MARCO LEONARDI
Il dibattito tra chi preferisce tassare i redditi e chi invece tassare la ricchezza accumulata e poi passata in successione è un dibattito eterno. È vero che tassare le successioni ereditarie è meno distorsivo dell’offerta di lavoro, d’altre parte, se si è già tassato il reddito, tassare anche le eredità è come tassare due volte. E poi molte successioni trovano comunque il modo di evadere il fisco. Questi i tratti principali della discussione di principio che come sempre però deve trovare un equilibrio nella realtà. Il nostro sistema di tassazione è estremo: il gettito delle tasse di successione è meno di 1 miliardo all’anno contro i 174 miliardi di Irpef pagati in gran parte da chi guadagna più di 35mila euro/anno. Più della metà dei lavoratori autonomi è esente dall’Irpef perché paga l’imposta sostitutiva forfettaria e il carico pesa per lo più sui lavoratori dipendenti che, peculiarità italiana, hanno una distribuzione del reddito molto compressa per cui solo il 9% dei dipendenti sta sopra i 40mila euro lordi annui.
Questa fotografia si incrocia con il turning point della demografia, il che richiede una riflessione ulteriore. Mentre i demografi sono consapevoli da tempo dell’evoluzione demografica del paese, il dibattito pubblico ha appena iniziato a discutere le conseguenze dell’inversione demografica e dell’aumento della popolazione anziana; la politica apparentemente preferisce -come sempre accade- continuare per la strada tracciata e rinviare le decisioni più rilevanti. Il governo ha approvato 9 decreti legislativi in attuazione della riforma fiscale, uno degli ultimi ora all’esame preliminare si occupa delle tasse di successione. È confezionato con grande maestria tecnica però non centra il punto principale. Il sistema fiscale italiano da sempre tassa molto i redditi e molto poco la ricchezza e le successioni ereditarie della ricchezza (immobili e aziende). Altri sistemi, francesi, tedeschi o anglosassoni, tassano meno il reddito e di più le successioni ereditarie con l’argomento che si deve incentivare il lavoro e non le eredità. La struttura del fisco è figlia della storia e della cultura, l’Italia fino alle generazioni nate tra le due guerre aveva ben poca ricchezza ereditata: aveva senso tassare i redditi e esentare le successioni. Ma oggi le cose sono cambiate, in Italia la ricchezza (soprattutto quella immobiliare) procapite è più alta che in Francia e Germania e quando va in successione si concentra per un fenomeno “meccanico” dovuto al declino della popolazione e del numero di figli: un numero maggiore di immobili in proprietà si divide su un numero minore di figli.
Un recente articolo pubblicato sul Journal of European Economic Association documenta come la concentrazione della ricchezza italiana è in linea con gli altri paesi europei ma l’evoluzione temporale è di tipo americano, con diseguaglianza in rapida crescita. Sarebbe opportuno pensare a un graduale riequilibrio, tassare meno i redditi e di più le ricchezze ereditate. L’occasione giusta era il decreto attuativo della delega fiscale che invece in realtà fa esattamente il contrario: favorisce ulteriormente i passaggi successori delle quote di aziende in esenzione fiscale. Finora era possibile solo passare il controllo delle aziende (il 50%) in esenzione, mentre da ora in poi è più facile anche passare in esenzione tutte le quote. Bene rendere più facile i passaggi con holding e trust, i passaggi generazionali sono fondamentali per preservare la ricchezza degli italiani. Ma alla fine passano in eredità in esenzione fiscale gran parte sia del patrimonio mobiliare sia di quello immobiliare. Il fisco è del tutto inadatto a controllare l’evoluzione della distribuzione di questa ricchezza che per metà è costituita da case. Nel 1995 solo il 30% degli immobili era in mano a ultra 80enni, oggi è il 60%.
Oggi il fisco è concentrato sul reddito ma favorisce la trasmissione della ricchezza in eredità che è diventata la vera fonte della diseguaglianza. Sempre secondo il paper citato, la distribuzione della ricchezza e approssimativamente costituita così: ordinando le famiglie dalla più povera alla più ricca, il 50% della popolazione con ricchezza inferiore ha risparmi spesso negativi come l’accensione di mutui; il 40% superiore ha una ricchezza positiva per la maggior parte dovuta al possesso di case e il top 10% possiede prevalentemente ricchezza mobiliare (quote azionarie). L’accumulazione di questa ricchezza è dovuta più ai volumi che ai prezzi, cioè si sono accumulati immobili e quote azionarie, non sono variati i loro prezzi.
Nel tempo il 50% della popolazione con ricchezza inferiore ha visto un declino della sua quota di ricchezza dovuto soprattutto al calo dei risparmi, il 50% invece superiore ha avuto un’accumulazione notevole (soprattutto il top 10%) della sua ricchezza perché la tassazione sulla successione degli immobili è sostanzialmente fiscalmente esente. Da quando nel 2006 è stato eliminato il cosiddetto coacervo per cui ogni trasmissione in donazione e poi in successione in linea retta ha una franchigia di un milione di euro per ogni erede, pochissime case (tra l’altro valutate al valore di catasto) sono sottoposte a una tassazione di una qualche incisività (sopra il milione si applica un’aliquota del 4%). Questo regime non ha eguali in nessun paese occidentale. Adesso nel decreto attuativo in discussione si aggiunge anche una maggior facilità di trasferimento in esenzione fiscale delle quote azionarie.
Molto spesso a questo ragionamento si oppone il desiderio di colpire i grandissimi patrimoni (a patto di trovarli), non credo che basti, il problema delle successioni coinvolge una quota rilevante della distribuzione della ricchezza dobbiamo ridurre le franchigie e aumentare (basta poco!) le aliquote sui passaggi ereditari altrimenti avremo un aumento meccanico della disuguaglianza. Mentre i passaggi generazionali delle aziende (e quindi i passaggi di quote che permettono di controllare l’azienda) hanno un senso che sono tese a preservare la continuità del lavoro, le donazioni di immobili hanno un effetto diverso: le nuove generazioni diversamente da quelle precedenti avranno in media una dotazione di ricchezza immobiliare molto maggiore che sono un bene ma sono potenzialmente anche un disincentivo al lavoro. In Italia si paga oggi nel caso di trasferimenti di ricchezza in linea di parentela diretta (coniuge e figli) al massimo il 4%, contro il 40% del Regno Unito e degli Stati Uniti e il 45% della Francia. Inoltre, in queste nazioni la quota esente è di gran lunga inferiore a quella prevista in Italia, attualmente di un milione di euro per ogni parente diretto il che in pratica esenta dal fisco la stragrande maggioranza delle eredità.
Alzare le aliquote e abbassare le franchigie delle successioni sarebbe giusto ma politicamente non lo ha fatto nessuno, neanche il governo Monti che nell’emergenza del 2012 ha alzato tutte le altre tasse. Ciò non vuol dire che magari tra pochi anni la situazione non sarà più sostenibile. In tutti i paesi la ricchezza media procapite all’età di 30anni sta aumentando, in USA è oggi circa il doppio di due generazioni fa. Ovviamente in paesi in crisi demografica la ricchezza si concentra maggiormente. È anche vero che questa generazione avrà vita più lunga e probabilmente dovrà sostenere maggiori spese private per istruzione e sanità, ma questo è un argomento che giustifica una ricchezza maggiore in media, non necessariamente una maggiore concentrazione. Un riequilibrio tra tasse di successione e tasse sul reddito è augurabile. Ma chi dovrebbe beneficiare del riequilibrio delle tasse sul reddito? Se ci riferiamo al tradizionale trade-off tra tassare i redditi oppure tassare la ricchezza accumulata e passata in successione, le imposte da ridurre marginalmente sono quelle sui redditi medio-alti che sono quelli che accumulano ricchezza. Noi italiani consideriamo “ricchi” i redditi da lavoro dipendente sopra i 50mila euro lordi il che è semplicemente ridicolo se confrontato con i nostri vicini paesi europei. Il nostro problema è che solo il 5% dei lavoratori dipendenti guadagna più di 50 mila euro lordi e paga buona parte del totale dell’Irpef. Infatti anche le imposte sono parte del problema. Lo scaglione di redditi da cui si applica l’aliquota più alta Irpef del 43% parte da 50mila euro. Negli altri paesi l’aliquota più alta parte da redditi molto superiori.
Per avere un taglio stabile delle tasse bisogna garantire un finanziamento permanente. L’idea del governo sembrerebbe essere quella di tagliare di due punti l’aliquota intermedia per portarla al 33% ed estendere il limite dello scaglione a cui si applica attualmente il 35%, da 50 a 60mila euro. In entrambi i casi i vantaggi potrebbero essere tangibili: nel primo caso per tutti quelli sopra i 28mila e nel secondo per quelli sopra i 50mila euro. Solo per confermare l’attuale sistema servono più di quattro miliardi di euro. Per le ulteriori due modifiche di cui beneficerebbero i redditi medio-alti, sarebbero necessari circa altri quattro miliardi. Risorse che, al momento, appaiono assai difficili da individuare. A meno che appunto non si decida di riequilibrare il peso delle tasse sulle successioni e sul reddito. A tal proposito si noti che in Italia se si utilizzassero le aliquote attualmente in vigore in Francia, lasciando invariati i livelli di esenzioni attualmente vigenti (1 milione di euro per trasferimenti a coniuge e figli e 100 mila euro per quelli riguardanti fratelli, oltre i vari casi di ricchezza attualmente esenti), si potrebbero ottenere dall’imposta di successione più di sei miliardi di euro. Poiché ereditare una casa in Francia può diventare un problema, potrebbe essere meglio in Italia una riforma molto più soft che combina una riduzione della franchigia con un’ulteriore riduzione di aliquote. Infine, un’alternativa più equa sarebbe, nel caso degli immobili, tassare anche alle aliquote e franchigie di assoluto favore di oggi, ma il valore di mercato delle proprietà e non il valore catastale, come si fa negli altri paesi.
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