L’INEVITABILE BIVIO

Margherita G. Sarfatti alle prese con il «delitto Matteotti»

Il primo fascicolo di «Gerarchia» dell’anno 1924 si apre con una lettera di Benito Mussolini, direttore e fondatore due anni prima della testata. Vergata a mano, su carta intestata del Presidente del Consiglio dei ministri, datata Roma 1° gennaio 1924, il duce si congratula con Margherita G. Sarfatti, nominata nuovo direttore del mensile, voce dell’«ortodossia mussoliniana». Margherita Grassini è nata l’8 aprile 1880 in una facoltosa famiglia ebrea veneziana. Nel 1898 ha sposato l’avvocato penalista Cesare Sarfatti, veneziano anche lui, nato nel 1866, repubblicano e mazziniano. I coniugi Sarfatti nel 1902 si trasferiscono da Venezia a Milano. Avvicinatisi al socialismo riformista, Cesare e Margherita gravitano nel cenacolo di Filippo Turati e della compagna russa Anna Kuliscioff, l’«eminenza grigia» del socialismo italiano1. Margherita è molto bella, elegante nel vestire, colta, cosmopolita, parla varie lingue, sin troppo benestante per una socialista.

Prototipo della donna «moderna, disinibita, autonoma, libera, controllata, sempre fiera e dignitosa»2. Sull’«Avanti!» pubblica critiche e cronache d’arte. Mussolini assume la direzione del quotidiano socialista il 1° dicembre 1912. Margherita sostiene di aver sentito per la prima volta il nome di Mussolini nell’ottobre 1911, in riferimento al dibattito dei socialisti sulla posizione da assumere in merito alla guerra di Libia3. Quando si incontrano Margherita gravita nell’area riformista turatiana; Benito, all’opposto, in quella massimalista rivoluzionaria. Per temperamento, appartenenza sociale, stile di vita, modo di intendere la politica, appartengono a mondi opposti. Logica vuole che il nuovo direttore debba fare a meno della sofisticata collaboratrice. Invece non solo continua a farla scrivere, ma fra i due nasce una duratura relazione intellettuale, professionale e affettiva. La vicinanza di Margherita amplia ulteriormente gli orizzonti di Benito, portandolo a contatto con le avanguardie artistiche milanesi4. Il sodalizio si consolida nei mesi che precedono l’entrata in guerra dell’Italia. Mussolini da neutralista si trasforma in interventista. Lasciata la direzione dell’«Avanti!», ha già pronta una nuova tribuna giornalistica, «Il popolo d’Italia», il cui primo numero esce domenica 15 novembre 1914. Sono pochi i socialisti a seguire Mussolini nell’avventura interventista. Fra i pochi c’è Margherita. Nel marzo del 1919 Mussolini e Sarfatti lanciano il mensile letterario e artistico «Ardita», rivista illustrata e supplemento de «Il popolo d’Italia». La nuova testata esce in perfetta sintonia con la nascente organizzazione dei reduci di guerra. Il primo numero appare una settimana prima dell’adunata di piazza San Sepolcro a Milano. Alla fondazione dei Fasci di combattimento, il 23 marzo 1919, Margherita è accanto a Benito. Lo sostiene nella campagna elettorale, e lo incoraggia a non lasciare la politica dopo la sconfitta. Alla tornata elettorale tenutasi il 16 novembre 1919, nel collegio di Milano, nella lista dei Fasci di combattimento, insieme a Mussolini figurano il direttore d’orchestra Arturo Toscanini e l’inventore del Futurismo Filippo Tommaso Marinetti. Mussolini ottiene 9064 voti, Marinetti 6144, Toscanini 51145. L’esito elettorale è fallimentare, reso ancora più indigesto dall’avanzata dei socialisti. L’«Avanti!» regola i conti col vecchio direttore ricorrendo al sarcasmo: «Un cadavere in istato di avanzata putrefazione fu ripescato stamane nel Naviglio. Pare si tratti di Benito Mussolini». La prosa irriverente è quella del giornalista e talentuoso scrittore Marco Ramperti (chiamato a collaborare da Mussolini all’epoca della sua direzione), che qualche giorno dopo sullo stesso quotidiano rincara la dose. Ricorda come i traditori del proletariato sono stati schiacciati vergognosamente. Ad ogni tornata qualcuno scompare: sono morti i monarchici, i democratici, i clericali. Ora è il turno dei masnadieri. Ma

c’è qualcuno ch’è più morto di tutti; un defunto che non merita, direte voi, né il momento pietoso né l’onorata sepoltura. L’Avanti! ha già annunciato d’averlo scoperto, fradicio, nel naviglio, e ha attribuito l’infortunio a suicidio, ma in verità: con quest’ipotesi ha fatto troppo onore alla carogna. Non credete che se Mussolini alle prime avvisaglie elettorali, si fosse puntata una pistola alla tempia sarebbe almeno morto con dignità?6.

Margherita sostiene l’avventura di d’Annunzio a Fiume, non solo perché il Vate (che cercò costantemente di sedurla, senza riuscirci) è un amico di gioventù suo e del marito. È presente all’atto fondativo del Partito nazionale fascista, all’Augusteo a Roma, nel novembre del 1921. E, nella fase convulsa della difficile preparazione della «marcia su Roma», è a stretto contatto con Benito. Sono andati insieme a teatro, poco prima della partenza di Mussolini per Roma, mostrando sicurezza. Qualora la situazione precipiti negativamente, e venga dichiarato lo «stato d’assedio», la casa dei Sarfatti è poco fuori Como, vicinissima al confine svizzero. Ma tutto fila liscio. Mussolini si trasferisce a Roma, mentre Margherita resta a Milano. Lì è nato il fascismo e lì serve la sua presenza per fiutare l’aria che tira, accanto ad Arnaldo Mussolini (sono gli unici due consiglieri fidati del nuovo Presidente del consiglio, oltre a Cesare Rossi, che presto però si separerà). A partire dal 1922, e più o meno per un decennio, Margherita è la confidente più ascoltata di Mussolini. Ogni importante decisione politica è stata assunta dopo la sua consultazione e, spesso, dopo la sua condivisione. «Che Margherita sia stata l’anima del fascismo degli esordi, a giudicare anche dall’atteggiamento del futuro duce, è ormai un dato acquisito»7. Il nuovo corso offre a Margherita la concreta possibilità di incidere su un terreno su cui si muove da sempre con grande disinvoltura e competenza: l’arte. Il 26 marzo 1923 alla galleria Pesaro a Milano vengono esposte le opere del gruppo di artisti vicini a Margherita, che si riconoscono nel movimento Novecento. Mussolini interviene all’inaugurazione, ponendo con le sue parole di elogio il sigillo dell’ufficialità al movimento. Nel discorso centrato sui rapporti tra l’arte e il fascismo (al quale Margherita ha messo mano), Mussolini esordisce affermando che Novecento deve intendersi «un punto decisivo nella storia della moderna Italia». Poi, in conclusione, puntualizza:

è lungi da me l’idea di incoraggiare qualche cosa che possa assomigliare all’arte di Stato. L’arte rientra nella sfera dell’individuo. Lo Stato ha un solo dovere: quello di non sabotarla, di far condizioni umane agli artisti, di incoraggiarli dal punto di vista artistico e nazionale. Ci tengo a dichiarare che il Governo che ho l’onore di presiedere è un amico sincero dell’arte e degli artisti8.

Margherita è al tempo stesso ispiratrice, protettrice e stratega di Novecento, movimento che si sforza di rinnovare il moderno attraverso la classicità. Novecento, fondato nel 1922 (e rifondato nel 1926 con Novecento italiano)9, «nacque con l’obiettivo di mettere a punto uno stile classico per la nuova Italia fascista, ma affondava le proprie radici in tutto il percorso della ideatrice attraverso la critica d’arte»10.

Nel pomeriggio del 10 giugno 1924 una squadra composta da cinque fascisti, guidata dall’ex ardito Amerigo Dumini, rapisce a Lungotevere Arnaldo da Brescia, nei pressi dell’abitazione romana, l’onorevole Giacomo Matteotti, segretario del Partito socialista unitario (nato da una scissione del Partito socialista italiano nel 1922). Verrà rinvenuto cadavere il 16 agosto, in un bosco denominato Quartarella, sulla via Flaminia, ad una ventina di chilometri da Roma. Il deputato già in passato aveva subito minacce e aggressioni. Una volta era stato persino sequestrato. Matteotti, nato a Fratta Polesine, in Veneto, il 22 maggio 1885, appartiene ad una famiglia di commercianti e proprietari terrieri. Sempre elegante, slanciato e atletico, ha studiato legge a Bologna. L’8 gennaio 1916 ha sposato, con rito civile, Velia Titta, dalla quale ha avuto tre figli. È dunque un «agiato borghese diventato socialista»11. Eletto a Ferrara nel 1919, Matteotti viene riconfermato alle tornate successive del 1921 e del 1924. Socialista riformista12, distante da ogni estremismo («social-milionario»: così spesso verrà apostrofato dai massimalisti), neutralista (per gli avversari è un «traditore austriacante»), cosmopolita (ha fatto molti viaggi all’estero, soprattutto in Gran Bretagna), Matteotti è un politico intransigente, temerario, preparatissimo. Un vero oppositore del fascismo. Ne sono testimonianza i suoi scritti13. Lo ha dimostrato nel discorso pronunciato alla Camera il 30 maggio 1924. Pochi giorni prima – il 6 aprile – si sono tenute le elezioni politiche. Mussolini ha riportato un successo schiacciante. Particolarmente significativo, poiché al vincitore viene assegnato anche un cospicuo premio di maggioranza. Mussolini può contare su 374 deputati. Gli oppositori sono 161. Al netto delle violenze e delle intimidazioni, l’affermazione elettorale è incontestabile. Forte del successo, il capo del governo avvia, come sottolinea Renzo De Felice, «una grande operazione trasformistica di tipo giolittiano», cercando di incanalare verso il fascismo forze di centro-destra e di sinistra socialista14. Matteotti è irresolubilmente contrario a qualsiasi tipo di avvicinamento a Mussolini.

Florestano Vancini nel film Il delitto Matteotti (1973) dedica l’apertura alla ricostruzione cinematografica del discorso del 30 maggio. Matteotti (interpretato da Franco Nero), inquadrato in primissimo piano, denuncia i brogli e le violenze che hanno contrassegnato ovunque le votazioni. Pertanto, ne chiede l’invalidazione. L’aula è incandescente. I deputati fascisti interrompono costantemente Matteotti. Che non si ferma. In pochi lo sostengono. Più volte, per accuse reciproche, si sfiora lo scontro fisico. Mussolini, al banco del governo, è piuttosto seccato. Concluso l’intervento, Matteotti confida a un collega di aver firmato, con quel discorso, la propria condanna a morte. Che puntualmente arriva. La responsabilità di Mussolini nell’assassinio di Matteotti è «materiale». Oltre al discorso del 30 maggio, il capo del governo il 4 giugno, sempre alla Camera, ha un infuocato diverbio con Matteotti. Pertanto, è Mussolini ad aver dato l’ordine di sopprimere per sempre la voce dell’oppositore. Cesare Rossi, stretto collaboratore di Mussolini (ricopre la carica di capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio), in un memoriale difensivo afferma di averlo sentito incolpare la Ceka (squadra di polizia segreta, da poco costituita, con il compito della repressione antifascista) e il suo responsabile Dumini di non fare nulla per mettere a tacere Matteotti: «Dopo quel discorso quest’uomo non deve più circolare»15.

Dunque, Mussolini è il mandante dell’omicidio. È stato lui a chiedere di togliergli di mezzo l’oppositore più fastidioso e determinato. Il rapimento e la morte di Matteotti suscitano profonda impressione nelle forze politiche e nell’opinione pubblica, seminando incertezza e panico tra i fascisti. Le polemiche sono roventi. All’indomani del rapimento Mussolini interviene alla Camera. Si difende ricordando come qualcuno è intenzionato a metterlo fuori gioco. «Solo un mio nemico – dichiara il 13 giugno – che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione». A distanza di dieci anni confiderà all’amico giornalista Paolo Orano: «Se mi è stato gettato un cadavere tra le gambe perché abbandonassi il potere, ebbene si sbagliano»16. Sono in molti a dare Mussolini per spacciato. Il giornalista Ugo Ojetti nel diario del 21 giugno riporta il parere di un deputato fascista, già socialista, che dà per imminente un ministero Salandra: «vi sono due morti: Matteotti e Mussolini. E l’Italia è divisa in due; quelli che piangono per la morte dell’uno, quelli che piangono per la morte dell’altro»17.

Mussolini, nonostante abbattimenti e incertezze, traballa ma non cade. Assicura di non intralciare le indagini giudiziarie. Dumini viene immediatamente arrestato (condannato alla pena di cinque anni nel marzo del 1926, viene rimesso in libertà in virtù di un condono e di un’amnistia). Rossi, da molti indicato come il regista del rapimento, è costretto a lasciare l’incarico. Finito tra gli indagati si eclissa. Arrestato e successivamente prosciolto, espatriato in Francia e privato della cittadinanza italiana, finirà incarcerato per attività antifasciste. Otto sottosegretari e tre ministri del governo Mussolini rassegnano le dimissioni, tra cui l’indipendente Giovanni Gentile, rimpiazzato all’Istruzione dal liberale Alessandro Casati.

Al nazionalista Luigi Federzoni, apprezzato negli ambienti monarchici, viene assegnata la guida degli Interni. Il capo del governo deve fronteggiare non solo gli avversari. La galassia degli «intransigenti» è una spina nel fianco, contraria ad ogni tipo di «normalizzazione». Il 13 agosto «L’assalto», settimanale del fascio bolognese, titola: Il fascismo non è un uomo, il fascismo è un’idea. Curzio Suckert (Malaparte), in un articolo apparso nel dicembre 1924 su «La conquista dello Stato», ricorda che non è il tempo dei compromessi, dei tornaconti personali, della mancanza di coraggio del fascismo «dirigente», «parlamentare» e «governativo». Il tono è perentorio: tutti debbono obbedienza, anche Mussolini, al «fascismo integrale».

La conclusione non ammette incertezze. Invita esplicitamente Mussolini «a troncare gli indugi e rovesciare chi ha tradito fino a oggi la rivoluzione fascista». Se ciò non avverrà, ci penserà il fascismo provinciale («integrale») a inaugurare «per proprio conto il vero ciclo rivoluzionario che darà la giustizia e la pace al popolo italiano»18. Mussolini, pur se messo all’angolo e costretto a vivere quotidianamente sull’orlo del precipizio, riesce a capovolgere la situazione a proprio favore. In fondo, gli eventi politici si svolgono nel medesimo clima che lo aveva portato al potere con la «marcia su Roma». Il governo di coalizione, varato nell’ottobre del 1922, era stato un classico compromesso tra il fascismo e la classe dirigente tradizionale. Quest’ultima era ben certa, appoggiando Mussolini, di «parlamentarizzarlo». Di farlo rientrare nei ranghi. Inoltre, Mussolini aveva beneficiato dell’aiuto «inconsapevole» delle varie forze politiche liberal-democratiche, anch’esse ben certe, al pari della classe dirigente, di «costituzionalizzare» il fascismo.

Un grave errore di valutazione, determinato soprattutto dalla non comprensione della novità – sulla scena politica – rappresentata dal movimento fascista. Persino la pubblica opinione, dopo tre anni e mezzo di guerra, due di «violenze rosse» (1919-1920) e due di «violenze nere» (1921-1922), era stanca e desiderosa di una pacificazione. Poco importava se fosse Mussolini a riuscire nell’impresa, e a quali mezzi facesse ricorso per riuscirsi.

Il capo dell’esecutivo per fronteggiare la crisi, tra la seconda metà del 1924 e i primi mesi del 1925, non solo ribadisce l’imprescindibile centralità della coalizione, ma addirittura annacqua ulteriormente, con sostituzioni centriste, la presenza governativa fascista. E di nuovo la classe dirigente, come nel 1922, rinnova la fiducia a Mussolini. Costringendolo alla resa, il rischio del «salto nel buio» viene ritenuto un prezzo troppo alto da pagare. Anche stavolta Mussolini si avvantaggia degli errori della classe politica a lui avversa, grazie all’infelice scelta delle opposizioni di disertare l’aula parlamentare, ritirandosi sull’Aventino19.

Rompendo gli indugi, Mussolini assume su di sé la responsabilità «morale» del «delitto Matteotti». Lo fa durante il conciso ma durissimo discorso alla Camera del 3 gennaio 1925. Se c’è un colpevole per quanto è accaduto in Italia negli ultimi anni, di buono come di cattivo, è soltanto lui:

Sono io, o signori, che levo in quest’aula l’accusa contro me stesso […] Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello […] a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!20.

La ricostruzione degli eventi presentata nel film di Vancini – diretta responsabilità mussoliniana nel «delitto Matteotti» – per lungo tempo è stata accettata senza riserve. Lo è ancora oggi, come testimoniano svariate pubblicazioni, perlopiù di scarso rilievo storiografico, uscite in occasione del centenario della scomparsa dell’uomo politico. Nel 1966 De Felice, in conclusione del secondo volume della biografia mussoliniana, esprime dubbi sul diretto coinvolgimento del Duce21.

E, soprattutto, indica una pista diversa da seguire. Matteotti era a conoscenza di alcune «questioni scottanti» a proposito di una convenzione tra l’Italia e la compagnia petrolifera americana Sinclair. Al coraggioso discorso del 30 maggio, relativo ai brogli elettorali, ne sarebbe seguito un secondo, ancora più destabilizzante. Matteotti era in procinto di denunciare gli intrecci affaristici legati alla concessione petrolifera. Nel trentennio successivo (lo storico reatino è scomparso nel 1996) De Felice ha ribadito in più occasioni che l’ordine di far tacere Matteotti non venne direttamente da Mussolini. Il «delitto» nacque all’ombra del Viminale, agendo su indicazioni provenienti da ambienti legati a casa Savoia, non per motivi politici ma affaristici, dovuti alle preoccupazioni per gli esiti dello «scandalo Sinclair» che Matteotti si apprestava a denunciare pubblicamente22.

Da queste premesse parte la ricerca, molto ben documentata, dello storico Mauro Canali. In precedenza, Canali aveva ricostruito la biografia di Cesare Rossi23. Poi nel 1997 pubblica la prima versione della ricostruzione del «delitto Matteotti». Un testo voluminoso, centrato sui rapporti tra affarismo e politica durante il primo governo Mussolini. Al quale seguirà, nel 2015, una riduzione più agile e, nel 2024, un’ulteriore edizione ampliata24. Il contributo storiografico di Canali sull’argomento è da considerarsi un punto di riferimento imprescindibile. Anche Canali allontana la tesi della reazione violenta al discorso di Matteotti pronunciato a Montecitorio. E dà credito alle implicazioni affaristiche legate alla Sinclair25. Però non è per nulla convinto della estraneità di Mussolini nell’assassinio dell’oppositore, poiché tutti gli uomini invischiati nel delitto sono legati a Mussolini […].

Non è infatti possibile credere che un intero gruppo dirigente, quello, sia detto per inciso, la cui fedeltà a lui era più antica e provata, potesse decidere concordemente e impunemente di sopprimere un avversario politico di grande spicco, nascondendo al capo le loro dirette responsabilità. Una segretezza che sarebbe stata peraltro difficile mantenere, considerato che furono direttamente o indirettamente interessati, alla organizzazione e alla esecuzione del delitto, oltre ai suoi collaboratori, non pochi settori importanti dello Stato. Pertanto, il coinvolgimento diretto è innegabile26.

Ora, se il crimine non è dettato dalla necessità di far tacere una voce scomoda e fastidiosa – e di questo Canali ne è convinto, affermando che la data di avvio dell’organizzazione del «delitto» è precedente al discorso del 30 maggio27 – quale sarebbe la motivazione che spinge Mussolini a incaricare la Ceka non di una violenta dimostrazione di forza, aggredendo l’avversario (come era già avvenuto con l’antifascista Giovanni Amendola e il fascista ormai fuori controllo Casare Forni), ma addirittura di chiedere esplicitamente la soppressione di Matteotti? Mussolini, per Canali, è il mandante di un «delitto premeditato e preparato»28.

Era in attesa dell’occasione propizia, fornitagli dai diverbi parlamentari del 30 maggio e del 4 giugno. La vera motivazione è l’implicazione nella vicenda Sinclair di Arnaldo Mussolini, fratello di Benito. Matteotti aveva le prove, recuperate in Inghilterra, del coinvolgimento, e stava per far esplodere pubblicamente lo scandalo.

Come aveva suggerito De Felice, il «delitto Matteotti» resta uno dei nodi più difficili (se non impossibili) da sciogliere dell’intera storia del fascismo. «Innocentisti» e «colpevolisti»» continueranno a confrontarsi, e difficilmente riusciranno ad approdare ad una verità solida e, soprattutto, condivisa. Resta il fatto che la morte di Matteotti portò Mussolini vicinissimo alla resa. Ma un altro «delitto» contribuì a tenerlo a galla. Il 12 settembre a Roma viene ucciso il deputato fascista Armando Casalini, legato al mondo sindacale e assolutamente lontano da ogni estremismo. Nato a Forlì nel 1883, operaio, autodidatta, direttore della testata repubblicana «Pensiero romagnolo» (vi collaborò il giovane socialista massimalista Mussolini), sindacalista rivoluzionario, interventista arruolatosi volontario (nonostante un grave impedimento fisico), eletto deputato nel 1924, Casalini viene ucciso da Giovanni Corvi, militante comunista (svariate fonti indicano la sua instabilità mentale), mentre è sul tram a Roma. Essendo gravemente menomato accanto a lui c’è la figlia. A colpi di rivoltella il «delitto Matteotti» era così vendicato.

«Fu la goccia – scrive De Felice – che mise in moto una serie di reazioni a catena che avrebbero praticamente condotto al 3 gennaio»29. Individuando nel discorso – e negli atti che seguono immediatamente – la nascita del «regime fascista», si rischia di semplificare un percorso storico molto più complesso, che sarebbe sfociato nella edificazione dello «Stato totalitario». Ma quella data certamente – è ancora De Felice a rilevarlo – «segnò un netto spartiacque tra la “vecchia” e la “nuova” Italia, tra lo Stato liberale e gli embrioni di quello che sarebbe divenuto lo Stato fascista, ma che al momento non poteva ancora definirsi tale»30.

La totale conquista del potere da parte del fascismo spinge Margherita Sarfatti ad avventurarsi su un terreno inesplorato, persuasa che il nuovo corso debba avere una diffusione internazionale, soprattutto negli Stati Uniti. Nel 1925 esce The Life of Benito Mussolini, prima in Gran Bretagna31 e poi, a breve distanza, con grande fortuna (500.000 copie vendute), negli Stati Uniti32. In Italia The Life of Benito Mussolini viene pubblicato nel 1926 da Mondadori, con il titolo Dux, scelto quale omaggio al busto di Mussolini eseguito dallo scultore Adolfo Wildt. Solo nel primo anno vengono vendute 26.000 copie33. L’editore milanese ne vende, sino al 1938, data della diciassettesima edizione, 1.500.000 di copie. Nell’arco di tempo spaziante tra il 1925 e il 1945, la vita di Margherita è alquanto sorprendente. Nel 1925 è all’apice del successo. Nel 1945 sembra aprirsi, dopo la morte di Mussolini, una nuova stagione della sua esistenza. In mezzo si registrano amarezze e fallimenti. La data del declino pubblico è il 28 ottobre 1932. A Roma si inaugura la Mostra della rivoluzione fascista. L’iniziativa è curata da Dino Alfieri e Luigi Freddi. Al taglio del nastro dell’esposizione Margherita non è stata invitata. Eppure, nonostante il pubblico ostracismo riservato alla «signora delle arti», l’impostazione dell’esposizione è marcatamente sarfattiana34. I suoi rapporti con Mussolini, pubblici e privati, sono diventati pressoché inesistenti. Addirittura, ha dovuto subire l’umiliazione della lunga anticamera a Palazzo Venezia, con l’esito finale dell’impossibilità di vedere Mussolini, comunicatale con grande imbarazzo dal cameriere Quinto Navarra35. Alla fine del 1932 termina la collaborazione di Margherita con «Il popolo d’Italia» (l’ultimo articolo esce il 28 ottobre)36. A rallegrarsene è soprattutto la coniuge di Benito, Rachele, che alla pubblicazione di ogni articolo di Margherita ha protestato con il marito e con il fratello Arnaldo37. Nel 1934 è rimossa dalla direzione di «Gerarchia». Molti iniziano a prendere le distanze da lei. Fanno finta di non riconoscerla, non la invitano, la criticano apertamente. Nel diario il giornalista Giovanni Ansaldo il 7 settembre 1933 registra che la «Signora è in piena decadenza. Mussolini non la vuole più. Per evitare che essa si confricchi nei ricevimenti ufficiali, non si fanno più inviti alle signore»38. Lo scrittore Corrado Alvaro conferma il giudizio: «è caduta in disgrazia. Il suo salotto, dove si notavano ministri e ambasciatori, e tutti quelli che volevano farsi notare, in qualche modo, si è vuotato lentamente da settimana a settimana»39. Gli assidui (e gli aspiranti) frequentatori del salotto romano di Margherita si eclissano. Ora mirano ad un’altra dimora: l’abitazione di Edda Mussolini e Galeazzo Ciano. Si dividono in due fazioni: chi è invitato e chi spera di esserlo. Edda, rientrata in Italia con il marito dopo il soggiorno cinese, è l’astro nascente. E, come la madre Rachele, non sopporta Margherita. Da difficile la vita per la «dittatrice delle arti» diventa impossibile dopo l’approvazione delle «leggi razziali» nel luglio 1938. Per Margherita è un vero e proprio tradimento. Essendo nata ebrea, pur se convertitasi al cattolicesimo, si vede costretta a lasciare il paese.

Nel novembre 1938, vestita con l’abituale eleganza e con qualche valigia, la decaduta «signora delle arti» percorre i pochi chilometri che separano la sua bella villa Il Soldo a Cavallasca, nella provincia di Como, dalla Svizzera. Da lì prende il treno per Parigi. Spera di approdare in America. Subisce però un secondo tradimento. Roosevelt che l’aveva ricevuta insieme alla moglie Eleanor alla Casa Bianca nel 1934 con tutti gli onori40, non le concede asilo. Margherita sperava di ottenere il visto attraverso un incarico alla Columbia University. Giuseppe Prezzolini, che dal 1930 è stato chiamato come professore nel prestigioso ateneo newyorkese, non solo non le tende la mano, ma affossa con un certo cinismo la sua richiesta. Fallito il tentativo di riparare negli Stati Uniti, anche per le pressioni degli antifascisti italiani esuli, e verificata l’impossibilità del rientro in patria, Margherita si imbarca da Barcellona per Montevideo. Si stabilisce in America Latina, facendo la spola tra Uruguay e Argentina. Attende la fine del conflitto conducendo vita mondana, scrivendo articoli e libri d’arte.

Terminata la guerra, Margherita decide di rientrare in Italia. Decide di prepararsi il terreno con una pubblicazione. È giunto il momento di far sapere quali sono stati i veri rapporti con il fascismo e con Benito. Affida il racconto ad un giornale scandalistico di Buenos Aires, «Crítica», uscito in 14 puntate, tra il 18 giugno e il 3 luglio 1945. Ogni articolo ha lo stesso titolo (Mussolini. Como lo conoscí) e un sottotitolo diverso. L’ultimo è Mi culpa y mi fuga41.

La «versione» di Margherita viene riordinata, ampliata e tradotta in inglese, in vista della pubblicazione americana. Il succo del racconto è che Mussolini, ponendo fine alla relazione, ha imboccato la strada di un’involuzione inarrestabile. Si ritiene una vittima del fascismo, sfruttata e poi esiliata. Certo non può presentarsi indossando i panni dell’antifascista. Le andrebbero troppo stretti. Però è convinta di poter spiegare come è caduta nell’inganno, in buona fede. I furori presto si raffreddano. La pubblicazione degli articoli in Argentina, nonostante l’editore abbia annunciato rivelazioni sensazionali, è passata «quasi inosservata»42. Affiorano dubbi e inizia la fase del ripensamento. Traccheggia. Alla fine, decide di non pubblicare nulla. Il testo uscirà soltanto molti anni dopo la sua morte, edito nel 2014 negli Stati Uniti dall’intraprendente Robert Miller, proprietario delle edizioni Enigma Books di New York. Per De Felice il libro venne

scritto in preda all’ira e al desiderio di vendetta. Poi sembrò disconoscerlo […]. In Italia non fu mai pubblicato. Finché la guerra era in corso il motivo sembrava essere il timore di ritorsioni contro i parenti rimasti in Italia. Poi i tempi erano cambiati e probabilmente la indussero a non insistere43.

La «versione di Margherita», ben introdotta e annotata con estrema cura dal suo biografo Sullivan (l’altro, Cannistraro, a cui il saggio è dedicato, è scomparso nel 2005)44, avrebbe dovuto intitolarsi Mea culpa (My Fault). Un diretto richiamo a Dux. Stavolta però intendeva raccontare la storia vera, non quella edulcorata della propaganda di un tempo. Il testo si compone di diciotto capitoli e un epilogo. Non è un ritratto rancoroso come quello di Angelica Balabanoff, l’amante da lei spodesta45.

La odiava troppo per emularla. Mussolini ha tradito la rivoluzione fascista non quella socialista, lasciandosi trascinare dall’uso senza vincoli del potere, vittima dell’adulazione che lo ha circondato. Margherita riconosce il suo grave errore. Non ha saputo convincerlo, spesso assecondandolo. Se in Dux aveva esaltato la figura di Mussolini, in My Fault la ridimensiona. Non potendo chiamarsi fuori dalla nascita e dall’evoluzione storica del fascismo, i primi capitoli sono puramente descrittivi. Il nodo centrale da sciogliere per separare le proprie responsabilità da quelle di Mussolini è il «delitto Matteotti». Naturalmente Margherita non ha nessun coinvolgimento diretto nella vicenda. Però nel 1924 aveva un canale, privilegiato come pochi, di informazioni sugli avvenimenti. Come direttrice di «Gerarchia» aveva affrontato l’argomento, con un editoriale anonimo, negando ogni compromissione di Mussolini e indicando la strada da battere, per individuare i colpevoli, nell’estremismo fascista. L’articolo esce nel numero di giugno, quando la morte del deputato – il cadavere verrà ritrovato in agosto – è ipotizzabile solo dalla logica degli avvenimenti, e si apre con il ricordo dell’uccisione dell’onorevole Raffaele Sonzogno, avvenuta il 6 febbraio 1875: «da quei giorni remoti, mai più orrendo attentato aveva disonorato la vita parlamentare italiana». Matteotti è la «vittima» di un «episodio di efferata delinquenza», anche se il «cadavere è ancora occulto». Chi ha portato a termine il crimine verosimilmente voleva soltanto «intimorire» e «offendere», forse «ricattare» e «ferire», certo non «uccidere». Se il vero obiettivo era la morte, allora il rapimento non aveva senso: bastava un semplice colpo di pistola. Il fascismo viene così a trovarsi

ora a dover superare la crisi fatale; il punto critico di tutte le rivoluzioni trionfanti, le quali si sciolgono e si disgregano, classicamente, tradizionalmente, non prima né dopo, ma quando l’hallalì [grido di incitamento] del bottino possibile suona l’appello a tutti gli appetiti e le basse cupidigie.

All’interno del movimento fascista convivono elementi adusi a «menar le mani», in buona («idealisti») e in cattiva fede («frodatori»). Sono però una minoranza «di fronte alla maggioranza strabocchevole dei benintenzionati». Si parla molto di «corrotti», ben poco di «corruttori» (gli «eterni microbi dissolutori dell’organismo ammnistrativo della vita italiana»).

L’«orribile fatto» può rivelarsi «l’inizio di un radicale rinnovamento». Dal sangue dell’Agnello Immacolato può scandire «l’ora che precede, con bagliori lividi, un nuovo levar di aurora». Il fascismo si trova dunque ad un «bivio inevitabile»: fermarsi o andare oltre. Mussolini è un politico dalla forte tempra. Su di sé già pesa «un enorme fardello, aggiunga anche questo: sorvegli e vigili, controlli assiduamente da vicino». Compito ingrato pur se necessario. Ultimo in ordine di tempo, il rapimento e l’uccisione di Matteotti è un atto violento, il

pegno che una parte estrema del Fascismo cercava di prendere brutalmente con le proprie mani per allargare il dissidio nel paese. E precipitare la rivoluzione fascista […] verso la china delle cupidigie e del terrorismo. Nulla di nuovo sotto il sole. Il bivio a cui si trova oggi il Fascismo non è […] accidentale o casuale […] è il bivio tradizionale di tutte le rivoluzioni […]. Denaro e sangue sono i due scogli fatali in cui si abissano […]. Ma la rivoluzione fascista ha un carattere etico prevalente [essendo] una rivolta dei rappresentanti di valori morali conculcati […]. Questo fu nei suoi principii. Questo essa deve santamente rimanere; una restaurazione spirituale. In tale carattere, che sempre più deve accentuarsi e purificarsi, è la forza propulsiva del movimento46.

Nella ricostruzione, a vent’anni di distanza dalla totale dichiarazione di estraneità di Mussolini nel «delitto Matteotti», messa nero su bianco su «Gerarchia», Margherita non poteva certo accusarlo direttamente. Così facendo, avrebbe dovuto spiegare il suo complice silenzio su una così grave responsabilità. Allora sceglie un racconto dei fatti sfumato. Mussolini l’aveva rassicurata sulla sua totale estraneità («opera di un demonio» per disarcionarlo dal potere). Però le aveva dato l’impressione, ripetutamente, che ne sapesse molto di più. Anche perché, col trascorre del tempo e l’allentarsi della pressione, forniva ricostruzioni diverse e la metteva a conoscenza di nuovi elementi. Il giudizio di Margherita è che Benito avesse messo in moto una macchina non più arrestabile dopo l’avviamento47.

1 Cfr. M. Degl’Innocenti, L’età delle donne. Saggio su Anna Kuliscioff, Lacaita, Manduria 2017.

2 A. Frattolillo, Margherita Grassini Sarfatti. Protagonista culturale del primo Novecento, Aras, Fano 2018, p. 15.

3 Cfr. M. G. Sarfatti, My Fault. Mussolini As I Knew Him, Enigma Books, New York 2014, p. 1.

4 Cfr. G. Turi, Il Ventennio degli intellettuali. Cultura, politica, ideologia nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 24.

5 Cfr. P. Melograni, Toscanini, Mondadori, Milano 2007, pp. 103-104.

6 M. Ramperti, La bomba, in «Avanti!», 21 novembre 1919.

7 P. V. Cannistraro – B. R. Sullivan, Margherita Sarfatti. L’atra donna del Duce, Mondadori, Milano 1993, p. 181.

8 B. Mussolini, Alla mostra del «Novecento», in Id., Opera omnia di Benito Mussolini, vol. XIX, La Fenice, Firenze 1956, pp. 187-188.

9 Cfr. R. Bossaglia, Il Novecento italiano. Storia, Documenti, Iconografia, Feltrinelli, Milano 1978.

10 S. Urso, Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano, Marsilio, Venezia 2003, p. 147.

11 M. L. Salvadori, L’antifascista, Carocci, Roma 2023, p. 7.

12 Cfr. M. Degl’Innocenti, Giacomo Matteotti e il riformismo socialista, Angeli, Milano 2022.

13 Cfr. G. Matteotti, Un anno di dominazione fascista, Rizzoli, Milano 2019.

14 Cfr. R. De Felice, Breve storia del fascismo, Mondadori, Milano 2000, p. 28.

15 Cfr. C. Rossi, Il delitto Matteotti, in Id., Trentatré vicende mussoliniane, Ceschina, Milano 1958, p. 224.

16 P. Orano, Mussolini da vicino, Pinciana, Roma 1935, p. 29.

17 U. Ojetti, Taccuini 1914-1943, Sansoni, Firenze 1954, p. 144.

18 C. Suckert (Malaparte), Tutti debbono obbedire, anche Mussolini, al monito del fascismo integrale, in R. De Felice (a cura di), Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti 1919-1945, Einaudi, Torino 2004, pp. 200-203.

19 Cfr. C. Baldoli – L. Petrella, Aventino, Carocci, Roma 2024.

20 B. Mussolini, Discorso pronunciato alla Camera il 3 gennaio 1925, in R. De Felice (a cura di), Autobiografia del fascismo, cit., pp. 205-209.

21 Cfr. R. De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino 1966, pp. 622-626.

22 R. De Felice, Scritti giornalistici, vol. III, Luni, Milano 2019, p. 93-97.

23 Cfr. M. Canali, Cesare Rossi. Da rivoluzionario a eminenza grigia del fascismo, il Mulino, Bologna 1991.

24 Canali è stato il curatore della mostra (e del catalogo) allestita a Palazzo Braschi a Roma: cfr. Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della Democrazia, Treccani, Roma 2024.

25 Cfr. M. Canali, Il delitto Matteotti, il Mulino, Bologna 2024, pp. 43-92.

26 Ibidem, pp. 170-171.

27 Ivi, p. 219.

28 Ivi, p. 204.

29 R. De Felice, Mussolini il fascista, cit., p. 676.

30 R. De Felice, Breve storia del fascismo, cit., p. 41.

31 Cfr. M. G. Sarfatti, The Life of Benito Mussolini, Butterworth, Londra 1925.

32 Cfr. M. G. Sarfatti, The Life of Benito Mussolini, F. A. Stokes, New York 1925.

33 Cfr. E. Decleva, Arnoldo Mondadori, Garzanti, Milano 1988, p. 88.

34 N. Zapponi, L’oracolo zittito: Margherita Grassini Sarfatti, in «Storia contemporanea», 5, 1996.

35 Cfr. Q. Navarra, Memorie di un cameriere, Longanesi, Milano 1946. p. 100.

36 M. G. Sarfatti, Le arti plastiche nel decennale, in «Il popolo d’Italia», 28 ottobre 1932.

37 Cfr. P. V. Cannistraro – B. R. Sullivan, Margherita Sarfatti, cit., p. 430.

38 G. Ansaldo, Il giornalista di Ciano. Diari 1932-1945, il Mulino, Bologna 2000, p. 36.

39 C. Alvaro, Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, Bompiani, Milano 1950, p. 107.

40 Nelle memorie di Margherita Sarfatti, uscite nel dopoguerra, un capitolo è riservato al resoconto dell’accoglienza presidenziale: cfr. M. G. Sarfatti, Acqua passata, Cappelli, Bologna 1955, pp. 221-232.

41 Gli articoli sono conservati presso il MART di Rovereto, dove è depositato il fondo archivistico di Margherita Sarfatti.

42 P. V. Cannistraro – B. R. Sullivan, Margherita Sarfatti, cit., p. 461.

43 R. De Felice, Scritti giornalistici, cit., p. 139.

44 Cfr. B. G. Sullivan, Introduction, in M. Grassini Sarfatti, My Fault, cit., pp. 7-24.

45 Cfr. A. Balabanoff, Il traditore. Mussolini e la conquista del potere, Napoleone, Roma 1973.

46 Articolo non firmato, L’inevitabile bivio, in «Gerarchia», 6, 1924.

47 Cfr. M. G. Sarfatti, My Fault, cit., pp. 189-207.


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