Cosa emerge dal 58° Rapporto del Censis sulla situazione sociale del paese
Sedici/C Clio Storia del presente
Guido Barlozzetti
Conduttore televisivo, critico cinematografico, esperto dei media e scrittore
Guido Barlozzetti in un pezzo intitolato “Quanto è difficile capire l’Italia” descrive “Cosa emerge dal 58° Rapporto del Censis sulla situazione sociale del paese”. Essenzialmente una situazione di “galleggiamento che dietro di sé non ha “né capitomboli rovinosi nelle fasi recessive, né scalate eroiche nei cicli positivi”. Ma non solo. Sono sempre più evidenti “I segni di stanchezza e rassegnazione”. O meglio ancora “La sindrome di un’Italia fuori dal palcoscenico, insomma che sul Paese incomba la minaccia di una marginalità rispetto a un mondo che sta cambiando vorticosamente, dalla geopolitica alla crisi climatica, all’irruzione potente di un nuovo protagonista come l’intelligenza artificiale”. Il commento prosegue con una riflessione sui “due cavalli di battaglia del governo” Meloni, ovvero premierato e autonomia differenziata, e, infine, su alcune considerazioni sui “limiti del Rapporto”.
12 dicembre 2024
L’Italia galleggia. È questa la metafora che usa il 58º Rapporto del Censis sulla situazione sociale del paese. Come a dire che si ritrova in una medietà nella quale non ha lo slancio per saltare fuori di sé e però neanche il peso, la zavorra che potrebbe trascinarlo giù. E in questa oscillazione inerziale sono tanti, troppi
“i conti che non tornano nel sistema-Italia: più lavoro e meno Pil, turismo su e industria giù, carenza di personale e ipoteche sul welfare”
che generano insicurezza. E poi l’analfabetismo di ritorno e crescente da un grado all’altro del percorso scolastico, l’odissea sanitaria, i timori dei giovani per la pensione (peraltro in presenza di un aumento del tasso di occupazione), “l’insostenibile leggerezza dei redditi” con il ceto medio che si sfibra e rispetto a venti anni fa vede diminuire del 7 per cento le entrate.
L’appuntamento con il Rapporto non è solo una consuetudine è anche l’occasione per confrontarsi con una radiografia della Penisola che ogni anno viene a sintetizzarne gli umori e lo stato delle cose.
Mutatis mutandis, è un po’ come il calendario di Barbanera o di Frate Indovino, una consolidata e attesa consuetudine di fine anno e su cui continua ad aleggiare l’ispirazione di Giuseppe De Rita, tra i fondatori del Centro, poi segretario generale e presidente, che ne ha passato il testimone al figlio Giorgio. È atteso il Rapporto perché gli si conosce la virtù di provare ogni volta a districarsi nel guazzabuglio del Paese cercando di ritrovarvi una chiave che ne renda conto, magari sintetizzando in uno slogan la gran messe di dati e di ricerche effettuate durante tutto l’anno. Difficile dire se la misura annuale sia congrua con una rilevazione scientifica che dica di una qualche linea di tendenza che non sia congiunturale ma strutturale. In ogni caso, all’inizio del mese di dicembre fatalmente il Rapporto va in scena. E il dato generale di questo capitolo numero 58 è appunto questo, un galleggiamento che dietro di sé non ha
“né capitomboli rovinosi nelle fasi recessive, né scalate eroiche nei cicli positivi”.
Non solo galleggiamento: I segni di stanchezza e rassegnazione
Questa sorta di bonaccia si accompagna anche a una sorta di stanchezza complessiva che riguarda anche la fiducia storica verso l’Occidente, l’Europa e le istituzioni della democrazia liberale, come se questo orizzonte non fosse tanto venuto meno quanto piuttosto vissuto con una rassegnazione e non con l’energia vivificante in cui trovare un nuovo dinamismo.
Il Rapporto, da questo punto di vista, suona sempre la stessa nota, quale che sia la pertinenza o il territorio che affronta: parla di
“un popolo polverizzato e con uno scarso senso della storia”
(vorrà dire qualcosa se per il 19 per cento degli italiani Mazzini è stato un politico della prima Repubblica e Giotto l’autore degli affreschi della Cappella Sistina…),
“un paese che sente l’affanno nel rimettersi in moto” e che anche se ci prova “resta all’antico vizio di una scarsità di direzione, di un’assenza di traguardi e di coraggio per affermarli”,
un Paese in preda alla paura che comporta il rischio di aprirsi, di rompere i recinti ed esplorare nuove possibilità
“ma che allo stesso tempo non può permettersi di non correre se vuole crescere e non più galleggiare”.
Ecco il circolo vizioso, anche se “si torna a parlare di crescita”. È un rumore di fondo che si percepisce negli ambiti più diversi e il Rapporto ne sottolinea la novità rispetto al passato. E tuttavia gli Italiani non sembrano andare oltre una confusa richiesta. Non hanno sufficienti sussulti, come se quello che è accaduto in questi anni li avesse resi cinici e ripiegati su sé stessi:
“la sequela di disincanto, frustrazione, senso di impotenza, risentimento, sete di giustizia, brama di riscatto, smania di vendetta ai danni di un presunto colpevole, così caratteristica dei nostri tempi, non è sfociata in violente esplosioni di rabbia. Ci flettiamo come legni storti e ci rialziamo dopo ogni inciampo, senza ammutinamenti. Ma la spinta propulsiva verso l’accrescimento del benessere si è smorzata”.
La sindrome di un’Italia fuori dal palcoscenico
Eccola dunque “la sindrome italiana”, la medietà di cui parlavamo, questo restare sul pelo dell’acqua rispetto al quale il Rapporto richiama alla necessità di una svolta e rinnova l’appello ad assumersi la responsabilità di un cambiamento che non sia contingente ma rimetta in moto un’effettiva e coerente dinamica di crescita e sviluppo.
C’è un fantasma che si aggira tra le pagine del Censis e dice di una percezione che comincia ad essere diffusa e cioè la paura che lentamente si stia scivolando fuori dal palcoscenico, insomma che sul Paese incomba la minaccia di una marginalità rispetto a un mondo che sta cambiando vorticosamente, dalla geopolitica alla crisi climatica, all’irruzione potente di un nuovo protagonista come l’intelligenza artificiale.
È un fantasma che nasce dall’insieme delle vicende che l’Italia ha attraversato in questi anni, da una sequela di governi – tecnici, sovranisti, antipolitici, leaderistici… – che ha consumato sé stessa e la credibilità della politica e con essa anche quello che è sempre stato un cavallo di battaglia nella visione sociopolitica del Censis, l’idea cioè di una “poliarchia”, di una corale e partecipata concertazione tra chi governa e i soggetti e le rappresentanze collettive.
Ecco il vulnus doloroso secondo la diagnosi del Censis: non c’è più traccia, insomma, di quella concordia discors senza la quale l’ambizione di darsi un traguardo resta delusa e frustrata.
Premierato e autonomia differenziata
Allora, è il caso di allargare la riflessione. Mi viene da pensare in questo senso a due dei cavalli di battaglia dell’attuale governo, ancorché con dei distinguo all’interno della stessa maggioranza, da una parte il premierato, dall’altra l’autonomia differenziata, che a pensarci bene non sono poi così contrapposte ma replicano lo stesso principio a livelli di riferimento territoriale diversi, salvo il fatto che entrambe le proposte non si collocavano certamente nell’ambito di una visione solidale e compartecipata della gestione della cosa pubblica.
Il premierato è una risposta alla debolezza della politica e punta a rafforzare il governo rispetto alle competenze riconosciute dalla Costituzione al Presidente della Repubblica, mentre I nuovi poteri regionali, a fronte di un’insofferenza diffusa in alcune aree del Paese verso meccanismi di coesione vissuti come assistenziali, rischiano di sancire e anzi di allargare differenze storiche, ritardi e arretratezze (e il pronunciamento della Corte costituzionale ha mandato segnali precisi in questo senso).
I limiti del Rapporto
Nella sintesi del Censis pare di sentire una nota di rimpianto, forse anche di nostalgia. E in questo viene da pensare che la lucidità delle analisi sconti lo stesso “vizio” che rimprovera agli Italiani. La difficoltà, cioè, di leggere fino in fondo il cambiamento nel quale siamo presi e lo strutturale spostamento delle coordinate su cui si sono costruite la storia del Paese e anche le ragioni di un Rapporto, quasi che si volesse riportarlo ad una sorta di realtà mitica – se mai ci sia stata… – in cui tutti, ma proprio tutti remavano dalla stessa parte e una mano invisibile (e democristiana…) coniugava tradizione e sviluppo, società ed economia, benessere e valori, libertà ed eguaglianza.
In questo, e lo dico a mò di provocazione, il Rapporto tradisce un’anima, la metto tra virgolette, di “centro sinistra”, o meglio di quella che è o avrebbe dovuto essere l’ispirazione del centro sinistra, a sua volta erede del solidarismo cattolico dello scudocrociato (e anche delle terze vie e dei compromessi storici). Quella ispirazione si è arenata di fronte all’approfondirsi di contraddizioni e all’emergere di fratture nel corpo sociale, a fluidità e smarrimenti di quelle che una volta chiamavamo classi, al venir meno dell’intergenerazionalità, di fronte alle nuove solitudini e alle altrettanto inedite socialità del virtual-digitale, alla fragilità e alle rotture del circuito scuola-famiglia, tanto per accennare ai fenomeni che disgregano una carta. E forse l’errore, se si può chiamare così, è quello di cercare di ridisegnare una carta con le matite e i colori di una volta.
Tutto questo con tutto il rispetto che si deve avere e che si merita il Censis.
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