e pensieri in libertà, piacevoli come i loro giacigli, e le morbide lane che ricoprivano i loro corpi. La temperatura tiepida del salone che la ghisa dei radiatori procurava, li aveva indotti a togliersi di dosso gli abiti, sempre gli stessi dei giorni di viaggio. Avevano curato di pulirli e spazzolarli per quanto possibile ogni mattino, dopo la notte trascorsa nelle locande o sulla panchina della stazione ferroviaria, ma ora c’era l’occasione di qualcosa di più radicale. Un bagno oltre il salone che il Sonzini aveva detto era a loro disposizione consentiva anche la cura del corpo. D’altra parte l’ospite si era ritirato nel piano superiore, dunque con l’attenzione che procurarono di tenere, riuscirono a non disturbarlo, mentre a turno si sbarbarono e lavarono e si presero cura degli abiti. Così rimasti in brache e maglia di lana a pelle si distesero sui divani sotto le coperte. Il sonno tardava a venire come di chi non si risolva a dissolvere nell’incoscienza un momento di felicità arrivato inatteso, imprevisto, fortunoso, per sua natura limitato nel tempo. Un attimo di pausa, per tirare il respiro, prima di riprendere il cammino della vita che ha una croce in fondo alla strada, salvifica solo per chi avrà guardato in alto, lanciandosi oltre il quotidiano.
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