Nessun sistema politico è perfetto, nessun atto normativo è esente da manchevolezze e in ogni periodo storico è lecito pensare che nel futuro si possano, e anzi si debbano, migliorare tante – forse troppe – cose.
Questo pensiero è universalmente valido, ma sicuramente diventa assai rovente quando incontra la realtà scolastica italiana che, com’è noto soprattutto a coloro che la vivono dal di dentro, è una grande agorà ricolma di critiche, osservazioni taglienti, insoddisfazioni e malcontenti. Eppure, io ritengo che a volte dovremmo valutare il nostro contesto socio-culturale e politico non tanto con l’obiettivo demolitivo di paragonarlo ad uno scenario ideale, simile all’iperuranio platonico, esente da imperfezioni, ma come un prodotto umano, quindi intrinsecamente manchevole, migliorabile certamente, ma mai definitivamente stabile e completamente realizzato.
È assai sottile la differenza tra questi due modi di leggere la realtà. Alla base del primo modo c’è un intento costantemente svalutativo, poiché nulla di questa realtà che ci circonda reggerebbe il confronto con il suo riflesso ideale. La realtà dei fatti sarebbe sempre destinata a perdere il confronto con il suo contraltare astratto, ideale, noetico, in definitiva: perfetto.
Il secondo modo di interpretare la realtà, invece, tiene conto certamente – e guai se non lo facesse – di un certo margine di miglioramento, ma non perde mai di vista la natura umana delle produzioni normative che formano il tessuto più profondo del nostro contesto socio-culturale. È in questo secondo modo che converrebbe leggere l’intero quadro evolutivo della normativa sull’inclusione scolastica degli studenti con disabilità.
Ci sono ancora tanti, forse troppi, aspetti problematici e nodi da sciogliere, ma sicuramente ciò che è stato fatto fino ad ora si muove in una direzione giusta e promettente e chi conosce a fondo la storia della scuola italiana, la cura che essa rivolge alle persone con disabilità sa che il lavoro realizzato possiede comunque una solida struttura inclusiva.
Il decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 66 (con le relative modifiche apportate dal decreto legislativo 7 agosto 2019, n. 96) è sicuramente una pietra miliare di questa lunga parabola evolutiva. Ci sono, è vero, numerose falle ancora da colmare, alcune delle quali particolarmente importanti e pericolose. Il problema che sicuramente ostacola maggiormente quello che potrebbe essere un corretto e davvero efficace processo inclusivo è la stabilità dei docenti di sostegno.
Ogni anno, infatti, gli studenti e le studentesse con disabilità vedono cambiare le figure di riferimento in una giostra senza fine di aspettative, delusioni e cambiamenti spesso percepiti come spaventosi dagli stessi docenti disabili.
Quest’anno, ad esempio, con il “mio” studente abbiamo creato un feeling eccezionale, una relazione umana, prima ancora che educativa (sebbene la relazione umana sia già immediatamente educativa) che si è estesa – come ritengo giusto che accada – anche a dimensione extrascolastiche. In questi giorni lui mi porterà il regalino di natalizio e sapendo quando è attratto dalla forma umanoide dei gingerbread, i classici biscottini di Natale, gli ho regalato un addobbo per l’albero che lui puntualmente ha appeso, con tanto di foto e ringraziamenti.
Si è instaurato un clima di fiducia che va ben oltre questi episodi di tenerezza e affetto. Ormai so riconoscere le sue espressioni facciali, so quando è bene lasciargli il suo spazio, so come richiamare la sua attenzione, so anche come prenderlo quando è irritato. So rispettare la sua volontà quando il suo è un fermo no, ma so anche quando è bene insistere perché lui vuole proprio che io continui ad insistere per avere un incentivo maggiore a superare paure e debolezze. Allo stesso modo lui si inquadra bene in questa relazione educativa, ha ormai creato il suo “spazio del noi”, non ha timore ad esprimere le sue debolezze e le sue paure e anche lui sa riconoscere i segnali impliciti delle varie circostanze. C’è, quindi, familiarità nel rapporto tra insegnante e discente.
Che ne sarà di questa familiarità quando il prossimo anno accademico il sottoscritto dovrà ricostruire ex novo tutto questo con un altro studente e quando il “mio” studente dovrà rifare tutto con un altro insegnante? Che ne è del lavoro svolto quotidianamente durante questi mesi se dal prossimo anno un altro insegnate (con altre idee, altri metodi e altre strategie) imposterà tutto in modo diverso? Certo, lo studente potrebbe trovarsi meglio, potrebbe cioè apprezzare di più i nuovi metodi e le nuove idee, ma potrebbe anche trovarsi peggio. A quel punto che cosa sarebbe possibile fare, se non rassegnarsi a questa giostra sadica e certamente poco inclusiva? Questo è certamente il punto più problematico e più drammatico dell’intero quadro inclusivo italiano.
Ritornando al D. Lgs. 66/2017 uno degli aspetti più importanti che meritano di essere veramente valorizzati è l’introduzione nel sistema scolastico italiano del modello ICF (Classificazione del funzionamento, della disabilità e della salute, OMS) in almeno due fasi del processo inclusivo: la redazione del Profilo di funzionamento – che però è un documento ancora fantasma -, e per la stesura del PEI, il documento centrale intorno al quale orbita l’interno universo scolastico (relativamente all’inclusione degli studenti con disabilità). L’introduzione del modello ICF in un decreto legislativo è sicuramente un passo assai importante nell’economia complessiva dell’evoluzione del quadro normativo italiano nella misura in cui colloca quella che potrebbe – erroneamente – sembrare la compilazione formale di un ennesimo modello (il PEI) su di un piano che, invece, ha un grande spessore antropologico.
Difatti il modello bio-psico-sociale dell’ICF non è altro che un modello antropologico in base al quale l’essere umano viene considerato globalmente secondo una valutazione complessa in grado di tenere in debita considerazione aspetti biologici (relativi al funzionamento corporeo del soggetto), psicologici (cioè interni al soggetto) e sociali (relativi alla trama di relazioni intorno al soggetto) evitando inutili e pericolosi riduzionismi.
Questa logica, che filosoficamente potremmo definire “logica della complessità”, si estende anche ad altri aspetti della vasta architettura inclusiva. Fra tutti spicca l’importanza riconosciuta al GLO, il Gruppo di Lavoro Operativo per l’Inclusione, che è l’organismo più immediatamente vicino allo studente con disabilità. La composizione del GLO – che si occupa della stesura e dell’approvazione del PEI, e del suo periodico aggiornamento – è stata strutturata coerentemente ad una visione che vede nell’inclusione un processo complesso che ha bisogno di strategie altrettanto complesse (laddove con complessità intendo riferirmi ad una logica che si preoccupa di tenere insieme tutti i fattori coinvolti in un determinato sistema, senza nessuna arbitraria esclusione). Esso è composto dal Dirigente scolastico (o da un suo delegato), dall’intero consiglio di classe e dall’insegnante di sostegno, dalle figure professionali interne o esterne alla scuola, dalla famiglia, che è chiamata ad un’attiva partecipazione.
Per la scuola secondaria di secondo grado è possibile anche far partecipare lo studente o la studentessa, se nessun’altra esigenza sia d’impedimento a tale attivo coinvolgimento. L’eterogenea platea degli attori in gioco rispetta pienamente quella complessità che ormai è divenuta un principio cardine dell’antropologia, delle scienze della natura, delle scienze dell’educazione e di ogni azione che voglia davvero essere incisiva e rispettosa della realtà (che è sempre più eterogenea, complicata e strutturata rispetto a quanto le nostre astrazioni semplificanti ci fanno illusoriamente credere).
Tutto ciò non deve affatto illuderci, però. Mai dobbiamo abbandonare quello sguardo critico in grado di farci realizzare una lettura della realtà precisa e accurata che tenga conto anche delle falle del nostro sistema.
Il principio della complessità entra senz’altro nella logica dell’inclusione scolastica grazie all’ICF e al D. Lgs. 66/2017. Tuttavia dobbiamo anche tenere conto che molto spesso la complessità teorizzata nei documenti ufficiali del processo inclusivo nei fatti lascia il posto ad azioni isolate, non adeguatamente orchestrate in un’ottica di sinergica collaborazione tra tutti gli attori in gioco.
Molto spesso il parere medico è inesistente perché le figure preposte (neuropsichiatri) non prendono parte alle riunioni del GLO. Le famiglie, soprattutto nei territori più difficili e periferici, non partecipano attivamente alle riunioni e difatti non mettono in atto quella ‘parte’ di responsabilità del lavoro pedagogico che pure a loro toccherebbe in ottemperanza al patto di corresponsabilità educativa, che sovente resta ignorato. Infine i docenti curriculari non di rado lasciano all’insegnante di sostegno l’incombenza della stesura del PEI, che pure dovrebbe essere redatto (e non solo approvato) dall’intero GLO. Queste manchevolezze – assolutamente nefaste, che inficiano la corretta realizzazione del processo inclusivo – ci suggeriscono la necessità di pensare l’inclusione non tanto come una serie di azioni specifiche, quanto piuttosto come una cultura da consolidare ulteriormente, sempre di più.
L’inclusione è, in altri termini, un certo modo di intendere, interpretare e agire nel mondo. L’inclusione è, quindi, qualcosa di più delle azioni inclusive: essa è l’orizzonte di senso che inquadra quelle azioni dando ad esse quello spessore etico, antropologico e relazionale necessario per renderle veramente incisive e trasformative.
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