UN BAMBINO DI 74 ANNI FA CHE CANTA IL TU ES PETRUS AL PAPA CHE APRE LA PORTA SANTA

Il primo ingresso nella Cappella Sistina fu travolgente e fu allora che contrassi un amore profondo per l’Arte, che mi ha accompagnato per tutta la vita. Mi sentii come avvolto da quei colori, da quelle figure gigantesche e mi parve che mi cadessero addosso, che mi travolgessero e mi tenessero imprigionato per sempre. Ma era una prigionia dolce, quasi esaltante, con cui, nel tempo riuscirò a familiarizzare. Mi divennero familiari le Sibille, quelle donne enormi, che stavano ai lati delle scene vere e proprie, che raccontavano momenti precisi. Mi divenne familiare la figura di Dio che dà la vita ad un Adamo dormiente toccandolo, dito indice contro dito indice. La cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso terreste non mi turbava più di tanto, come non mi turbava il serpente tentatore, avvolto sull’albero da cui Eva aveva colto la mela, il frutto proibito. Erano cose che mi venivano raccontate fin da bambino e che io avevo immaginato ma ora vedevo rappresentate con figure umane.

Il Giudizio Universale, che era la pittura più evidente che guardavi senza bisogno di alzare gli occhi al cielo, fu sempre inquietante, anche quando mi era diventata familiare, come lo era la religione che ci veniva raccontata fin da bambini, basata sul terrore del peccato e della conseguente punizione. E poi quelle parole terribili del Requiem di Palestrina che cantavamo quando c’era un defunto da commemorare: Dies irae, dies illa, Solvet saeclum in favilla… Quantus tremor est futurus, quando Judex est venturus … Il giorno dell’ira, quello che ridurrà la terra in cenere …Quanto terrore verrà quando il Giudice giungerà. Noi studiavamo il latino fin alla prima media e sapevamo tradurre quella minaccia che pendeva sulla testa di noi poveri mortali. Ma erano parole da mettere in bocca a un bambino, quelle? Per fortuna molti non le afferravano, le cantavano come formulette e noi che le capivamo non ci facevamo caso, forti della nostra incoscienza di fanciulli che pensano di avere davanti a loro una lunga vita, dove tutto sarà rimandato a un tempo remoto. Eravamo felici di esser lì, di sapere i nostri genitori contenti e orgogliosi dei loro figlioli. Che fin da piccoli, portavano a casa anche delle belle lirette che facevano comodo al magro bilancio famigliare.

Il maestro Lorenzo Perosi, don Lorenzo, anzi monsignor Lorenzo, per noi era soltanto il maestro, anche se non sapevamo che era considerato uno dei più grandi musicisti del Novecento. Sempre sorridente, se ne stava da una parte seduto su una poltroncina, ma, quando era il momento, si alzava in piedi e si metteva davanti al leggio, prendeva in mano la bacchetta e si scatenava, facendola roteare, ora accennando a una sezione ora a un’altra.

La cantoria della Sistina era piccola e noi ci stavamo stretti. Perosi ci raccomandava sempre “voi bambini potete fare quello che volete, potete leggere un giornaletto, scambiarvi le figurine, a condizione che lo facciate nel massimo silenzio”.

Io mi portavo sempre un fumetto, Topolino o Paperino o la rivista L’audace, e poi, quando terminavo di leggere, mi mettevo a guardare il Giudizio Universale. Cercavo di immaginare che cosa volesse significare quel groviglio di corpi, che hanno vinto la forza di gravità e che volano verso l’alto o vengono trascinati a forza verso il basso. Al centro di tutto, ben visibili, c’era il Salvatore e la madre Maria. Lui giovane e bello non riuscivo a capire perché dovesse essere così spietato e vendicativo, tanto da spaventare la Madre che quasi si stringe al figlio, sgomenta da tanto rigore. Il Salvatore con la mano destra fa un segno di assoluzione che vuol dire in paradiso, la salvezza eterna per alcune anime, mentre con la mano sinistra indica il fondo, l’abisso in cui i condannati sprofonderanno per l’eternità.

Anni dopo, leggerò un sonetto di Giuseppe Gioacchino Belli che bene tradurrà questo gesto del Salvatore: “… e ne farà du’ parti, bianca e nera, una pe’ anna’ in cantina, una sur tetto”. E poi, dopo tanto trambusto, dopo tanto gioire e tanto lamentarsi, tutto sembra placarsi nella pace eterna “All’urtimo se sentira’ ‘na sonajera d’angioli, e, come si ss’annassi a letto, smorzeranno li lumi e bonasera!” Sempre seguendo il Belli viene da domandarsi: vuoi vedere che “sta cana eternità deve esse’ eterna!” Una condizione di noia, di rottura di palle, che dura nell’eternità. Una condanna implacabile anche nella condizione di premiato.

Queste considerazioni non le facevo da ragazzo ma sono considerazioni attuali, mentre il ragazzo si arrovellava in mezzo a quel groviglio di corpi seminudi, dove spiccavano alcuni personaggi. Quello che viene tirato giù nello sprofondo dai diavoli e si copre con una mano soltanto l’occhio sinistro, perché con l’altro cerca di vedere che cosa sta accadendo. E poi quell’altro con in mano una pelle umana, con la faccia di Michelangelo. Su questi personaggi, più evidenti e marcati, immaginavo una loro storia precedente e successiva al momento in cui li aveva fissati Michelangelo, e per me era la continuazione del giornaletto che avevo appena letto.

Quando morì il mio Babbo, la messa da requiem di Palestrina mi tornò misteriosamente dalla memoria e, dentro di me, la cantai di nuovo per il mio genitore.

Il momento più importante della mia carriera di puero cantore della Cappella Sistina fu l’Anno Santo del 1950. L’Italia era uscita dalla guerra da pochi anni e si stava ricostruendo, l’anno giubilare si presentava come una grande occasione per ridare vitalità con i milioni di pellegrini che sarebbero arrivati a Roma con tutti i mezzi, una grande boccata di ossigeno per il Paese e per la Capitale. Il mio ricordo di quel momento è ancora vivissimo. Vigilia di Natale del 1949 sono un bambino e mi ritrovo nel mezzo di un avvenimento mondiale. Siamo vestiti da chierichetti, tunica rossa e cotta bianca. Ci dirige uno dei più grandi musicisti del Novecento, Lorenzo Perosi, noi cantiamo cose scritte da lui o da Pierluigi da Palestrina, l’inventore del canto polifonico. Tutte queste cose – dell’importanza di Perosi e di quello che ha rappresentato da Palestrina – io e i miei compagni allora le ignoravamo. A cerimonie così siamo abituati ma sentiamo che quella è una occasione speciale.

Il Papa bussa col martelletto alla porta murata e dall’altra parte fanno cadere la muratura, il Papa entra in San Pietro benedicente e noi dietro a lui gli cantiamo il Tu es Petrus composto da Lorenzo Perosi che poi è l’atto fondativo della Chiesa cristiana, quando Gesù dice a Pietro “Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia chiesa, e ti darò le chiavi del regno dei Cieli e le forze del male non prevarranno su di lei…”.Sono passati molti anni da quella vigilia di Natale, io ho fatto un lungo e complesso percorso di vita ma quel bambino non ha dimenticato quella serata e non ha dimenticato il Tu es Petrus che ha cantato al suo nipotino che si chiama Pietro.

Il coro della Cappella Sistina finì un giorno che la mia voce bianca fece cilecca. Perosi mi fece cenno, mettendosi il dito indice sulla bocca, di tacere. Poi mi chiamò a sé, mi disse delle belle parole, le uniche in cinque anni: che ero stato bravo, che mi aveva visto crescere sempre con grande simpatia ma che ora era il momento di lasciare il coro, perché stavo diventando adulto e la mia voce aveva iniziato a mutare. Mi dispiaceva lasciare, per i soldi che portavo a casa, per i compagni e anche per Michelangelo e la sua monumentale pittura. Per il papa non mi importava proprio niente. Quel papa così ieratico, così lontano dalle cose del mondo, così diverso dai papi che conoscerò negli anni, che sembrava una creatura venuta fra i comuni mortali, “a miracol mostrare”, quel papa lì mi respingeva, e quasi mi faceva paura. Tante volte ci è passato davanti e a noi, bambini bellissimi con una voce d’angelo, non ci degnò mai neppure di uno sguardo.


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