di Francesco Monico
“Diffidate dei cosmopoliti che vanno a cercare lontano nei loro libri i doveri che trascurano di svolgere nel proprio ambiente. Come quel filosofo che ama i Tartari, per esser dispensato dell’amare i vicini”. La critica di Rousseau ai cosmopoliti trova un parallelismo nella celebrazione del globalismo e del neoliberismo. Questi esaltano valori come l’apertura, l’interconnessione e il progresso globale, ma spesso trascurano i bisogni delle comunità locali. L’enfasi su un mercato senza confini e su un’idea di progresso universale rischia di marginalizzare chi fatica ad adattarsi alle dinamiche economiche e culturali dominanti. Allo stesso modo in cui Rousseau denunciava l’ipocrisia di coloro che proclamavano amore per l’umanità dimenticandosi dei vicini, possiamo oggi osservare un’analogia nelle politiche della Sinistra neoliberale. Quest’ultima, infatti, sembra ignorare le conseguenze concrete delle sue scelte: l’aggravarsi delle disuguaglianze, l’erosione delle comunità locali e la perdita di identità culturale.
Pasolinianamente parlando celebrare il cosmopolitismo ignorando le radici locali rischia di trasformarsi in virtù performativa, che privilegia un’idea astratta di inclusività e progresso a discapito della solidarietà concreta e del benessere delle persone più vulnerabili. Jean Jacques Rousseau ci insegna l’importanza di equilibrare i valori universali con la responsabilità verso il contesto locale, sottolineando come un’attenzione ai legami comunitari sia fondamentale per costruire una giustizia sociale reale, anziché limitarsi a promuovere un’estetica del progresso.
«Di’ qualcosa di sinistra», evocava Nanni Moretti nel film Aprile (1998), un monito che ben presto si trasformò in una coscienza amara. L’appello ironico perse la sua leggerezza quando, osservando il confronto televisivo con Berlusconi, Fini, Bossi e Dini, si rese conto che D’Alema stava soccombendo, intrappolato in una dialettica sofisticata, pretenziosa e, francamente, insopportabile. «D’Alema, dì soltanto una cosa. Anche non di sinistra. Una cosa di civiltà», implorava Moretti, trasformando il sarcasmo iniziale in una accorata richiesta. Quella invocazione si tradusse in manifesto politico nel febbraio del 2002, quando, in piazza Navona, Moretti puntò il dito contro la dirigenza dell’allora Partito Democratico con parole che oggi suonano come un anatema ancora insuperato: «Mi dispiace, ma fin quando alla guida di questo partito ci sarà la burocrazia alle mie spalle, noi non vinceremo mai». Una critica lucida e tagliente, che all’epoca appariva profetica.
In che modo ha potuto emergere e affermarsi una classe sociale la cui ideologia, oggi definita come sinistra identitaria o lifestyle left, ha trasformato profondamente il significato stesso del concetto di sinistra? Negli anni Novanta si è verificata una serie di eventi che hanno segnato un cambiamento epocale.
Il primo e più significativo è stato il progressivo consolidarsi della strategia globalista-finanziaria occidentale, come documentato dall’economista Thomas Piketty nel suo Capitale e ideologia (2020). Attraverso un’analisi socio-demografica che abbraccia tredici paesi occidentali, Piketty ha mostrato come, a partire dalla fine degli anni Ottanta, sia emerso un nuovo gruppo social-ideologico, collocato nella fascia medio-alta dello spettro sociale sia per titolo di studio che per reddito. Questo gruppo apparteneva, negli anni Settanta, a una sinistra il cui significato era ancora legato a connotazioni socio-economiche ben definite, con una forte vocazione alla difesa degli svantaggiati. Al tempo, questa sinistra, prevalentemente composta da studenti liceali e universitari, si distingueva anche per un atteggiamento critico verso la morale e il pensiero conservatore. Tuttavia, con il passare degli anni e l’ingresso di molti di questi giovani in posizioni professionali di rilievo, si è verificata una transizione e questa classe, ritrovandosi nella parte medio-alta dello spettro sociale, ha ridefinito il concetto stesso di sinistra, spostandolo verso una dimensione più culturale e identitaria, e meno attenta alle disuguaglianze economiche e sociali tradizionali.
Da un punto di vista strutturalista le radici di questo fenomeno inoltre possono essere fatte risalire al 27 dicembre 1945, con l’istituzione del Fondo Monetario Internazionale, International Monetary Fund, un’organizzazione composta dai governi di 189 Paesi. L’economista John Maynard Keynes concepì il FMI come un fondo di cooperazione, pensato per consentire agli Stati membri di accedere a risorse durante le crisi economiche periodiche, al fine di mantenere attive le loro economie. Tuttavia, l’economista americano Harry Dexter White ne immaginò un funzionamento diverso, configurandolo come una banca: gli Stati avrebbero potuto accedere ai fondi solo accettando l’obbligo di restituire il debito, con l’aggiunta di interessi. Alla fine, fu la visione di White a prevalere, ponendo le basi per un modello economico che avrebbe progressivamente eroso il concetto di bene comune e pubblico. In questa logica tutto si traduceva in debito e interesse, gettando i semi di un pensiero finanziario che influenzerà profondamente anche l’ideologia della Lifestyle left. Il sistema economico postbellico, definito a Bretton Woods, si basava inizialmente su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte ancorate al dollaro, il quale a sua volta era convertibile in oro. Tuttavia, nel 1971, la sospensione del gold exchange standard – ossia la convertibilità del dollaro in oro – da parte di Richard Nixon segnò un punto di svolta. Questo cambiamento radicale trasformò ulteriormente l’architettura economica globale, aprendo la strada a un sistema finanziario sempre più deregolamentato e dominato da logiche speculative.
Questo processo portò a un ripensamento del ruolo del Fondo Monetario Internazionale, che iniziò a occuparsi della concessione di prestiti agli Stati membri per affrontare squilibri nella bilancia dei pagamenti, sempre legati al dollaro. Tuttavia, ogni prestito concesso comportava una progressiva erosione della sovranità degli Stati. L’FMI assunse inoltre un ruolo cruciale nella ristrutturazione del debito dei paesi del Terzo Mondo, imponendo, come condizione per l’accesso ai prestiti e per il rimborso, l’adozione di stringenti “piani di aggiustamento strutturale”. Questi piani erano modellati su una visione economica basata sulla convinzione che il libero mercato fosse l’unica via per lo sviluppo (Scuola di Vienna). Le misure principali previste includevano: svalutazione della moneta nazionale, per favorire la competitività delle esportazioni; riduzione del deficit di bilancio, ottenuta tramite drastici tagli alla spesa pubblica, spesso a scapito di servizi essenziali come sanità ed educazione; aumento delle imposte, che gravava spesso sulle fasce più vulnerabili della popolazione; eliminazione dei controlli sui prezzi, con conseguente liberalizzazione dei mercati; privatizzazioni massicce, che trasferivano il controllo di settori strategici dai governi alle grandi imprese private, spesso straniere. Queste politiche, sebbene presentate come strumenti di crescita e stabilità, ebbero effetti devastanti per molte economie in via di sviluppo, contribuendo a consolidare disuguaglianze e dipendenze economiche a livello globale.
Nel 1975, e formalizzato nel 1986, nasce il Gruppo dei Sette (G7), il vertice dei ministri dell’economia delle sette nazioni con la maggiore ricchezza nazionale netta: Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti. Questi paesi, definiti dal Fondo Monetario Internazionale come le principali economie avanzate, hanno progressivamente sostituito lo Stato e la sua mentalità con il primato delle aziende e della logica di mercato nella gestione della cosa pubblica. Come scrive il filosofo americano Nick Land: “La storia va così: la Terra è catturata da una singolarità tecnocapitale mentre la razionalizzazione rinascimentale e la navigazione oceanica si agganciano all’enfasi della mercificazione. L’accelerazione logistica dell’interattività tecno-economica sgretola l’ordine sociale in un’auto-sofisticata macchina in fuga. Man mano che i mercati imparano a produrre intelligenza, la politica si modernizza, migliora la paranoia, e cerca la presa.” (Land, 2015)
Due eventi epocali segnano quindi la storia recente: nel 1989 la caduta del Muro di Berlino e, nel 2007, l’invenzione dello smartphone. La caduta del Muro simboleggia il crollo dell’ideologia comunista e la fine della Guerra Fredda, inaugurando un’era dominata dal pensiero unico del capitalismo, sintetizzato nell’acronimo TINA (There Is No Alternative). Questo evento segnò uno shock profondo, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e il consolidamento dell’idea che non esistano alternative praticabili al modello capitalistico.
L’invenzione dello Smartphone, invece, rappresenta un momento cruciale nell’evoluzione tecnologica: un dispositivo portatile che combina telefonia mobile e funzioni informatiche, portando letteralmente la globalizzazione “sul palmo di una mano”. Grazie a questa tecnologia, milioni di persone hanno potuto interagire in un ambiente globale fluido e isomorfico, dando realtà alla globalizzazione. Questa nuova globalità ha avuto profonde conseguenze sulle società contemporanee: la struttura sociale tradizionale, organizzata intorno a classi, solidarietà, grandi gruppi e partiti, si è frammentata, rendendo sempre più difficile la rappresentanza politica e sociale. In questo contesto, la dimensione sovrana delle comunità di interesse locale è diventata fragile e marginalizzata, segnando un’ulteriore trasformazione nell’ordine mondiale.
La “sinistra” non è riuscita a condurre una seria autoanalisi critica teorica. Prima, la sinistra era dialettica, e aveva una funzione relativamente “facile”, quella di confutare i punti della pratico-teorica dominante che governava. Ma i punti singoli sono una cosa, la costruzione intera un’altra. La sinistra sapeva fare molto bene l’opposizione sui singoli punti ma aveva un’idea più rarefatta di quale costruzione pratico-teorica complessiva opporre. Non lo sapeva per due motivi, in primo luogo, il marxismo-leninismo, che rappresentava il suo fondamento ideologico, venne profondamente depotenziato a livello immaginario dal crollo dell’Unione Sovietica, che incrinò la fiducia in quel modello e nella sua capacità di offrire una prospettiva credibile. Il secondo è che stando sempre all’opposizione non aveva contatto con la complessità del governo reale di un paese occidentale. E questo è stato il punto dirimente, la sinistra da lì in poi ha declinato e poi è crollata, rotolata, smottata, certo anche per via degli smottamenti sociologici che avvennero, ma soprattutto per mancanza di una immagine di mondo antropologica, economico-politica e geopolitica completa, alternativa ma praticabile.
E questo smottamento è avvenuto con la globalizzazione, un fenomeno che si presenta come naturale, ma che dovrebbe avere una portata ideologica, e in realtà sembra essere più un dislocamento del potere (Bourdieu, 1998).
De-regulation significa mercati che non possono essere regolamentati dallo stato, ma che utilizzano lo stato affinché faccia regole a favore del mercato. La politica deve tradursi in un governo per il mercato perché il neoliberismo diventa la razionalità politica dei mercati. Le forze politiche diventano variabili dipendenti dai mercati (Chiappello, Boltanski, 1999), e si allineano a volontà mercantili che sono rappresentate e pilotate da enti sovranazionali (Dardot, Laval, 2013), i quali dirigono i governi senza apparire, decidono sovranamente senza limite costituzionale, incidono sui governi facendo opera di lobbing. La tendenza diventa così quella di destatalizzare le sovranità nazionali. La domanda è se disfacendo la sovranità nazionale le democrazie vengano dissolte. La risposta è sì (Lasch,1994). Perchè di fatto il capitale trasferisce le sedi delle decisioni esternamente ai parlamenti nazionali, lo fa attivando organi sovranazionali non elettivi come la Banca Centrale Europea, e attivando organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale a cui sottendono un’infinita serie di ‘agenzie’ valutative, tecniche, consultive (Club di Roma, Mont Pelerin Society, Gruppo Bildenberg, Davos, tra gli altri). In questo scenario, si spezza il legame tra le autorità monetarie e quelle politiche, rendendo autonome le banche centrali e trasferendo molte prerogative a organismi sovranazionali. Parallelamente, vengono smantellate le tutele del lavoro in nome della competitività globale. La crisi e l’emergenza diventano strumenti utili per imporre, senza un reale dibattito parlamentare, decisioni che scaturiscono dall’economia piuttosto che dalla politica, riducendo ulteriormente lo spazio della democrazia rappresentativa.
I processi di globalizzazione si intrecciano strettamente con l’espansione dei mercati resa possibile dalla tecnologia, determinando una progressiva disintermediazione tra i popoli e le economie. In questo contesto, si delinea un’epocale trasformazione: le classi lavoratrici e i ceti medi vengono gradualmente sostituiti da procedure automatizzate, macchine progettate per eseguire queste procedure, intelligenze artificiali e sistemi basati su feedback funzionali, come il process learning, supercomputer, piattaforme come ChatGPT, fondi finanziari e monete elettroniche. Questo scenario rappresenta non solo una ridefinizione delle dinamiche produttive, ma anche un profondo cambiamento nella struttura sociale ed economica globale.
I prodromi di questo cambiamento epocale si possono individuare nel 1947, quando in Svizzera nacque la Mont Pèlerin Society. Tra i partecipanti alla sua fondazione figuravano importanti esponenti del pensiero progressista e atlantista dell’epoca, come Ludwig von Mises, Karl Popper, Fritz Machlup, Michael Polanyi, Bertrand de Jouvenel, Wilhelm Röpke e Alexander Rüstow, oltre a influenti americani quali Walter Lippmann, Milton Friedman e George Stigler. Tra i membri della società vi furono anche gli italiani Luigi Einaudi e Bruno Leoni, quest’ultimo arrivò persino a ricoprire il ruolo di presidente. I fondatori includevano figure di spicco come Friedman, Frank Hyneman Knight e Stigler, tre illustri economisti e docenti della Scuola di Chicago. Le idee centrali promosse da questa scuola e dalla Mont Pèlerin Society erano: Il mercato come garante della libertà individuale, considerato più efficace nel proteggere i cittadini rispetto allo Stato; gli Stati Uniti come custodi della libertà planetaria, un ruolo attribuito loro dalla storia; la missione storica degli Stati Uniti di globalizzare il proprio modello economico, diffondendo i principi del capitalismo a livello mondiale. Queste visioni hanno posto le basi per il neoliberalismo, esercitando un’influenza duratura sulla politica economica globale.
Il colpo di stato in Cile del 1973 segnò un momento cruciale per la sperimentazione delle politiche economiche neoliberiste, creando un legame profondo tra gli interessi della Scuola di Vienna, la Scuola di Chicago e il governo americano, con la partecipazione di istituzioni come la CIA, il Pentagono e Wall Street. In questo contesto nacque il sodalizio tra gli economisti europei e americani, che trovò il suo punto di applicazione pratica nella formazione (finanziata dalla Rockfeller Foundation) dei Chicago Boys, un gruppo di economisti cileni di spicco, molti dei quali provenienti dall’affiliata Pontificia Università Cattolica del Cile. Questi economisti assunsero posizioni di rilievo in vari governi sudamericani, ma fu in Cile, durante la dittatura militare di Augusto Pinochet, che trovarono il loro terreno di sperimentazione privilegiato. Il Paese, privato dei suoi diritti democratici, fu utilizzato come laboratorio per sperimentare e mettere a punto quelle politiche economiche che successivamente sarebbero diventate il fulcro del Washington Consensus, il pacchetto di riforme neoliberiste promosso a livello globale dal Fondo Monetario Internazionale (FMI). La dittatura cilena rappresentò quindi un modello di nation building neoliberista, dove un sanguinoso controllo autoritario permise di introdurre rapidamente riforme radicali senza opposizione democratica. Nel frattempo, la crisi petrolifera del 1973 e la conseguente disoccupazione spinsero la Scuola di Chicago a pubblicare nuovi dossier, report e libri, attirando nuovi studiosi e consolidando il proprio pensiero. Si formò un nuovo nucleo operativo affiliato alla New York University, sostenuto dalla Koch Foundation. Parallelamente, il neoliberismo si radicava in Gran Bretagna attraverso l’Institute of Economic Affairs (IEA), con il supporto di British Petroleum, Barclays e dei principali media economici come il Daily Telegraph, il Times e il Financial Times. Furono create nuove organizzazioni, come l’Atlas Economic Research Foundation, che diffusero queste idee a livello globale.
Negli anni Ottanta, il neoliberismo completò il suo percorso di affermazione, diventando il pensiero egemone in tutte le principali università occidentali e nei ministeri economici e finanziari. Con l’introduzione del Washington Consensus, codificato nel 1989 da John Williamson, si impose un protocollo standard per i paesi che necessitavano di prestiti internazionali. Tale protocollo includeva: La proprietà privata come dogma; la privatizzazione delle aziende statali; politiche fiscali a tutela del management; la riduzione della spesa pubblica, compromettendo la sovranità monetaria dello Stato; la riforma del sistema tributario; la determinazione centralizzata di tassi di interesse e di cambio; la liberalizzazione del commercio e delle importazioni; l’apertura agli investimenti esteri; l’abolizione delle regole che limitavano la competitività, ovvero la deregulation. Sostenuto da istituzioni come la Ford Foundation e l’italiana Cariplo, Williamson contribuì a fondare il Peterson Institute for International Economics, uno dei centri più influenti nella diffusione del neoliberismo. Queste politiche rifunzionalizzarono lo Stato del XXI secolo, trasformandolo in un’entità che non governa più il mercato, ma si limita a garantire le procedure e il funzionamento delle sue macchine. L’applicazione del Washington Consensus raggiunse l’Europa con la firma del Trattato di Maastricht il 7 febbraio 1992, introducendo nel contesto europeo il modello economico descritto che stava ridefinendo in profondità le dinamiche globali. Questo segnò una nuova fase della globalizzazione, perché ridefinì definitavemente i confini dello Stato, subordinandolo alle logiche e ai meccanismi di un nuovo mercato globale.
Ciò che appare controintuitivo, ma fondamentale da cogliere, è che l’intreccio tra teoria economica e innovazioni tecnologiche (pc, www, mems, smartphone..) portò alla nascita di una nuova ideologia neoliberale. In questo contesto, la nuova classe emergente, originariamente di sinistra, si trovò ad aderire passivamente a questa visione. Questo avvenne non tanto per una comprensione profonda della teoria economica, quanto per il fatto di sentirsi ormai integrata e non più oppositiva, complice anche l’accesso – a lungo desiderato e spesso negato – alle prospettive di governo. Pur non avendo una solida padronanza nemmeno della teoria sociale, questa classe intuì che i tratti più brutali del neoliberismo erano in evidente contrasto con qualsiasi etica sociale. Tuttavia, poiché si percepiva ancora, almeno sentimentalmente, in qualche modo “di sinistra”, cominciò a reinterpretare il neoliberismo attraverso una lente progressista. Lo rivestì di sensibilità per i diritti individuali e per le pari opportunità, temi che trovano spazio nel più ampio pensiero liberale e che sono centrali nella cultura woke. Questo adattamento ideologico permise di conciliare, almeno superficialmente, l’eredità della sinistra con le logiche dominanti del neoliberismo.
Così avvenne che questa classe, un tempo integralmente di sinistra oggi è di fatto pienamente integrata nell’ideologia dominante del neoliberismo. Tale posizione genera evidenti contraddizioni, che si manifestano attraverso una sorprendente intolleranza, lontana dall’autentico spirito liberale. Questo atteggiamento si traduce in un’adesione al cosiddetto “follemente corretto” (Ricolfi, 2024), accompagnata da un disprezzo verso i vecchi compagni di sinistra rimasti fedeli ai principi tradizionali. Questi ultimi, ancora legati a una visione integrale e statalista, vengono etichettati in modo spregiativo come rossobruni, statalisti, nazionalisti, no-vax, populisti, filo-Putin, complottisti, antiscientisti, negazionisti, antiprogressisti, razzisti, antifemministi, culturalmente arretrati, omofobi o addirittura quasi fascisti, in una sorta di riflesso dicotomico infantile che spesso culmina nella reductio ad Hitlerum.
All’opposto la nuova classe medio-alta integrata si percepisce come “gente per bene”, definendo implicitamente chiunque si opponga a essa come “gente per male”.
Questo atteggiamento si rafforza nel contesto attuale, dove le fasce più basse della popolazione sono spesso egemonizzate da diverse forme di destra o conservatorismo tradizionalista. In questo scenario, la coabitazione di queste fasce con pezzi residui della sinistra tradizionale alimenta ulteriormente la confusione e le generalizzazioni. Il risultato è un atteggiamento fondato su una incrollabile certezza morale, che rifiuta il confronto razionale e si affida a giudizi e sentenze emotive, considerati inappellabili. Questo approccio non solo esclude il dialogo, ma consolida ulteriormente la frattura tra questa nuova sinistra e il resto dello spettro politico e sociale.
La “confusione” categoriale è stata alimentata anche dai promotori dello slogan “non c’è più destra né sinistra”, spesso provenienti da aree di destra in cerca di legittimazione teorica. A questa narrativa hanno aderito, in modo irriflessivo e senza criterio, alcuni elementi di sinistra delusi, finendo paradossalmente per confermare la pretesa di appartenenza di queste aree alla categoria della sinistra. In realtà, tale iscrizione avrebbe dovuto essere revocata, essendo ormai priva di fondamento.
Forse è giunto il momento di distinguere con maggiore chiarezza l’appartenenza all’area del dissenso, una posizione che si definisce esclusivamente in opposizione al sistema dominante, mostrando così di non possedere un’autonomia propositiva. A complicare ulteriormente il quadro è stata l’obiettiva scomparsa, soprattutto in Italia, di organizzazioni politiche e culturali che potessero rappresentare una vera sinistra (arrivando al paradosso dell’appropriazione del pensiero di Gramsci da parte della destra).
Lo storico localismo tradizionalista del nostro Paese ha impedito di cogliere le lezioni politiche di esperienze come Syriza, Podemos o Mélenchon, che, pur con i loro limiti, conservano tracce di una sinistra autentica. Bastava osservare e, magari, copiare. I pochi individui rimasti legati alla sinistra tradizionale hanno spesso affrontato questa sinistra neoliberale con un corpo a corpo più polemico che critico, dimenticando di riaffermarne i principi fondanti. La sinistra era internazionalista e anticolonialista e mai globalista; femminista prima delle teorie di genere; ecologica in quanto critica agli estrattivismi capitalisti prima che Verde. La difesa esclusiva dei diritti civili, per quanto importante, non può oscurare i diritti sociali, né viceversa: entrambi sono imprescindibili e devono essere trattati come complementari. Questo stato di cose è il riflesso di una perdita di visione, che ha portato la sinistra a perdere potere e sicurezza culturale, spingendola a rinchiudersi in un angolo. Tale isolamento, a sua volta, ha contribuito a far crescere un clima di ostilità e dileggio verso i ‘sinistri’, un terreno in cui le alternative si muovono con disinvoltura, incrementando ulteriormente il livello di conflitto e confusione ideologica.
Così prende forma e si sviluppa una nuova sinistra neoliberista e progressista: la sinistra che parla bene, quella degli asterischi e del linguaggio inclusivo, cosmopolita, frequentatrice di sushi bar, metropolitana, amante del bio, digitalizzata, creativa, insediata nei centri storici. È una sinistra ecologista, ma spesso priva di una reale comprensione dell’ecologia; accogliente verso i migranti, purché a debita distanza, separata da essi dai luoghi in cui vive e dalle persone che frequenta. Questa sinistra coltiva un egoismo sano, ama il rischio ma solo quando è calcolato, ed è flessibile e mobile, pronta a cogliere le opportunità di un mondo sempre più globalizzato. Non è più una sinistra che mira a cambiare una società ingiusta, ma piuttosto a preservarla da ipotetici attacchi oscurantisti di destre più immaginate e ipernarrate che reali (Fini-Pasolini, 1974). Tuttavia, questa visione si scontra con una realtà in cui la società è frammentata, anche a causa delle assurde conseguenze della cosiddetta politica dell’identità.
L’ascensore sociale è bloccato, il contratto sociale è stato stracciato, e questa nuova classe benpensante si ritrova sempre più chiusa in sé stessa, impenetrabile, incapace di entrare in contatto con le crescenti contraddizioni di una società che comprende sempre meno. Questa sinistra neoliberista progressista si percepisce ideologicamente come tale, ma sul piano socio-economico, e quindi politico, è di fatto di destra. Una sinistra che si vuole transgender, ma che continua a soffrire di profondi problemi identitari.
Grazie al potere culturale acquisito, anche attraverso il predominio nelle nuove ipertrofiche professioni info-creative, questa nuova classe controlla gran parte della narrazione del mondo. Ha il potere di stabilire categorie, spesso accompagnate da giudizi che non si basano su argomentazioni razionali, ma su appelli emotivi e valoriali. Questo rende la dialettica critica estremamente difficile, poiché chi si oppone parte già etichettato e condannato. Come già accennato, il cuore del neoliberismo crudo ha adottato questa sinistra culturale per darsi un volto più umano, senza però abbandonare i suoi principi fondamentali: l’individualismo competitivo e la distruzione di ogni sistema comunitario e di solidarietà sociale. Questo processo si radica in una storica dicotomia tra il cattolicesimo carnale e il protestantesimo metafisico, dove la disuguaglianza viene giustificata come meritocratica, quasi una forza propulsiva per il progresso. Inoltre, questa area ha assimilato le lezioni di pensatori come Foucault e Derrida, riconoscendo il linguaggio come un campo di potere e una leva di trasformazione sociale. Tuttavia, piuttosto che utilizzare questi strumenti per promuovere una reale emancipazione collettiva, li ha messi al servizio di un’ideologia che dissolve ogni idea di comunità e si concentra esclusivamente sull’individuo.
Forse, alla luce di questa evoluzione, sarebbe più appropriato smettere di definirla “sinistra”. Un termine più preciso potrebbe essere neoliberismo progressista, una definizione che cattura la sua natura: un’ideologia che combina l’apparente sensibilità per i diritti individuali con l’integrazione perfetta nel sistema neoliberale. Questa non è più una visione del mondo volta a cambiare le disuguaglianze strutturali, ma una narrazione che le giustifica e le perpetua sotto un’apparenza di progresso.
E così, il neoliberismo progressista emerge come il volto contemporaneo di un sistema globale che, dietro le sue parole d’ordine di inclusività e apertura rafforza le disuguaglianze. Questa contraddizione rappresenta il vero ostacolo alla costruzione di un’efficace politica elettorale capace di attrarre voti e costruire consenso. Per superare questa impasse, è necessario recuperare una connessione autentica con i bisogni reali delle persone. Una politica che sappia parlare direttamente alle aspirazioni deve fondarsi su un progetto tangibile, che metta al centro non solo i diritti individuali, ma anche i diritti sociali: istruzione, salute, lavoro, equità economica, accesso ai servizi essenziali, tutela della dignità. Attrarre voti significa proporre una visione concreta e credibile, che parli non solo alle élite, in un progetto capace di ricostruire un immaginario sociale, restituendo speranza e fiducia in un futuro in cui le politiche non siano strumenti di esclusione, ma leve di inclusione. Solo così sarà possibile trasformare un messaggio politico in una forza elettorale reale, capace di generare cambiamento e consolidare una nuova rappresentanza elettorale.
Per approfondimenti: Francesco Monico, Invulnerabile l’immaginario magico e il rigore razionale, Heraion Editore 2023
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