Un ricordo dello storico della politica italiana dall’Unità fino al presente
Sedici/D Lexicon Fresco di stampa
Vladimiro Satta
Storico contemporaneista e documentarista del Servizio Studi del Senato della Repubblica
Vladimiro Satta propone a tre settimane dalla scomparsa di Giovanni Sabbatucci, “Un ricordo dello storico della politica italiana dall’Unità fino al presente”. Allievo di Renzo De Felice, Sabbatucci sarà ricordato secondo Satta “Un seminatore con una forte vocazione alla didattica”. Nell’articolo ne rievoca la produzione storiografica evidenziando nella fattispecie le riflessioni su Il riformismo impossibile e Il trasformismo come sistema prima di soffermarsi nello specifico sulla sua “critica alla categoria interpretativa del ‘doppio Stato’ e alla tesi del ‘Paese mancato’.
24 dicembre 2024
Un ritratto dello storico contemporaneo realizzato dall’amico Bruno Pellegrino
Lunedì 2 dicembre 2024 è morto lo storico Giovanni Sabbatucci. Era nato in tempo di guerra in una remota località dell’Umbria, dove la sua famiglia si era rifugiata per sfuggire alle persecuzioni e deportazioni che avvenivano a Roma, la città nella quale poi si formò e visse.
Fu un grande intellettuale, noto anche al pubblico per i suoi interventi sui quotidiani, alla radio e in televisione, e per essere stato autore insieme ad Andrea Giardina e a Vittorio Vidotto di manuali che ebbero molto successo, editi da Laterza.
Era uno studioso di vasta cultura, non soltanto storica. Conoscendolo di persona, ci si accorgeva che si intendeva di letteratura, musica, arti figurative, cinema e altro ancora. Se tra altre discipline scelse di dedicarsi professionalmente alla storia, fu probabilmente per le caratteristiche di completezza e concretezza che appartengono a quest’ultima.
Le opere di Sabbatucci mostrano quanto egli fosse acuto ed equilibrato, preciso e scrupoloso, mentalmente aperto. Aveva anche grandi qualità umane: sensibilità, generosità, affidabilità, modestia… L’elenco completo sarebbe lungo.
Allievo di Renzo De Felice, laureatosi con una tesi su irredentismo e origini del nazionalismo italiano (correlatore: Rosario Romeo) divenne professore universitario, dapprima a Macerata, poi a Roma, molto stimato sia dai colleghi che dagli studenti. Verso questi ultimi si impegnava senza risparmio, seguendo personalmente le loro tesi, e gli studenti apprezzavano in particolar modo la chiarezza delle sue lezioni.
Un seminatore con una forte vocazione alla didattica
Non diede vita a ciò che in ambito accademico si suole definire una scuola, soprattutto perché non si sentiva a proprio agio nel ruolo del caposcuola, ma certamente fu un seminatore. La vocazione alla didattica, anche a beneficio di un pubblico non specializzato in storia, lo spingeva ad onorare tutti gli inviti a tenere lezioni e a partecipare ad eventi, una miriade. Furono opportunamente registrate le sue lezioni all’Auditorium di Roma sul delitto Matteotti e su Alcide De Gasperi, mentre sono sicuramente rimaste nella memoria di chi vi ha assistito le lezioni nelle scuole di ogni parte d’Italia che si rivolgevano a lui.
Nel settore dei mezzi di comunicazione di massa, Sabbatucci per anni fu attivo in veste di editorialista di grandi quotidiani, per qualche tempo condusse la rubrica radiofonica di rassegna e commento dei giornali su RAI Radio 3, Prima Pagina, e partecipò a vari programmi televisivi, tra cui Correva l’anno e La Storia siamo noi. In televisione, a volte fu ospite in studio, altre rimase dietro le quinte come consulente (persino di qualche fiction, ad esempio. Il cuore nel pozzo, di Alberto Negrin) e una volta fu autore (insieme a Maurizio Cascavilla, de La grande guerra. La tragedia della modernità, opera disponibile in 5 DVD).
In un’intervista rilasciata ad Andrea Sangiovanni (reperibile online attraverso il profilo di Sabbatucci nel sito della SISSCO, la Società Italiana per lo Studio della Storia Contemporanea), egli ripercorse le sue esperienze televisive e parlò di come uno storico svolgeva rispettivamente le diverse funzioni di consulente o di autore. Riconosceva che
“un buon film, ma anche un buon romanzo storico, possono essere più efficaci della lettura di un saggio”,
ma avvertiva che spesso in quel genere di opere mancava un controllo della comunità scientifica e, comunque, andava evitato che esse sostituissero i libri, strumenti imprescindibili. Inoltre, auspicò la costruzione di
“un insieme di regole per l’uso dei materiali audiovisivi (…), riconosciute da tutti se non addirittura codificate”.
Per dirne soltanto un paio:
“distinguere il repertorio dalla fiction, cosa che non sempre viene fatta in modo sufficientemente chiaro>, [perché] la mescolanza fra i due tipi di immagini può indurre confusione nello spettatore più sprovveduto”,
e
“trovare il modo di indicare il periodo a cui si riferiscono le immagini”, specialmente se “in un programma vengano inserite interviste a testimoni realizzate in periodi diversi”.
Produzione storiografica e riflessioni su Il riformismo impossibile e Il trasformismo come sistema
Come Sabbatucci stesso scrisse nel 2014, facendo un bilancio retrospettivo di quasi un quarantennio di studi, l’oggetto principale dei suoi interessi fu la storia politica d’Italia dall’Unità fino al presente,
“esaminata nelle sue costanti e nei suoi mutamenti, nei suoi aspetti sistemici e nei percorsi personali dei suoi protagonisti, nelle sue strutture organizzative, nelle sue idee ispiratrici e nei suoi principi fondanti”.
Più specificamente, guardando alle monografie delle quali fu autore, Sabbatucci esordì nel 1974 con un libro sul movimento degli ex-combattenti della Prima Guerra Mondiale, sul quale gettò nuova luce, confutando opinioni che andavano per la maggiore.
Più tardi, si volse sempre più verso la storia del socialismo italiano, curando un’imponente opera collettanea nei primi anni Ottanta e scrivendone egli stesso finché, nel 1991, pubblicò la monografia Il riformismo impossibile. In essa, l’autore analizzò le ragioni per cui il socialismo riformista in Italia non riuscì ad affermarsi come invece seppe fare in altri Paesi (fatta parziale eccezione per il periodo craxiano). Il socialismo gli appariva una solida realtà di partiti di massa e di organizzazioni sindacali pacificamente inseriti nelle istituzioni, che rappresentò
“un grande fattore di progresso economico e civile” nonché “un oggettivo veicolo di democrazia”;
tuttavia, da noi, esso si accompagnò a un’ideologia di
“rifondazione ab imis della società”
e al mito di uno Stato nuovo in cui il potere fosse esercitato dai lavoratori nell’interesse dell’intera umanità, che prevalsero nei momenti decisivi, precludendogli la possibilità di conquistare la guida del Paese. Di qui l’anomalia italiana, tra le cui manifestazioni vi erano sia la maggiore forza acquisita nel tempo dal PCI rispetto al PSI, sia la rinuncia da parte di entrambi i partiti a candidarsi quale plausibile alternativa di governo ai moderati e la scelta, invece, di proporsi nel ruolo di alleato in posizione subalterna (operazione sostanzialmente riuscita ai socialisti, poco o nulla ai comunisti).
A Sabbatucci, peraltro, non sfuggiva che già agli albori degli anni Novanta il socialismo era
“in chiara difficoltà nelle sue tradizionali roccheforti dell’Europa del Nord” e “dai paesi ex comunisti dell’Europa Orientale [era] addirittura scomparso o tende[va] a scomparire, travolto (…) dalla catastrofe del socialismo reale”.
Nel 2003, Sabbatucci pubblicò Il trasformismo come sistema, una riflessione su un fenomeno che per oltre un secolo aveva caratterizzato la politica italiana, dall’accordo Depretis-Minghetti del 1882 alla fine della cosiddetta Prima Repubblica.
E non a caso il trasformismo aveva avuto tanto successo. L’autore, infatti, mise in luce che esso non è un vizio nazionale, né un semplice riflesso delle propensioni di questo o quel leader, bensì un sistema di governo che serve a consolidare maggioranze centriste emarginando le ali estreme.
Sabbatucci, in primo luogo, poneva una basilare distinzione tra area della rappresentanza, ovvero l’intero spettro delle forze presenti nella società e che dunque maturano elettoralmente il diritto di sedere in Parlamento, e area della legittimità, intendendo quest’ultima come un’altra area, più ristretta della prima, formata dalle forze compatibili e non antitetiche rispetto ai fondamenti del sistema le quali, appunto perché compatibili, sono pienamente legittimate a governare.
Ecco perché la lotta politica,
“nel quarantennio che andò dagli esordi del trasformismo alla crisi dello Stato liberale, fu soprattutto una lotta interna alla grande maggioranza”
la quale, per fondate ragioni, temeva le “estreme” che non si riconoscevano nello Stato unitario; e perché più tardi, ai tempi del centro-sinistra e in particolare di Craxi e De Mita,
“il peso della conflittualità [si scaricò] all’interno della coalizione di governo”, a costo di privare il Paese “a un tempo del bene del ricambio delle élites e di quello della stabilità dell’esecutivo”,
senza che nessuna delle due parti si spingesse fino alla rottura.
L’antologia Partiti e culture politiche nell’Italia unita, pubblicata nel 2014 per iniziativa e a cura dei suoi ex-allievi Tommaso Baris e Alessio Gagliardi, opportunamente raccolse vari suoi scritti sparsi. Infine, concluso l’impegno sul fronte dei manuali, che gli aveva dato soddisfazioni ma, avendo richiesto ripetuti aggiornamenti, gli aveva anche sottratto tempo da dedicare alla ricerca, Sabbatucci si riprometteva di tornare a quest’ultimo tipo di attività. Un repentino peggioramento delle condizioni di salute non gliene lasciò il tempo, purtroppo.
La critica alla categoria interpretativa del “doppio Stato” e alla tesi del “Paese mancato”
Un singolo volume antologico, invero, non poteva essere sufficiente per coprire l’intera gamma degli argomenti di cui Sabbatucci si occupò, imprimendo un segno nella storiografia in materia. Basti pensare, infatti, ai due suoi capitoli del volume collettaneo Miti e storia dell’Italia unita, datato 1999, l’uno intitolato Il golpe in agguato e il doppio Stato e concernente anche lo stragismo, l’altro I misteri del caso Moro. Per Sabbatucci, dietro alle bombe e alle trame eversive non c’era stato un unico grande complotto
“funzionale al mantenimento del potere da parte di una classe dirigente moderata altrimenti destinata alla sconfitta”, ovvero “a bloccare i progressi elettorali del Pci o a respingere una sua ascesa al governo, altrimenti inevitabile”; piuttosto, “tanti piccoli complotti, animati da logiche e da scopi diversi”.
Le teorie dietrologiche che rimbalzavano tra giornali, aule giudiziarie e commissioni parlamentari erano montature, purtroppo care a una parte politica, la quale in esse trovava
una chiave di lettura universale, capace di assolverla dai propri errori e dai propri ritardi, oltre che uno slogan adatto a mobilitare in permanenza la sua base.
In tema di “doppio Stato”, una categoria interpretativa della storia degli apparati statali dell’Italia repubblicana proposta da Franco De Felice (da non confondersi con Renzo De Felice), Sabbatucci obiettò che lo schema era viziato da appiattimento su
“fonti e punti di vista della pubblicistica e della polemica politica coeva”.
Egli riconobbe a Renzo De Felice di essersi sollevato dai
“toni pamphlettistici della letteratura di inchiesta”
e di avere preso le distanze dai
“teorici del complotto permanente”,
ma segnalò che “nella vulgata accolta dalla pubblicistica successiva” e da una parte della storiografia stessa, le cautele e distinguo erano caduti senza lasciare traccia, spacciando congetture per certezze e ipotesi per dati di fatto.
Nel capitolo sul caso Moro, Sabbatucci confrontò la versione giudiziaria, secondo cui le BR erano state le esclusive responsabili del sequestro e del successivo omicidio, con le teorie complottistiche, e osservò che la prima
“non manca certo di plausibilità e di coerenza interna”, pur essendo “sdegnosamente respinta dai più e giudicata come lo schermo che cela una verità più autentica”,
mentre
“la spiegazione che vede nelle BR lo strumento di chissà quali poteri occulti (…) presenta tante e tali incongruenze da risultare ben più attaccabile di qualsiasi versione ufficiale”.
A distanza di un quarto di secolo di ulteriori intense ricerche storiche, parlamentari e giudiziarie, tali valutazioni restano più valide che mai.
Personalmente, aggiungo che quando nel 2001, quando al termine di una dozzina di anni da documentarista della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e le stragi, decisi di cimentarmi con il caso Moro, furono proprio i due illuminanti brevi saggi del 1999 che mi indussero a ricontattare Sabbatucci, che avevo avuto la fortuna di conoscere quando ero studente. Egli seguì da vicino il mio lavoro, dispensandomi preziosi consigli.
Sabbatucci era dotato di spirito critico e di senso della misura. Per questo, essendo consapevole dell’esistenza di un indirizzo storiografico tendente a compendiare la storia nazionale nell’immagine, negativa, di “un Paese mancato”, tenne a precisare che lui non la condivideva:
“Mi accorgo che (…) ho finito con l’elencare una lunga serie di tare e malfunzionamenti, di fallimenti e di errori politici (…) come è normale in sede di analisi critica. Ma non vorrei suggerire al lettore una visione catastrofica di un secolo e mezzo di vita politica. L’Italia liberale, con tutti i suoi limiti e le sue chiusure, ha collocato per sessant’anni il Paese nell’area non troppo affollata dei regimi rappresentativi e ha perseguito con qualche successo un progetto di sviluppo e di modernizzazione che nemmeno l’esito disastroso dell’avventura imperiale fascista ha del tutto compromesso. La Repubblica dei partiti ha rappresentato per l’Italia l’esperienza della democrazia di massa, ha considerevolmente, anche se disordinatamente, allargato l’area dei diritti sociali e ha accompagnato la più straordinaria stagione di sviluppo mai vissuta dal paese. Sono risultati che non possono essere sottovalutati, quali che siano tati gli errori successivi. E le classi dirigenti dell’Italia liberale e dell’Italia repubblicana li hanno conseguiti rispettando nella sostanza le libertà fondamentali: usando cioè le risorse della politica, le uniche di cui i regimi liberaldemocratici dispongano per cambiare la società senza sottoporla a forzature autoritarie”.
Si sentirà la sua mancanza.
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